SHOAH
I nomi. - Negli anni tra il 1939 e il 1945, nel corso della guerra scatenata da A. Hitler per conquistare l'Europa, il nazismo sterminò tra i cinque e i sei milioni di ebrei, due terzi circa degli ebrei europei. A questo sterminio sono stati attribuiti nomi diversi. Quello qui adottato, Shoah, è un termine ebraico presente in vari passi del testo biblico, che si può tradurre con "distruzione, catastrofe". Usato in Israele fin dai primi anni del dopoguerra, e ufficializzato nel 1951 con la creazione del giorno della Shoah in memoria appunto dello sterminio nazista, esso si è diffuso in molta parte d'Europa negli anni Ottanta, dopo che il regista francese C. Lanzmann lo adottò come titolo per il suo famoso documentario, uscito nel 1985. Ma esso non è accettato ovunque. Così, mentre il termine Shoah, nonostante la sua origine biblica, corrisponde a un'immagine assolutamente laica dello sterminio, quello preferito dagli ebrei ortodossi, nell'intento di reinserire la S. nella catena di persecuzioni e di lutti che hanno caratterizzato la storia ebraica, è hurban (distruzione), già usato tradizionalmente per definire la distruzione del Tempio di Gerusalemme. Un termine molto diffuso in alternativa a S., e prevalente nel mondo anglosassone, è olocausto, di derivazione greca e usato nella traduzione latina del Levitico a designare un sacrificio in cui la vittima viene arsa interamente. Il termine deve la sua fortuna all'attività e alle opere di E. Wiesel e in particolare al suo La nuit, in cui il richiamo al carattere sacrificale dello sterminio veniva esplicitato attraverso un parallelo tra il sacrificio del popolo ebraico e il sacrificio di Isacco. Uscito nel 1958 (trad. it. 1980), il libro introdusse fra l'altro, in Francia, attraverso la prefazione fattane da F. Mauriac, l'uso del termine olocausto. Alla fine degli anni Settanta del 20° sec., la fortuna di questo termine è aumentata grazie a una popolare serie televisiva statunitense, Holocaust (1978), diretta da M.J. Chomsky. Il suo uso ha tuttavia suscitato molte reazioni negative, non ultime quelle di B. Bettelheim e di P. Levi, proprio per il carattere sacrificale e religioso che attribuisce allo sterminio. Molto diffuso è anche l'uso del termine genocidio, un neologismo coniato nel 1944 negli Stati Uniti dal giurista ebreo polacco R. Lemkin nell'opera Axis rule in occupied Europe proprio prendendo a modello lo sterminio nazista allora in atto, per definire "la distruzione di una nazione o di un gruppo etnico". Termine ad ampio spettro semantico, e tale da essere usato in riferimento a molti avvenimenti della storia come anche a molte forme di persecuzione diverse dall'annientamento fisico, esso è stato contestato da quanti ritengono che rischierebbe di far perdere di vista la specificità dello sterminio degli ebrei.
Ugualmente problematico in quanto appartiene al linguaggio dei carnefici è il termine 'soluzione finale', che fu, a partire dal 1942, l'espressione in codice adottata dai nazisti per designare il loro progetto di sterminio. L'uso dell'uno o dell'altro termine implica così criteri interpretativi diversi dello sterminio degli ebrei europei: un evento storico che, comunque lo si interpreti, è stato unanimemente considerato come un vero e proprio spartiacque che ha segnato con una profondità senza precedenti la storia di tutto il mondo occidentale.
Verso lo sterminio: 1933-1939. - Al centro dell'ideologia nazista, al cuore della sua politica, è il progetto di elevare la cosiddetta 'razza ariana' a razza dominante, e il connesso progetto di sbarazzarsi delle 'razze inferiori', e in primo luogo degli ebrei: l'antisemitismo (v. antigiudaismo).
Questi aspetti ideologici sono diventati centrali nella storiografia degli ultimi decenni, soprattutto a partire dalle analisi di G.L. Mosse sul nazismo e sull'ideologia razzista (in particolare The crisis of German ideology, 1964, trad. it. Le origini culturali del Terzo Reich, 1968; e The nationalization of the masses, 1974, trad. it. 1975). È questa un'ottica che consente di reinserire lo stesso antisemitismo nel progetto hitleriano di creazione di un uomo nuovo, 'razzialmente puro' nonché privo di imperfezioni e difetti, e di collegare lo sterminio degli ebrei iniziato nel 1941 con l'eliminazione compiuta da Hitler fra il 1939 e il 1941 di decine di migliaia di handicappati e malati di mente tedeschi, l''operazione eutanasia', sospesa in seguito alla reazione delle Chiese e dell'opinione pubblica dopo aver fatto oltre settantamila vittime. Fu in quella circostanza che venne sperimentata per la prima volta l'uccisione con il gas e furono creati centri di sterminio i cui responsabili, personale medico e non medico, andarono poi a dirigere i campi finalizzati all'eliminazione degli ebrei. Fu lì che iniziarono gli esperimenti medici sui disabili, che le équipes di medici (come quella diretta da J. Mengele ad Auschwitz e specializzata in esperimenti sui gemelli) avrebbero poi continuato, nei campi, sui corpi degli ebrei.Gli storici sono tuttavia divisi sul quando e sul come il regime hitleriano abbia deciso di mettere in atto lo sterminio degli ebrei. Non esistono infatti documenti scritti così espliciti da consentire di stabilire il momento preciso in cui la decisione fu presa, né a quale livello. Nel tentativo di dedurre questa decisione dagli eventi, gli studiosi si sono divisi tra intenzionalisti, ossia quanti ritengono che questo progetto fosse già presente nella mente di Hitler fin dal 1920, data del programma del partito nazista, e funzionalisti, ossia quanti ritengono che esso fosse il risultato delle vicende successive al 1933, e in particolare della guerra, e che fosse il frutto di una radicalizzazione progressiva all'interno del regime nazista, non pianificata direttamente da Hitler. La storiografia più recente (fra gli altri I. Kershaw, Ch.R. Browning, Ph. Burrin) tende ad adottare un'interpretazione intermedia, che sottolinea i nessi strettissimi tra le tappe della guerra d'aggressione scatenata da Hitler e la S., attribuendo però al Führer un ruolo cruciale nel processo decisionale che sanzionò la soluzione finale.
L'emanazione delle prime normative antiebraiche seguì immediatamente l'avvento di Hitler al potere, nel 1933. Erano leggi ancora molto parziali, che regolavano e limitavano la presenza di 'non ariani' negli apparati statali e nelle università e che bloccavano l'immigrazione ebraica dall'Europa orientale, ma erano comunque leggi che introducevano nel diritto la distinzione tra ariani e non ariani. "Era la prima volta, dopo l'illuminismo, e la Rivoluzione francese e le costituzioni liberali, che un Paese europeo industriale e progredito introduceva norme legislative contro una parte dei propri cittadini identificati con inediti criteri razzistici" (Sarfatti 2005, p. 32). Queste norme furono seguite, nel 1935, dalle cosiddette leggi di Norimberga: la legge sulla cittadinanza del Reich, che trasformava gli ebrei da cittadini in 'soggetti al Reich', e quella sulla difesa del sangue e dell'onore tedesco, che proibiva matrimoni e rapporti sessuali tra ebrei e 'ariani'. Numerose altre norme miravano a separare il più rigorosamente possibile gli ebrei dagli ariani. Per i discendenti di matrimonio misto veniva introdotta una complessa normativa sui 'meticci' (Mischlinge).
Le leggi di Norimberga furono il prototipo di quelle che, in numerosi Paesi europei, introdussero tra ebrei e non ebrei una netta discriminazione e rovesciarono, là dove era stato realizzato, il processo di emancipazione degli ebrei. Tra il 1938 e il 1939, tali norme furono emanate in numerosi Paesi: oltre che nell'Austria annessa al Reich, in Italia e in Ungheria, Romania, Slovacchia e in maniera più limitata in Polonia. In questi ultimi Paesi, la normativa adottata non era però fondata su base biologica, ma era rivolta soprattutto a privare della cittadinanza gli ebrei stranieri. In Italia, essa si modellò sulle leggi naziste, e quindi su base biologica, pur con alcune modifiche determinate dalla necessità di tener conto della Chiesa. Dopo l'inizio della guerra, leggi antisemite a carattere biologico furono emanate dalla Francia di Vichy (1940), da Bulgaria e Croazia (1941), mentre nel 1940 anche la Romania e nel 1941 Slovacchia e Ungheria modificavano le loro in senso biologico. Ovunque, tranne che nella Francia di Vichy, fu introdotto il divieto di matrimonio misto. L'Italia ha così il triste primato di essere l'unico Paese in cui leggi di tipo razzista-biologico sul modello tedesco entrarono in vigore prima dello scoppio della guerra e non in seguito a essa.
Ovunque, anche in Germania, le leggi antisemite non miravano a eliminare fisicamente gli ebrei, ma a separarli dal resto della popolazione e a cacciarli progressivamente dal Paese. Con il vasto trasferimento che comportavano dalla 'razza ebraica' a quella 'ariana' dei beni ebraici (e di uffici, incarichi universitari, cariche), esse coagularono intorno al regime il consenso di una parte almeno della popolazione. Esse non furono il preludio necessario allo sterminio, ma contenevano la possibilità della persecuzione attiva: innanzi tutto creando una vasta area di Paesi dove si era affermato un antisemitismo direttamente gestito dallo Stato, poi creando un clima largamente antisemita o comunque la consuetudine a vedere negli ebrei possibili bersagli della persecuzione, e infine separando e individuando gli ebrei e facendone dei bersagli visibili di pogrom, retate, deportazioni. In Italia, le leggi razziste del 1938 furono accompagnate da un censimento dei cittadini ebrei che più tardi, nel 1943, avrebbe rappresentato uno strumento essenziale per individuare gli ebrei e avviarli alla deportazione.
Lo sterminio (1939-1945). - Nel 1939, allo scoppio della guerra, l'emigrazione e il crollo delle nascite avevano più che dimezzato il numero degli ebrei tedeschi, mentre le leggi naziste avevano cancellato totalmente la loro presenza economica. Fin dal 1933 era iniziata l'emigrazione, un obiettivo a cui i nazisti cercavano in tutti i modi di costringere gli ebrei ma che era ostacolato da molti fattori, primo dei quali la difficoltà per i profughi di trovare Paesi disposti ad accoglierli. La volontà di far pressione sui Paesi europei e sugli Stati Uniti perché aprissero maggiormente le loro frontiere agli ebrei tedeschi non fu estranea alla svolta del 1938, quando la persecuzione divenne per la prima volta violenza fisica di massa. In un terribile pogrom organizzato direttamente dal regime tra il 9 e il 10 novembre 1938, e passato alla storia con il nome di Kristallnacht dalle vetrate infrante delle abitazioni e dei negozi distrutti, oltre duecento sinagoghe furono date alle fiamme, decine di ebrei assassinati, migliaia di altri ebrei arrestati. L'obiettivo di rendere il territorio tedesco privo di ebrei si stava realizzando.
La guerra scatenata da Hitler fece mutare drasticamente la situazione. Nel 1939, infatti, l'invasione tedesca della Polonia portò sotto il controllo diretto o indiretto del Reich circa due milioni di ebrei polacchi. Oltre un milione se ne erano aggiunti con l'annessione dell'Austria e della Boemia-Moravia tra il 1938 e il 1939 e l'occupazione di grande parte dell'Europa nel 1940, e altri quattro dopo l'attacco all'Unione Sovietica. La popolazione ebraica nel Reich e nei territori conquistati passò così dal mezzo milione di ebrei presenti nel 1933 in Germania ai sette milioni presenti nel 1941 nei territori occupati dal Reich. Era evidente che la guerra che Hitler aveva scatenato entrava immediatamente in conflitto con la precedente politica di separazione e di allontanamento degli ebrei. Data la priorità che la questione ebraica continuava ad avere nella politica hitleriana anche dopo lo scoppio della guerra, questa contraddizione sarebbe stata sanata e nuove strategie per risolvere il problema ebraico sarebbero state inventate.
A partire dal 1939 fino al 1941, i progetti nazisti furono concentrati sull'ipotesi di una deportazione a Est degli ebrei europei: si sarebbe dovuta creare una vera e propria 'riserva ebraica' o nella zona orientale della Polonia, il distretto di Lublino, o, dopo il 1940 e l'invasione della Francia, nella colonia francese del Madagascar. Il progetto di deportazione fu accompagnato dalla creazione in territorio polacco di zone destinate a radunare gli ebrei in attesa di deportazione, i cosiddetti ghetti, programmati dai nazisti già nel 1939, subito dopo l'occupazione della Polonia. Il ghetto di Lódź fu realizzato nella primavera del 1940, quello di Varsavia, destinato a contenere 300 mila ebrei, nell'autunno dello stesso anno. La creazione del ghetto di Varsavia fu accompagnata dall'imposizione agli ebrei polacchi di età superiore ai dieci anni di portare il segno distintivo, una stella gialla con sopra iscritta in nero la parola Jude, obbligo esteso nel 1941 agli ebrei maggiori di sei anni in tutti i Paesi occupati. Solo in Italia la stella gialla non fu mai introdotta.
Nel 1941, quando dopo l'attacco all'Unione Sovietica l'ipotesi della deportazione verso Est fu abbandonata, i ghetti, che erano nati per durare al massimo sei mesi, diventarono strutture più stabili. I nazisti dovettero decidere se tramutarli in zone destinate alla rapida estinzione degli ebrei per fame e malattie, oppure trasformarli in strutture in grado di mantenere, sia pure al livello minimo di sussistenza, gli ebrei che vi erano rinchiusi. Alla fine, dopo molti contrasti, prevalse la seconda ipotesi e furono incoraggiate forme di attività economica all'interno dei ghetti, in modo da renderli autosufficienti, pur nella totale separazione dall'esterno. Le risorse create con il lavoro furono tuttavia limitatissime, e i ghetti non furono mai davvero autosufficienti. Prima che fosse decisa la loro chiusura e la deportazione degli ebrei sopravvissuti nei campi di sterminio, oltre mezzo milione di ebrei vi morirono di fame e di malattie. Alla guida dei ghetti i nazisti preposero dei consigli ebraici, gli Judenräte, con il compito di eseguire le loro direttive. Questi consigli sono stati nel dopoguerra al centro di molte polemiche, e in particolare sono stati messi sotto accusa come una forma di collaborazionismo da H. Arendt nel suo libro sul processo ad A. Eichmann (Eichmann in Jerusalem. A report on the banality of evil, 1963; trad. it. La banalità del male, 1964). È inoltre vero che in molti casi la loro collaborazione si spinse, per salvare gli ebrei in grado di lavorare, fino al punto da organizzare la consegna di vecchi e bambini ai convogli della morte. Il presidente del Consiglio ebraico del ghetto di Varsavia, A. Czerniaków, si suicidò quando i nazisti gli diedero l'ordine di consegnare tutti i bambini del ghetto, tra cui quelli dell'orfanotrofio gestito dal grande pedagogista J. Korczak, che andò alla morte con loro. Comunque vada giudicata, la politica di collaborazione degli Judenräte suscitò dentro i ghetti la forte opposizione di molti giovani, soprattutto di quelli già politicizzati e militanti nelle file del movimento sionista e del Bund (il partito socialista ebraico, non sionista, diffuso in Lituania, Polonia e Russia), che organizzarono gruppi di resistenza armati.
A trasformare definitivamente gli ebrei, tutti gli ebrei, da un corpo estraneo da espellere in un nemico da eliminare fisicamente fu la svolta impressa alla guerra con l'attacco nazista all'Unione Sovietica nel giugno 1941, la cosiddetta operazione Barbarossa. Nelle zone sottoposte all'attacco nazista, essi erano circa quattro milioni, che andavano ad aggiungersi, almeno nelle prospettive di Hitler, a quanti già si trovavano prigionieri nell'Europa occupata. In questa battaglia, volta ad ampliare all'Est lo spazio vitale e ad asservire i popoli slavi, considerati razzialmente inferiori, l'ordine impartito all'esercito fu quello di abbandonare il rispetto delle norme belliche internazionali e di procedere all'eliminazione di tutti i dirigenti politici, gli intellettuali, gli ebrei. Era una guerra di sterminio contro i civili già adottata dai reparti speciali delle SS (Einsatzgruppen) durante l'occupazione della Polonia, e ora fatta propria dall'esercito tedesco nel suo insieme. Secondo le più attendibili ricostruzioni storiografiche, sono questi, tra il giugno e l'ottobre 1941, i mesi decisivi in cui il regime nazista adottò la decisione di sterminare tutti gli ebrei presenti sul territorio europeo, rinunciando alle ipotesi alternative di emigrazione. Nell'ottobre fu vietata l'emigrazione degli ebrei tedeschi e iniziò la loro deportazione nei ghetti polacchi. Nello stesso periodo iniziò la costruzione dei due campi di sterminio di Bełżec e Chełmno, mentre ad Auschwitz si tennero i primi esperimenti di uccisione con il gas, in un primo momento su soldati sovietici prigionieri. Sul fronte russo, ben presto cominciarono a essere massacrati tutti gli ebrei, donne, vecchi e bambini. L'assassinio, affidato agli Einsatzgruppen, avveniva mediante il sistema delle fucilazioni di massa. I corpi venivano sepolti in immense fosse comuni. Nel secondo semestre del 1941 circa mezzo milione di ebrei russi furono assassinati. Successivamente, il regime decise di accelerare i tempi e di creare un sistema che automatizzasse lo sterminio, rendendolo più veloce, liberando i soldati dal trauma di avere a che fare materialmente con la fucilazione di vecchi, donne e bambini, rendendo più facile lo smaltimento dei corpi. In alcuni casi si adottò inizialmente il sistema della gassazione in autocarri ermeticamente chiusi, poi la costruzione dei campi rese il massacro più asettico e perfezionato. L'adozione del campo di sterminio, con i suoi aspetti di efficienza tecnologica, di divisione del lavoro e di organizzazione burocratica, è vista da alcuni studiosi come l'aspetto che più di ogni altro fa della S. un frutto della modernità, ossia della "nostra società razionale moderna, nello stadio avanzato della nostra civiltà, e al culmine dello sviluppo culturale umano" (Z. Bauman, Modernity and the holocaust, 1989, trad. it. 1992, p. 11).
Il 20 gennaio 1942, nella Conferenza di Wannsee, a Berlino, fu approvata ufficialmente la 'soluzione finale' del problema ebraico. Il verbale della riunione fu distribuito nei ministeri e negli uffici nazisti. Gli ebrei, vi si diceva, dovevano essere 'evacuati', 'reinsediati', 'spostati con destinazione sconosciuta', fatti 'scomparire'. Entro l'estate del 1942 furono apprestati i sei campi di sterminio, tutti in territorio polacco: Chełmno, Bełżec, Sobibór, Majdanek, Treblinka, e Birkenau, un sottocampo di Auschwitz. Finalizzati al solo sterminio, non al lavoro, essi erano strutturalmente diversi dai campi di concentramento, dove i prigionieri erano destinati al lavoro, e in molti dei quali però furono in funzione le camere a gas. I campi di sterminio contenevano soltanto camere a gas e forni crematori. I soli prigionieri che vi sopravvivevano, con avvicendamenti molto rapidi, erano gli addetti alle operazioni di morte, i Sonderkommandos. "Il nuovo arrivato scendeva dal treno alla mattina, alla sera il suo cadavere era già bruciato, e i suoi abiti impacchettati […]; le operazioni dei campi di sterminio si avvicinavano, sotto certi aspetti, ai metodi di produzione complessi di una moderna fabbrica" scriveva R. Hilberg (1961; trad. it. 1999, p. 975). A Treblinka, dove furono deportati nel 1943 gli ebrei del ghetto di Varsavia, furono assassinati circa 750 mila ebrei, ad Auschwitz oltre un milione.
Auschwitz era un campo misto, era una sorta di grande città concentrazionaria con settori riservati ai prigionieri in grado di svolgere attività lavorative e parti, come il sottocampo di Birkenau, destinate al solo sterminio. All'arrivo dei vagoni piombati, i prigionieri venivano sottoposti a selezione: le donne con bambini piccoli, i vecchi, i malati e i bambini erano inviati immediatamente alla camera a gas. Il rigore di queste selezioni era variabile e dipendeva da molti fattori, quali l'affollamento nelle baracche, le epidemie, il prevalere delle necessità del lavoro finalizzato alla produzione bellica su quelle ideologiche dello sterminio. Su questo punto esisteva un conflitto fra quanti, soprattutto nelle alte sfere dell'esercito, sostenevano la priorità delle esigenze belliche, e quindi del lavoro dei prigionieri, e quanti, come Eichmann, il capo della sezione ebraica della Gestapo, sostenevano la priorità del progetto di sterminio. Quanti sfuggivano alla prima selezione, destinati a lavorare in condizioni terribili, morivano di malattia o di fame, o venivano spediti alla camera a gas nelle selezioni successive.
La messa in funzione dei campi di sterminio non pose però immediatamente fine ai ghetti, dove le deportazioni nei campi iniziarono nel 1942 e dove, in alcuni dei ghetti maggiori, si protrassero fino al 1944. Nel ghetto di Varsavia, alla notizia della deportazione generale, nell'aprile 1943, gli ebrei si ribellarono con le scarsissime armi loro fornite dalla resistenza polacca, e impegnarono i nazisti per oltre un mese. Nel maggio, il ghetto era raso al suolo e pochissimi erano i sopravvissuti. L'episodio del ghetto di Varsavia è stato solo il principale, e il più noto, di molti altri casi in cui gli ebrei, lungi dall'essere pecore mandate al macello senza reagire, come è stato loro più tardi rimproverato, si sono ribellati fin nelle situazioni più estreme. Gruppi di resistenti armati furono presenti in sette dei grandi ghetti polacchi e in decine di ghetti minori, mentre rivolte armate furono tentate in molti campi di lavoro e nei campi di sterminio di Chełmno, Treblinka, Sobibór, oltre che a Birkenau, nell'ottobre 1944. Forte era, da parte nazista, la preoccupazione per una possibile resistenza degli ebrei, che inceppasse o ritardasse la macchina della morte. La velocità era un elemento essenziale del piano di sterminio nazista, e lo divenne ancora di più quando l'esito negativo della guerra spinse i nazisti, invece che a privilegiare lo sforzo bellico e quindi ad ampliare il numero dei prigionieri destinati al lavoro, ad accelerare la macchina dello sterminio. Nemmeno quando la guerra era ormai perduta e l'esercito sovietico stava avvicinandosi ai campi polacchi, i nazisti rinunciarono a sterminare gli ebrei. Circa sessantamila prigionieri furono evacuati da Auschwitz e costretti a marciare verso Occidente. Chi non resisteva alla fatica veniva fucilato sul posto o abbandonato nella neve. Oltre quindicimila furono i morti in queste 'marce della morte' che coinvolsero, negli ultimi mesi della guerra e nell'esodo forzato dai campi, oltre 250 mila prigionieri. Il 27 gennaio 1945, un gruppo di soldati dell'Armata rossa apriva i cancelli di Auschwitz, dove era rimasto qualche migliaio di prigionieri. Il 15 aprile 1945, il campo di concentramento tedesco di Bergen Belsen veniva liberato dagli angloamericani. Da allora, il mondo avrebbe conosciuto tutti i particolari dello sterminio.
La Shoah in Italia. - Le leggi del 1938 avevano rappresentato per gli ebrei italiani il momento della persecuzione dei diritti, ma non avevano toccato la loro sicurezza fisica. Fu solo nel 1943, dopo la caduta del fascismo e l'armistizio dell'8 settembre, che la persecuzione dei diritti divenne persecuzione delle vite (Sarfatti 2000). Già pochi giorni prima che la caduta del fascismo, nel luglio 1943, li bloccasse, tuttavia, B. Mussolini aveva varato provvedimenti che consentivano o facilitavano la consegna ai nazisti degli ebrei stranieri in territorio italiano. Nell'Italia centro-settentrionale occupata e controllata militarmente dai tedeschi, l'amministrazione civile fu gestita dal nuovo governo repubblicano di Salò (RSI, Repubblica Sociale Italiana), tranne che nelle due 'zone di operazione' delle Prealpi e del litorale adriatico, che erano sotto la diretta amministrazione tedesca. Il 23 settembre i tedeschi emanarono un ordine che assoggettava tutti gli ebrei di nazionalità italiana alla deportazione e cominciarono a organizzare il loro arresto, affidato inizialmente a uno staff volante mandato direttamente dalla Germania e comandato da un fiduciario di Eichmann, Th. Dannecker. Preceduta da eccidi e rastrellamenti al Nord e da una razzia di ebrei che avvenne il 9 ottobre, a Trieste, ossia nella zona sotto diretta amministrazione tedesca, e che fu seguita dalla deportazione ad Auschwitz, la prima retata nei territori della RSI si svolse il 16 ottobre a Roma, a opera dei soli tedeschi. Muniti di documenti provenienti tanto dal censimento del 1938 quanto dagli archivi della comunità ebraica, precedentemente saccheggiata, questi circondarono all'alba di sabato 16 ottobre la zona del vecchio ghetto e arrestarono tutti gli ebrei che poterono trovare. Lo stesso accadde negli altri quartieri della città. Gli ebrei romani arrestati, 1023, furono deportati ad Auschwitz su convogli piombati in partenza dalla stazione Tiburtina. Alla selezione, forse perché nel campo infuriava un'epidemia di tifo, la percentuale di quanti furono avviati direttamente alle camere a gas fu altissima, l'89% dei deportati, tra cui oltre duecento bambini. Solo 15 di essi fecero ritorno, e tra essi solo una donna. Alla retata romana fecero seguito analoghe retate in Toscana, Emilia Romagna e Liguria, in seguito alle quali un altro convoglio di deportati partì per Auschwitz da Firenze il 9 novembre. Un terzo convoglio di ebrei radunati nel carcere di San Vittore partì nel dicembre da Milano. In questa fase, i tedeschi si avvalsero della collaborazione della polizia italiana.
Nel novembre, il governo della RSI emanò la Carta di Verona, che stabiliva che "gli appartenenti alla razza ebraica" erano considerati "stranieri" e di "nazionalità nemica". A partire dal 1° dicembre 1943, tutti gli ebrei presenti in Italia furono passibili di arresto da parte delle autorità italiane. Il governo della RSI avocava così a sé l'organizzazione della persecuzione antiebraica e vi coinvolgeva la polizia italiana e tutto l'apparato statale. In una riunione tenutasi a Berlino il 4 dicembre, di cui è rimasto il verbale, i tedeschi ne prendevano atto con soddisfazione, perché ritenevano che le forze di polizia tedesche fossero insufficienti a portare a termine da sole l'arresto di tutti gli ebrei italiani (L. Picciotto Fargion, Deportazione degli ebrei dall'Italia, in Dizionario dell'olocausto, 2004, p. 208). Uno dei primi risultati di questa nuova fase fu il convoglio partito per Auschwitz da Milano il 30 gennaio 1944 con oltre seicento ebrei, quasi tutti rastrellati dalla polizia italiana.
A partire dalle prime retate, intanto, gli ebrei erano passati a vivere nella clandestinità. Abbandonati case e luoghi nei quali potevano essere riconosciuti, una parte di loro aveva trovato rifugio in conventi e istituzioni religiose, altri erravano da un nascondiglio all'altro, sotto falso nome, sempre esposti al rischio di essere riconosciuti e arrestati. A partire dal dicembre 1943, gli ebrei rastrellati furono concentrati, in attesa di essere deportati ad Auschwitz, nel campo di Fossoli di Carpi, presso Modena, già precedentemente usato come campo per prigionieri britannici, ora riattivato per gli ebrei e dal febbraio 1944 posto sotto diretto controllo tedesco. Fossoli fu attivo fino all'agosto del 1944 quando, in seguito all'avanzata dal Sud delle truppe angloamericane, il concentramento degli ebrei fu trasferito al campo di Bolzano-Gries. Nove furono i convogli che partirono da Fossoli per Auschwitz, tre quelli da Bolzano. Gli ebrei arrestati nella zona del litorale adriatico, sotto diretta gestione tedesca, furono invece concentrati a Trieste nel campo della Risiera di San Sabba, che funzionò anche da campo di sterminio e che, unico in Europa occidentale, era dotato di un forno crematorio e di una rudimentale camera a gas. Il coordinamento raggiunto tra gli arresti e la concentrazione a Fossoli da parte degli italiani e la deportazione da parte dei tedeschi ha fatto individuare nel campo di Fossoli il punto di congiunzione tra le operazioni delle due polizie e ha fatto ipotizzare un accordo tra i due governi, realizzato tra il dicembre 1943 e il febbraio 1944, per attuare la deportazione degli ebrei: gli italiani arrestavano gli ebrei e li concentravano a Fossoli, da dove i tedeschi li deportavano ad Auschwitz (Sarfatti 2000).
Secondo l'importante ricerca Il libro della memoria. Gli ebrei deportati dall'Italia (1943-1945) della Picciotto Fargion (1991), 8078 furono gli ebrei deportati dall'Italia, 6806 i morti identificati, 950 quelli non identificati: complessivamente, il 16% circa degli ebrei italiani. I sopravvissuti furono 451, il 6%, dei deportati. Il numero di deportati italiani risulta così nettamente inferiore a quello dei deportati degli altri Paesi occupati dai nazisti. A spiegarlo, in primo luogo la breve durata della persecuzione in Italia, in confronto al resto d'Europa: dall'8 settembre 1943 al 4 giugno 1944 nel centro Italia, ancora un lungo anno, fino all'aprile 1945, nel Nord, dove però i convogli per Auschwitz cessarono nel dicembre 1944 perché il campo era ormai direttamente minacciato dall'avanzata dell'Armata rossa. Di per sé, questa spiegazione è evidentemente insufficiente, se si confronta il caso italiano con quello ungherese, dove nel solo spazio di pochi mesi, dal marzo 1944 al gennaio 1945, furono sterminati oltre mezzo milione di ebrei. Bisogna allora prendere in considerazione altri fattori, primo fra i quali il fatto che gli ebrei italiani erano difficilmente distinguibili dagli altri, per abiti, fattezze e costumi, e poterono quindi nascondersi più facilmente, una volta passati nella clandestinità. Inoltre, forte fu la solidarietà della popolazione. Gli stessi italiani che avevano assistito senza battere ciglio alla persecuzione dei diritti, furono invece solidali quando la persecuzione mise in gioco la vita degli ebrei, il destino di donne, vecchi e bambini. Da parte sua, la Chiesa mise in atto una vasta opera di soccorso, aprendo ai perseguitati chiese e conventi e salvando migliaia di vite. Ma lo stesso fecero persone comuni, che a rischio della loro vita offrirono rifugio ai perseguitati, e li aiutarono e nutrirono dividendo con loro il cibo delle già scarse carte annonarie: oltre trecentosettanta italiani hanno ricevuto per questa loro opera da parte dello Stato di Israele il riconoscimento di 'giusti tra le nazioni'.
La memoria. - Nel dopoguerra, l'immagine che la nuova Italia volle presentare al mondo fu quella di un'Italia antifascista, che aveva trovato nella guerra partigiana il riscatto da una dittatura ventennale. Un'immagine in parte mitica, dato il carattere fortemente minoritario dell'antifascismo e della resistenza (v.) e il vasto consenso goduto nel ventennio dal fascismo, ma essenziale nel processo di costruzione di una nuova Italia. In quest'immagine, l'aiuto offerto agli ebrei perseguitati giocò un ruolo importante. Ne derivò un mito che fu poi ripreso da una parte della storiografia, quello del 'buon italiano', che protegge gli ebrei e ostacola gli ordini nazisti di persecuzione. Solo a partire dagli anni Ottanta, questo mito è stato seriamente rivisto, ed è emerso con chiarezza da una parte il fatto che le leggi del 1938 furono mandate in esecuzione con solerzia e zelo, dall'altra che la RSI ebbe un ruolo attivo nell'arresto e nella deportazione degli ebrei italiani. Questo quadro non inficia quello assai diverso che emerge invece dal comportamento delle amministrazioni italiane in Francia, Croazia, Grecia nel periodo dell'occupazione italiana. Qui le amministrazioni e i diplomatici italiani non consegnarono gli ebrei ai tedeschi e li protessero efficacemente dalla deportazione. Ma questo avvenne prima del settembre 1943, a opera del governo italiano e non della RSI, e per di più in un momento in cui in Italia non vi era ancora una persecuzione attiva degli ebrei. La revisione dell'immagine del 'buon italiano' ha mutato anche il paradigma interpretativo e ha fatto accogliere dalla storiografia una periodizzazione lunga della S. in Italia, facendola iniziare dal 1938 per arrivare, sia pur con fasi diverse, fino al 1945 (Sarfatti 2000).
Quale fu, e a che livello, la conoscenza che i Paesi europei non occupati e gli Stati Uniti ebbero del destino che stavano subendo gli ebrei europei? È questo un altro punto chiave della discussione storiografica, legato anche allo scottante problema del perché gli Alleati non fecero nulla per difendere gli ebrei, quando sarebbe bastato bombardare sistematicamente le linee ferroviarie che portavano ad Auschwitz per inceppare sensibilmente la macchina dello sterminio. Come la documentazione prova in maniera irrefutabile, già nel 1942 il fatto che gli ebrei d'Europa venivano sterminati era conosciuto, nelle linee generali se non nei particolari, da tutti i governi belligeranti e neutrali, dalla stampa e dall'opinione pubblica di molti Paesi, dalle organizzazioni ebraiche. Informazioni dettagliate vennero inviate dalla resistenza polacca attraverso inviati che ebbero incontri al massimo livello con il governo inglese e statunitense. Molte notizie non vennero tuttavia credute, altre furono sottovalutate. In ogni caso, il destino degli ebrei non divenne in nessun momento prioritario nella strategia militare degli Alleati.
Un punto assai scottante della discussione storiografica riguarda la posizione della Chiesa nei confronti dello sterminio nazista. Come il resto dei governi europei, anche il Vaticano riceveva fin dal 1942 notizie dettagliate sullo sterminio degli ebrei. Tuttavia il papa continuò, anche di fronte alle notizie e alle richieste di intervento che giungevano da più parti, a mantenere un atteggiamento di grande prudenza, che non arrivò mai a una denuncia chiara dello sterminio e che preferì evitare prese di posizione decise contro il nazismo. Una parte della storiografia ha, di conseguenza, accusato Pio xii per i suoi 'silenzi', mentre un'altra lo ha difeso ed esaltato per l'aiuto dato concretamente agli ebrei perseguitati. Tra i due estremi, si colloca una storiografia attenta al peso di questi silenzi, ma anche a coglierne le radici nell'incapacità di comprendere la novità del nazismo e della sua politica di sterminio, nel peso della tradizione antigiudaica e non ultimo nella volontà di mantenere la consueta neutralità della Chiesa e nel timore di provocare disastri ancora maggiori (Miccoli 2000; Moro 2002).
Un altro punto tuttora aperto sia a livello storiografico sia sul piano della riflessione etico-politica è quello dell'unicità della S., e quindi della legittimità di un confronto con gli altri genocidi che hanno costellato il 20° secolo. L'orientamento prevalente negli interpreti più recenti (J.-M. Chaumont, A. Rosenbaum, D. Biale) è quello di considerare la memoria della S. soprattutto come un paradigma interpretativo del presente. Perché, se è vero che la S. ha rappresentato una svolta senza precedenti nella storia d'Europa, è anche vero che, proprio riflettendo su di essa, sono nati i tribunali internazionali e una nuova attenzione al problema dei diritti umani e dei rapporti internazionali. L'unicità della S. sarebbe così soprattutto nell'uso che si fa della sua memoria.
La storiografia (fra gli altri, A. Bravo, T. Segev, A. Wieviorka) ha dedicato anche molta attenzione al problema della costruzione della memoria della Shoah. Indistinto, nell'immediato dopoguerra, dagli orrori della guerra, della fame, dei bombardamenti, dell'internamento in campi di prigionia tedeschi di oltre 700 mila soldati italiani, lo sterminio degli ebrei ha finito per assumere, dopo un quindicennio circa di oblio e rimozione, un posto centrale, man mano che la storiografia dava all'antisemitismo nazista il ruolo motore della guerra e man mano che la memoria della S. cresceva e diventava l'evento limite del Novecento. Nemmeno il negazionismo, ossia il rifiuto di riconoscere il fatto storico della S., portato avanti in vari Paesi, da destra come da sinistra, a partire dagli anni Sessanta, e tuttora diffusissimo nella rete di Internet, è riuscito a intaccare questa presa di coscienza collettiva. Un ruolo chiave in questo processo di costruzione della memoria hanno assunto le opere di memorialistica e di riflessione, in particolare quelle di P. Levi, Se questo è un uomo (1947) e I sommersi e i salvati (1986), che hanno conosciuto grandissima diffusione in tutto il mondo anche a livello scolastico, e i film e i serial televisivi, che indipendentemente dal loro valore hanno diffuso ovunque l'immagine della Shoah. Fondamentale è ed è stata anche la testimonianza che i sopravvissuti si sono impegnati a portare ovunque, in particolare nelle scuole, e che ha fatto della nostra 'l'era del testimone', quella in cui si è realizzato un fenomeno prima sconosciuto, ovvero l'avvento della testimonianza di massa, l'urgenza del ricordare e far ricordare. Questo processo di costruzione della memoria, che si è realizzato con tempi e modalità simili in Italia e in Francia, ma che ha conosciuto anche in Israele ritmi analoghi di oblio e memoria, si è avvalso non poco anche dei momenti processuali, e in particolare del processo Eichmann, il massimo responsabile dello sterminio nazista, rapito nel 1960 in Argentina dai servizi segreti israeliani, processato e impiccato in Israele, dopo un processo pubblico con centinaia di testimoni. La decisione di creare in tutta Europa una 'giornata della memoria' dedicata al ricordo della S., fissata per il 27 gennaio, la data della liberazione da parte dell'Armata rossa del campo di Auschwitz, ha segnato un'altra tappa nel processo di costruzione e di rielaborazione della memoria. Il problema, ormai, come sottolinea la storiografia più recente, non è più ricordare, ma come ricordare, ossia come utilizzare per il presente "gli strumenti che la memoria del genocidio ha elaborato nel corso della sua storia" (Wieviorka 1998; trad. it. 1999, p. 16).
Bibl.: L. Poliakov, Bréviaire de la haine, Paris 1951 (trad. it. Il nazismo e lo sterminio degli ebrei, Torino 1955); R. Hilberg, The destruction of the European Jews, London 1961 (trad. it. Torino 1995), New York-London 19852 riv. (trad. it. Torino 1999), New Haven (CT) 20033; I. Kershaw, The Nazi dictatorship: problems and perspectives of interpretation, New York-London 1985, 19932 riv. (trad. it. Che cos'è il nazismo?, Torino 1995); Ch.R. Browning, Ordinary men: Reserve Police Battalion 101 and the final solution in Poland, New York 1992 (trad. it. Torino 1995); Ch.R. Browning, The path to genocide, Cambridge-New York 1992 (trad. it. Verso il genocidio, Milano 1998); R. Hilberg, Perpetrators, victims, bystanders: the Jewish catastrophe, 1933-1945, New York 1992 (trad. it. Milano 1994); A. Wieviorka, L'ère du témoin, Paris 1998 (trad. it. Milano 1999); D. Engel, The Holocaust. The Third Reich and the Jews, London 2000 (trad. it. Bologna 2005); G. Miccoli, I dilemmi e i silenzi di Pio xii, Milano 2000; M. Sarfatti, Gli ebrei nell'Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione, Torino 2000, 20072; G. Corni, I ghetti di Hitler. Voci da una società sotto assedio 1939-1944, Bologna 2001; A.-V. Sullam Calimani, I nomi dello sterminio, Torino 2001; The Holocaust encyclopedia, ed. W. Laqueur, J.T. Baumel, New Haven (CT) 2001 (ed. it. Dizionario dell'olocausto, a cura di A. Cavaglion, Torino 2004); R. Moro, La Chiesa e lo sterminio degli ebrei, Bologna 2002; M. Sarfatti, La Shoah in Italia. La persecuzione degli ebrei sotto il fascismo, Torino 2005; Storia della Shoah. La crisi dell'Europa, lo sterminio degli ebrei e la memoria del xx secolo, a cura di M. Cattaruzza, M. Flores, S. Levis Sullam, E. Traverso, 5 voll., Torino 2005-06.