Shoah
Lo sterminio degli ebrei d’Europa
«Voi che vivete sicuri nelle vostre tiepide case, voi che trovate tornando a sera il cibo caldo e visi amici: considerate se questo è un uomo. Che lavora nel fango. Che non conosce pace. Che lotta per mezzo pane. Che muore per un sì o per un no». Sono parole di Primo Levi, testimone sopravvissuto allo sterminio nazista. Fra il 1939 e il 1945 circa sei milioni di ebrei vengono sistematicamente uccisi dai nazisti del Terzo Reich. L’obiettivo è quello di creare un mondo più ‘puro’ e ‘pulito’. La realtà è l’orrore più grande che la storia abbia mai conosciuto
Shoah è una parola ebraica che significa «catastrofe»: questa è una definizione preferibile al termine olocausto, che indica invece una forma di sacrificio a Dio in cui la vittima da offrire veniva bruciata viva sull’altare. Parlare di olocausto sembrerebbe dare un senso all’orrore dello sterminio di quasi sei milioni di ebrei, in quanto tale termine richiama un contatto con il Signore, con il cielo. Quel cielo allora ingrigito dal fumo dei forni crematori, dove ogni giorno migliaia di cadaveri venivano bruciati. Allora, invece, e dopo di allora, in molti si sono chiesti dove mai fosse Dio, in quell’inferno.
C’è una collina a Gerusalemme che si chiama Yad Vashem: questo nome è un’espressione che ricorre nella Bibbia e che in ebraico significa «mano e nome», ma in realtà indica il ricordo, la memoria di chi non esiste più. Sulla sommità di questa collina c’è il monumento dedicato allo sterminio. Accanto vi è stato costruito (1987) un memoriale ai bambini: più di un milione di bambini, infatti, sono morti in quegli anni. Qui, nel buio totale, ci sono cinque candele accese, e in un gioco di specchi le fiammelle di queste candele si riflettono all’infinito. Pare un piccolo cielo stellato. Nel buio, una voce scandisce i nomi di questi bambini che non ci sono più, uno dopo l’altro. Ci mette circa tre anni per citarli tutti.
A Yad Vashem c’è anche un bosco. È un bosco speciale, perché ogni albero porta un nome: si chiama la foresta dei giusti, e i nomi degli alberi sono quelli di persone – uomini e donne di tante diverse nazionalità – che, a rischio della loro vita, hanno aiutato, protetto, nascosto, salvato degli ebrei nell’Europa nazista. Persone, insomma, che non hanno piegato il capo all’orrore. Ci sono anche tanti nomi italiani, fra questi alberi.
Fra il 1939 e il 1945, dunque, un numero enorme di persone furono trucidati dai nazisti (nazionalsocialismo) per il solo fatto di essere ebrei. Contemporaneamente i nazisti sterminarono zingari, omosessuali, testimoni di Geova, dissidenti politici. Lo scopo di questo regime era infatti quello di creare un mondo ‘purificato’ da tutto ciò che non era rappresentato da sé stessi. Se gli Alleati non avessero vinto la guerra, il programma nazista sarebbe proseguito nella sua folle e terribile opera, iniziata molto tempo prima con una sistematica eliminazione, in Germania, di portatori di handicap e malati di mente.
Questo crimine, e gli altri che seguirono, spiega meglio di ogni dotta analisi la doppia natura della Shoah, che è per un verso un episodio, per quanto il più grande e orrendo, del folle – ma determinato – progetto nazista di costruire un mondo a propria immagine e somiglianza, nel quale tutti i diversi (e fra questi non solo gli ebrei) andavano eliminati. Per un altro verso, però, è un momento della storia che non ha eguali, un crimine contro l’umanità del tutto particolare, perché mai prima di allora era stato perpetrato il genocidio di un popolo macchiato dalla sola colpa di essere tale.
Nel contesto della Shoah morirono milioni di persone di ogni livello sociale ed economico, ma per lo più poveri. Perché la soluzione finale (così i nazisti chiamavano ‘l’operazione’) partì dalla Germania, ma si espanse via via con le conquiste del Terzo Reich, che invase Austria e Polonia, Francia e Russia, Olanda, Grecia e poi anche l’Italia. E in particolare nell’Europa settentrionale (Polonia, Repubbliche baltiche, Russia Bianca) i nazisti incontrarono sulla propria strada milioni di ebrei che componevano il mondo ashkenazita fatto di piccoli borghi di campagna, di falegnami e portatori d’acqua, di piccoli bottegai e di tanta povera gente, ma anche di una cultura millenaria.
Tutto questo è stato cancellato. Auschwitz, Majdanek, Dachau, Chelmno, Treblinka sono alcuni fra i nomi dei campi di sterminio. Qui ogni giorno arrivavano treni merci carichi di persone. Sul binario avveniva la terribile selezione – ma non ovunque: Treblinka, per esempio, era soltanto un campo di sterminio. Nessuno veniva lasciato in vita, se non i pochissimi prigionieri addetti alla ‘manutenzione’ della macchina assassina: la maggioranza era spedita nelle camere a gas, una esigua minoranza veniva lasciata sopravvivere. Le camere a gas erano camuffate da docce: la gente era invitata a spogliarsi e a entrare. In otto minuti circa arrivava la morte. Poi c’erano i forni: la soluzione più ‘comoda’ per eliminare migliaia di cadaveri alla volta.
I campi di sterminio erano anche luoghi di torture, di folli e inutili esperimenti su cavie umane (come gli esperimenti di Josef Mengele sui gemelli), di lavori sfiancanti e selezioni quotidiane: bastava un’andatura un poco zoppa, uno sguardo troppo sicuro per farsi mandare nelle camere a gas. Tutto questo è stato raccontato in molti libri dai sopravvissuti tornati a casa, alla fine della guerra. Primo Levi ne è il testimone più grande.
La Shoah non fu soltanto campi di sterminio: i nazisti uccisero migliaia di ebrei a fucilate, seppellendoli poi in immense fosse comuni. Li segregarono nei ghetti, dove morivano di stenti. Si trattò di un genocidio articolato, studiato a tavolino, cui parteciparono non solo i terribili ufficiali delle SS, guardiani dei campi, o gli architetti della morte, come Adolf Eichmann, la mente dell’operazione: la Shoah fu uno sterminio di massa, perpetrato da una massa di persone che, in misura diversa, collaborarono a questo crimine. I soldati che catturavano gli ebrei, le aziende che producevano il gas per uccidere, i macchinisti dei treni che partivano pieni e tornavano vuoti. La gente che vedeva passare questi convogli udiva le grida e intorno ad Auschwitz sentiva il lezzo di carne bruciata, notava la cenere depositarsi sui campi coltivati. In questo senso, la Shoah coinvolse tutta l’Europa.
In Italia la Shoah ha una sua storia. Il regime fascista (fascismo), infatti, aveva emanato, nel 1938, una legislazione contro gli ebrei. Le leggi razziali li escludevano dalle scuole, da molte professioni, dalla vita sociale. Mussolini le volle e il re le firmò, per emarginare gli ebrei. Poi, nel settembre del 1943 il regime fascista crollò, i Tedeschi da alleati divennero nemici e invasero l’Italia. Allora cominciò anche qui la caccia all’ebreo, non più soltanto per emarginarlo, bensì per ucciderlo, catturarlo e spedirlo nei campi di sterminio. Il campo di transito di Fossoli, in provincia di Modena, divenne il luogo di transito per questi tristi carichi umani. La Risiera di San Sabba, invece, nei pressi di Trieste, fu un luogo di morte: molti ebrei vi vennero trucidati.
Circa ottomila ebrei italiani morirono nei campi di sterminio: arrivavano da Roma e da Torino, da Mantova e Venezia, da tante altre città del nostro paese. Si consideravano persone come tutte le altre, credevano finita la lunga, millenaria stagione dell’odio e del disprezzo, della diffidenza e dell’emarginazione. Si sbagliavano.
«Vorrei parlarvi di un argomento molto importante. Di un argomento di cui possiamo parlare tra noi, ma di cui non dobbiamo far parola davanti agli altri. L’argomento è l’evacuazione degli ebrei, lo sterminio del popolo ebraico. Il popolo ebraico sarà sterminato, dice ogni iscritto al partito. Non ci sono dubbi, è nel programma: eliminazione degli ebrei, sterminio»(da un discorso pronunciato da Heinrich Himmler il 4 ottobre del 1943).
«Mia suocera prese la piccola e andò a sinistra. Regina, Esther e io andammo a destra. A sinistra stava tutta la gente che venne mandata alle camere a gas, ai forni crematori, o come si chiamavano. Noi fummo rimesse in fila per cinque. Per i Tedeschi, i bambini – e le loro madri – non erano che carne per la macina dello sterminio. Non avevano alcun interesse a prolungarne la vita, nemmeno di un attimo. La loro morte rientrava in una procedura automatica» (testimonianza raccolta da Deborah Dwork).