SICILIA, REGNO DI, AMMINISTRAZIONE DELLA GIUSTIZIA
Numerosi sono i passi del Liber Constitutionum Regni Siciliae in cui Federico II definisce l'amministrazione della giustizia il principale compito del sovrano. "Nos itaque [...] volentes duplicata talenta nobis credita reddere Deo vivo in reverentiam Iesu Christi [...] colendo iustitiam et iura condendo mactare disponimus vitulum laborium ei parti nostrorum regiminum primitus providentes, que impresenti provisione nostra circa iustitiam magis dignoscitur indigere", dichiarava, ad esempio, nel proemio. Nella costituzione I, 8, poi, affermava: "Pacis cultum, qui a iustitia et quo iustitia abesse non potest, per universas et singulas partes regni nostri precipimus observari", mentre nella I, 31 proclamava: "Oportet igitur Cesarem fore iustitie patrem et filium, dominum et ministrum, patrem et dominum in edendo iustitiam et editam conservando; sic et iustitiam venerando sit filius et ipsius copiam ministrando minister". E dedicava la I, 32 al "cultus iustitie". Per Federico II, dunque, il sovrano era garante della giustizia, del rispetto ‒ cioè ‒ del diritto vigente nel Regno, dato che la giustizia costituiva lo strumento più sicuro per assicurare pace stabile e duratura al popolo che Dio gli aveva affidato direttamente. A questo fine il monarca svevo dichiarava nella costituzione I, 33 di aver tessuto "iustitie telam ordinarie" e di volerla usare arricchendola con "misericordie rivulis". E poiché il rispetto del diritto vigente nel Regno comportava necessariamente anche il riconoscimento e la tutela degli ordinamenti particolari ‒ il signorile, il feudale, l'ecclesiastico, il cittadino, quello spontaneamente maturato nelle varie università ‒, il sovrano riconosceva le forme di giustizia che da questi erano previste. Esplicitamente lo dichiarava Federico II nella costituzione I, 73, là dove disponeva: "De questionibus, quas inter homines prelatorum, comitum et baronum in terris nostri demanii, prout assolet, habitantes moveri contigit, de quibus prelati iidem, comites et barones iurisdictionem aut curiam habere noscuntur, volumus, ut iudex per nostram curiam pro tempore constitutus ad curiam prelatorum seu nobilium se conferat [...]". Prelati, conti, baroni erano dunque indicati come titolari di jurisdictio che esercitavano nelle loro corti. Ne consegue, allora, che un'analisi dell'amministrazione della giustizia nel Regno svevo non può limitarsi alla giurisdizione regia, ma deve comprendere anche quella degli ordinamenti particolari.
Per quanto riguarda innanzi tutto la giustizia regia, la sua amministrazione risulta ampiamente disciplinata nel Liber Constitutionum da norme che possono essere raccolte in tre gruppi: quelle che individuano una sfera di competenza riservata in via esclusiva al monarca e alle sue corti, quelle che definiscono la competenza dei magistrati regi e, infine, quelle che regolano la procedura da seguire nelle corti di questi ultimi.
Delineando l'ambito della giustizia riservata al sovrano, Federico II ricalcava le orme dell'avo normanno Ruggero II, il quale nelle Assise di Ariano (v.) del 1140 aveva assegnato all'esclusiva competenza delle proprie corti un gruppo di reati particolarmente rilevanti per la pace e per l'ordine sociale. Una scelta politica, questa, che nel sec. XII risulta adottata anche dall'altra monarchia normanna, quella inglese: la raccolta di consuetudini, compilata in Inghilterra durante il regno di Enrico I (1100-1135) e nota con il titolo di Leges Henrici I, attribuisce al solo monarca e alle sue corti la giurisdizione relativa ad alcuni crimini, sottraendola agli ordinamenti particolari. Riallacciandosi, dunque, a una consolidata tradizione e ampliando rispetto alle Assise di Ariano la riserva penale del monarca, Federico II proibiva innanzi tutto la giustizia privata (I, 8), il duello (I, 44) ‒ ancorché con le eccezioni definite da II, 32 e II, 33 ‒, le guerre private e le rappresaglie (I, 9), nonché la detenzione e il porto d'armi da parte di quanti non appartenessero al ceto militare (I, 10; I, 11; I, 12). Inoltre, assegnava alla giustizia regia i reati contro la persona e la sacralità del sovrano, come la lesa maestà (proemio; I, 44), la critica alle decisioni del monarca (I, 4) e le ingiurie rivolte ai componenti della Curia regis (I, 30); poi, i delitti contro la religione e il clero, quali l'eresia ‒ in particolare, la patarina ‒ (proemio; I, 1; I, 2), l'apostasia (I, 3), il sacrilegio (I, 5), la bestemmia (III, 91), la violazione di sepolcri (III, 93), il rapimento di monache (I, 20); infine, i reati comuni di usura (I, 6.1; I, 6.2), di percosse (I, 13; I, 14), di ratto di vergini e vedove (I, 22.1), di violenza alle donne (I, 22.2; I, 44), alle meretrici (I, 21), di turbamento della pace sociale (I, 25; I, 26), di omicidio (I, 27; I, 28; III, 88; III, 89), di latrocinio e furto (I, 44), di violazione di case (I, 44), di incendio (I, 44; III, 87), di taglio di alberi da frutto e di viti (I, 44), di falsificazione di documenti (III, 61), di adulterazione di moneta (III, 62; III, 63), di falsa testimonianza (III, 65) e di spergiuro (III, 90), di sottrazione di testamento (III, 66; III, 67), di veneficio (III, 69-73), di adulterio (III, 74; ma il marito che coglieva la moglie in flagranza di reato era legittimato a uccidere lei e il correo: III, 81), di vendita di uomo libero (III, 86), di gioco a dadi (III, 90). Si trattava, dunque, di un ampio settore della giustizia penale che lasciava alle corti degli ordinamenti particolari la sola competenza per i delitti minori. Peraltro, la giustizia penale non costituiva l'unico campo d'intervento delle corti regie: l'esame delle loro competenze, infatti, mostra che i magistrati del sovrano avevano ampia giurisdizione, anche se non esclusiva, in materia civile, signorile e feudale.
Il secondo gruppo di costituzioni riguarda i magistrati regi, un elenco dei quali viene fornito dalla I, 17. In essa si legge: "Fidelium nostrorum iniurias, qui sola protectionis nostre post Deum defensione letantur, pro posse precidere cupientes magistro iustitiario, iustitiariis, camerariis, regni nostri baiulis et locorum iudicibus, qui vice administrationis nostre gubernacula susceperunt, defensas imponendi concedimus facultatem [...]". Alle magistrature qui ricordate si aggiungevano, poi, quella dei capitani e maestri giustizieri, definita dall'Extravagante I, 43 del 1240, la curia dei pari, disciplinata dalla I, 47, e le curie generali regionali, regolate dall'Extravagante E. 2 del 1233.
Al vertice dell'ordinamento giudiziario regio si trovava il maestro giustiziere il quale presiedeva la Magna Curia Regis (v.). L'ufficio di maestro giustiziere era nato nel periodo normanno come carica collegiale assegnata a tre titolari; e come tale era proseguito sotto Enrico VI e Costanza. Le scarse notizie a noi pervenute in merito alla magistratura nei difficili anni della minorità di Federico II e della sua lontananza dal Regno non consentono di stabilire con certezza se la carica fosse divenuta allora individuale o si fosse conservata collegiale. Di maestri giustizieri, comunque, Federico II parla nelle Assise di Capua (v.) del 1220 (Ass. V, VI e VII), legittimando l'idea della continuità, o quanto meno della restaurazione, della forma normanna dell'ufficio al momento del suo ritorno nel Regno. Subito dopo il monarca riformò la magistratura, trasformandola in individuale: in luogo dei tre maestri giustizieri fu da allora nominato un solo magistrato, di regola non giurista (prima il vescovo Riccardo di Melfi, poi un certo Lamberto, quindi dal 1223 al 1242 Enrico di Morra, infine, dopo un periodo di vacanza della carica, Riccardo di Montenero), affiancato da quattro o cinque giudici esperti di diritto, scelti in un primo momento tra i giudici e gli altri ufficiali cittadini, successivamente tra i dottori dello Studio di Napoli (v.). Il maestro giustiziere e i giudici che lo affiancavano costituivano la MagnaCuria Regis e le loro competenze erano disciplinate dalle costituzioni I, 38.1; I, 38.2; I, 39.1; I, 39.2; I, 40.1; I, 40.2; I, 41; I, 42.1; I, 42.2. Esse riguardavano: a) il reato di lesa maestà, ove il reato non fosse stato portato davanti alla corte di un giustiziere regionale; b) le vertenze relative ai feudi 'quaternati', i feudi ‒ cioè ‒ iscritti nei registri regi e il cui superior era il sovrano; c) le questioni di competenza tra giudici ordinari e giudici speciali; d) le vertenze insorte tra gli ufficiali della corte regia; e) le vertenze delle miserabiles personae che godevano di tale privilegio; f) l'appello per denegata ed errata giustizia; g) le questioni di competenza dei giudici inferiori; h) la revisione di provvedimenti giudiziari e restrittivi adottati da giudici locali e rivelatisi errati o infondati; i) l'esame di petitiones inviate dalle comunità del Regno; l) la promozione di inquisitiones generali nel territorio del Regno e l'esame dei loro risultati.
Distinta da quella di gran giustiziere è poi la carica, quasi omonima, di capitano e maestro giustiziere (v. Capitani dei Regni d'Italia e di Sicilia; Giustiziere) che Colliva ha indicato "di difficile definizione in relazione sia alla costante incertezza terminologica nei testi delle Costituzioni federiciane nelle edizioni intermedie, sia all'assenza quasi totale di altre fonti o documentazioni in materia" (1964, p. 124). L'ufficio è disciplinato da un'unica costituzione, ovvero la novella I, 43 del 1240 presente solo in alcuni manoscritti del Liber Constitutionum. In proposito si deve rilevare che un magistrato indicato con il titolo di maestro giustiziere è testimoniato in età normanna per la Calabria sin dal regno di Ruggero II, mentre a partire dal 1175 risulta attivo un maestro giustiziere e connestabile di Puglia e Terra di Lavoro con il compito di coordinare le attività dei giustizieri locali e con l'autorità di sostituirli nelle vertenze di maggior importanza. Le fonti sveve testimoniano la continuità della magistratura pugliese sotto Enrico VI e Costanza, nonché nei primi decenni del sec. XIII, con la novità costituita dalla separazione tra la carica di maestro giustiziere e quella di maestro capitano intervenuta negli ultimi anni del sec. XII. Proseguì anche l'ufficio di maestro giustiziere di Calabria, mentre dal 1195 ne è attestato un altro per la Sicilia che dovette restare in vita, pur se con non lievi difficoltà, negli anni successivi. A detta di Colliva, nel corso del quarto decennio del sec. XIII Federico II, volendo garantire al Regno un assetto istituzionale stabile e funzionale anche durante le sue assenze, creò due grandi circoscrizioni territoriali, la prima comprendente le regioni continentali fino alla Calabria, la seconda costituita da quest'ultima regione e dalla Sicilia, e affidò ciascuna di loro a un capitano e maestro giustiziere quali organi intermedi tra gli ufficiali regi locali e provinciali, da un canto, la Magna Curia e il consiglio di reggenza dall'altro. Detti magistrati superregionali avevano il compito di percorrere la circoscrizione loro assegnata al fine di amministrarvi la giustizia, avocando alla propria corte i giudizi penali relativi ai crimini più gravi, operando come corte di appello nei confronti dei magistrati inferiori, ricevendo le lagnanze delle comunità contro gli ufficiali regi e procedendo a giudicarle e, eventualmente, a punire quanti avessero violato i diritti di quelle; avevano, infine, l'autorità di convocare le curie regionali (ibid., pp. 139-152).
L'amministrazione della giustizia regia nelle singole regioni era affidata ai giustizieri locali, il cui ufficio venne disciplinato da numerose costituzioni. Istituiti da Ruggero II, essi risultano presenti in tutte le regioni del Regno dopo la metà del sec. XII con il compito primario di amministrare la giustizia penale riservata al re ‒ con l'eccezione del reato di lesa maestà ‒ come disponeva l'assisa XXXVI. Oltre alla giurisdizione penale, le fonti in nostro possesso testimoniano una loro stabile competenza in materia feudale, soprattutto per le vertenze tra un signore e i suoi vassalli, e un saltuario intervento in cause civili. Sotto Guglielmo II ad essi sembra stabilmente assegnato un preciso distretto territoriale. Conservata da Enrico VI e da Costanza, la magistratura a partire dagli ultimi anni del sec. XII è indicata dai documenti come competente anche in merito al reato di lesa maestà. Le difficoltà di funzionamento conosciute durante gli anni della minorità di Federico II non ne provocarono l'estinzione: appena rientrato nel Regno, Federico II si impegnò a restaurarne l'efficienza del periodo normanno, ribadendo nelle Assise di Capua l'esclusiva competenza dei giustizieri nella materia criminale riservata al sovrano (Ass. III e V) e imponendo loro di impegnarsi con giuramento "ad sancta Dei evangelia" ad amministrare la giustizia "sine fraude, et quam citius poterunt" (Ass. VI). Designati nel Liber Constitutionum con titoli diversi ‒ "iustitiarii" (I, 44; I, 48; I, 49; I, 51; I, 52.1; I, 52. 2; I, 53.1; I, 53. 2; I, 54; I, 55.3; I, 56; I, 57.2; I, 58; I, 95.1; Extravag. E. 2), "iustitiarii locorum" (Extravag. E. 2), "iustitiarii provinciarum" (I, 84; I, 92.2; III, 56; Extravag. E. 2), "iustitiarii regionum" (I, 8; I, 16; I, 38.2; I, 53.4; I, 41; I, 55.1; I, 57.2; I, 62.2; I, 66.1; I, 84; I, 93.1; I, 95.1; I, 96; I, 106; II, 12; II, 22; III, 30; III, 49; Extravag. I, 43; E. 7; E. 10), "provinciarum officiales" (I, 90.1), "praesides" (I, 55.2) ‒, essi risultano competenti per un definito ambito territoriale. Si tratta di undici distretti: Abruzzo; Terra di Lavoro e Comitato del Molise; Principato e Terra di Benevento; Capitanata; Terra di Bari; Terra d'Otranto; Basilicata; Val di Crati e Terra Giordana; Calabria; Sicilia citra Salso; Sicilia ultra Salso. La carica era annuale, aveva inizio il 1o settembre e la nomina era riservata al sovrano, il quale, in base alla costituzione I, 51, era tenuto a rispettare alcune incompatibilità: non potevano, infatti, essere chiamati a guidare un giustizierato coloro che fossero nati nella medesima regione o vi avessero dimorato a lungo, o vi possedessero terre, o vi tenessero benefici feudali, o vi avessero familiari. Non era, invece, richiesta una specifica preparazione giuridica, anche se è pensabile che alla carica fossero chiamati esperti di diritto.
Incaricati di fornire "consilium et auxilium" ai maestri camerari, ai baiuli e agli altri ufficiali regi del loro distretto (I, 57.2), i giustizieri erano tenuti a percorrere le località della regione loro affidata per amministrarvi la giustizia, sorvegliare direttamente il rispetto della pace (I, 52.1), promuovere inquisitiones (I, 53.1), adottare i provvedimenti necessari alla tutela dell'ordine pubblico (I, 53.2). Spettava ad essi la nomina degli avvocati che dovevano patrocinare davanti alla loro corte (I, 55.1). L'ufficio era gratuito: una serie di norme puniva le possibili forme di corruzione (Colliva, 1964, pp. 192-210). La competenza dei giustizieri era regolata dalla costituzione I, 44 che si riallacciava all'esperienza vissuta dall'ufficio nel periodo normanno, accoglieva gli sviluppi conosciuti nel primo periodo svevo e forniva una sistemazione più organica della materia. Secondo il suo disposto, i giustizieri amministravano innanzi tutto la giustizia penale riservata al monarca, compreso il reato di lesa maestà; erano, inoltre, competenti in campo civile, ma solo in caso di mancata giustizia da parte dei camerari e dei baiuli; infine, conoscevano le cause feudali, ad esclusione di quelle riguardanti i feudi quaternati, riservate alla Magna Curia.
Più complesso è poi definire l'ufficio di camerario (v. Camerarius) regionale e le sue funzioni. Camerari locali risultano attivi nel Regno in età normanna, limitati nel periodo di Ruggero II al Principato di Capua e alla Terra di Lavoro e successivamente estesi a tutte le province continentali, coordinati tra il 1157 e il 1168 da un maestro camerario di Puglia e Terra di Lavoro e da un maestro camerario di Calabria; sotto Guglielmo II scomparvero sia il maestro camerario di Calabria, sia i camerari di questa regione, sostituiti ‒ con ogni probabilità ‒ da agenti dell'ufficio finanziario centrale della dohana de secretis (v.), mentre i camerari delle altre regioni continentali risultano competenti per un ben disegnato distretto territoriale e furono inseriti nell'organizzazione del nuovo ufficio finanziario centrale della dohana baronum, con la conseguente scomparsa del maestro camerario di Puglia e Terra di Lavoro. Agenti demaniali del sovrano, i camerari normanni, oltre ad occuparsi delle sue entrate, erano incaricati di esercitare la giustizia che a quello spettava come signore del suo patrimonio, facendo rispettare il diritto consuetudinario delle comunità ivi residenti; non esercitavano la giustizia penale regia, che era riservata ‒ come sappiamo ‒ ai giustizieri, mentre risultano competenti anche in materia feudale, in particolare in merito alle vertenze relative ai servizi dovuti dai vassalli in capite al sovrano e dai feudatari minori ai loro signori. L'ordinamento normanno conobbe significativi cambiamenti nel lungo periodo che va dalla conquista sveva al ritorno di Federico II nel Regno: sotto Enrico VI fu abolita la dohana baronum, venne ripristinata la carica di maestro camerario di Puglia e Terra di Lavoro e l'ufficio di camerario fu esteso anche alla Sicilia; dopo il 1202 non si hanno più notizie del maestro camerario di Puglia e Terra di Lavoro, mentre i camerari locali continuarono ad operare, anche se con non poche difficoltà, affiancati, sia in Sicilia sia, a partire dal 1215 ca., nelle regioni continentali, da agenti dell'ufficio centrale della dohana.
Modifiche, trasformazioni, restaurazioni sembrano caratterizzare le vicende della magistratura anche sotto Federico II e paiono dovute alla ricerca continua da parte del sovrano degli strumenti più idonei ad esercitare i suoi diritti demaniali. Le fonti che testimoniano tale ricerca offrono, di conseguenza, un disegno per più aspetti non lineare della magistratura e hanno dato origine a letture storiografiche contrastanti. Innanzi tutto il titolo con cui i magistrati sono designati non risulta uniforme nelle costituzioni federiciane: "camerarii" (Const. I, 17; I, 44; I, 50; I, 60.1; I, 79; I, 81; Novelle I, 90.1; Extravag. I, 43 e E. 10), "locorum camerarii" (I, 8; I, 18), "camerarii regionum" (III, 53), "magistri camerarii" (Const. I, 60.1; I, 62.1; I, 69.1; I, 79; Novelle I, 42.2; I, 57.2; I, 60.2; I, 61.1-2; I, 62.2; I, 63; I, 73.2; I, 74; I, 78; I, 86; I, 87; I, 95.1; Extravag. E. 2; E. 7), "magistri camerarii regionum" (I, 92.1), "magistri camerarii provincie" (I, 87). Un'incertezza di intitolazione che abbiamo trovato anche per i giustizieri, ma che nei camerari è parsa assumere una rilevanza maggiore in quanto alcune costituzioni (I, 60.1; I, 79) parlano di "magistri camerarii seu camerarii" e un'altra (Extravag. E. 2 del 1233) di "magistri camerarii et camerarii": tanto che alcuni storici hanno pensato alla contemporanea presenza di due magistrature, quella dei camerari e quella dei maestri camerari (v. Magister camerarius). Non solo. La disciplina dell'ufficio disposta dalle Costituzioni melfitane risulta per più aspetti diversa da quella successiva delle Novelle, quasi si trattasse di due uffici distinti. Secondo Colliva le diverse intitolazioni usate dalle costituzioni federiciane non si riferiscono a più cariche, ma definiscono una sola magistratura, la quale conobbe una sensibile evoluzione tra il 1231 e la fine del regno di Federico II. Al momento delle Costituzioni melfitane essa spettava a due titolari per distretto regionale, direttamente nominati dal re e annuali, i quali si avvalevano di agenti da loro stessi scelti e nominati che li rappresentavano nelle varie località: le Costituzioni disciplinarono soprattutto le funzioni giudiziarie dell'ufficio, mentre non facevano parola degli agenti al servizio dei camerari. Dopo il 1231 l'ufficio conobbe una lunga fase di decadenza: le fonti attestano la presenza di altri funzionari demaniali, direttamente dipendenti dalla corte regia, indicati con i titoli di "secretus" e di "magister procurator demanii", i quali, pur essendo di grado inferiore ai camerari, di fatto, per lo più, li sostituivano. La ripresa dell'ufficio cominciò nel 1239 e culminò negli anni 1245-1246 a partire dai quali in ogni giustizierato risulta presente un maestro camerario, le cui competenze demaniali sono ampiamente delineate dalle costituzioni di questo periodo (Colliva, 1964, pp. 211-341). Mazzarese Fardella, pur non concordando in pieno con la ricostruzione di Colliva soprattutto in merito alla definizione delle competenze fiscali dei camerari e del loro rapporto con secreti e maestri procuratori, condivide l'idea dell'unicità della magistratura e delle sue competenze giudiziarie (1966, pp. 57-97). Tali competenze furono disciplinate, in particolare, dalla costituzione melfitana I, 60.1 che attribuì ai camerari la conoscenza delle cause civili, per propria iniziativa o dietro richiesta dei baiuli o, in difetto di costoro, delle vertenze tra baiuli e gabellotti, nonché l'appello dalle sentenze degli stessi baiuli e di altri giudici regi cittadini e locali.
Di origine normanna era anche l'ufficio di baiulo (v. Baiulus), il magistrato regio attivo nella maggior parte delle città demaniali del Regno. Nel sec. XII i baiuli non costituivano l'unica magistratura locale regia, ma insieme con loro operavano ufficiali di più antica tradizione, come consoli, connestabili, catapani, stratigoti, vicecomiti, turmarchi e giudici, che Ruggero II e i suoi successori mantennero in vita in segno di rispetto verso la consuetudine osservata dalle singole università demaniali. Sia i baiuli, sia gli altri ufficiali locali erano di nomina regia e quindi amministravano la giustizia in nome del sovrano: essi, comunque, erano con ogni probabilità scelti dalla comunità in cui operavano e avevano il compito di far rispettare il diritto consuetudinario maturato spontaneamente nella comunità stessa, senza alcun intervento del sovrano, diritto che altrettanto spontaneamente, senza ‒ cioè ‒ intromissioni esterne, si evolveva. Si tratta di una delle forme ‒ la più antica ‒ di equilibrio tra giurisdizione locale e giurisdizione regia diffuse nel Medioevo europeo per la gestione delle comunità demaniali, una forma che ritroviamo, ad esempio, sin dal sec. XII nel Regno inglese, dove le città demaniali erano guidate dal reeve, magistrato di nomina del sovrano, ma espressione dell'università (l'altra forma conosciuta nel Continente ‒ cronologicamente posteriore ‒ consistette in un governo diarchico, costituito da un funzionario regio e da magistrati direttamente eletti dalla popolazione). Sotto Ruggero II sia i baiuli, sia gli altri ufficiali locali ‒ a eccezione dei giudici ‒ risultano competenti per un distretto che comprendeva la città, ma non si limitava ad essa; nella seconda metà del sec. XII soltanto i baiuli conservarono natura di magistrato distrettuale, mentre gli altri si evolvevano in funzionari meramente cittadini. A partire dagli anni di Enrico VI e Costanza, poi, anche i baiuli conobbero un'evoluzione nello stesso senso.
La crisi conosciuta dall'autorità monarchica durante la minorità di Federico II sollecitò alcune città demaniali dell'Italia meridionale a dotarsi di istituzioni nuove, modellate sull'archetipo dell'ordinamento comunale delle regioni centrosettentrionali della penisola: non potendo più contare, infatti, su un funzionamento sicuro dell'amministrazione regia, alcuni centri urbani vollero provvedere da soli alla propria difesa e alla tutela della pace interna e dettero vita a forme di autogoverno, nominando propri magistrati. Rientrato nel Regno, Federico II provvide subito a restaurare l'ordinamento cittadino normanno, introducendo alcune modifiche. Nelle Assise di Capua del 1220 dispose: "Item precipimus ne in aliqua civitate ordinetur potestas, consulem aut rectorem non habeant, set balivus per ordinatos camerarios curie statuatur, et iustitia per iustitiarios et ordinatos curie regatur iuris ordine et approbatis Regni consuetudinibus observetur" (Ass. XIII). Venivano in tal modo abolite tutte le forme di autogoverno sperimentate dalle città demaniali negli anni precedenti e si ritornava al passato, con la novità di far tacere la moltitudine di magistrature cittadine del periodo normanno e di sostituirle con il solo ufficio di baiulo: questo era messo in carica dal camerario locale ed era titolare della giurisdizione definita nel periodo normanno, mentre i giustizieri recuperavano in pieno la loro antica giurisdizione penale nelle città demaniali.
La disciplina dell'ufficio disposta nel Liber Constitutionum conferma quella del periodo normanno. Per le sue competenze venne riprodotta una costituzione di Guglielmo II (I, 65), la quale disponeva che i baiuli ricevevano l'incarico da parte dei camerari o in gestione diretta ("in credentiam") o in appalto ("in extalium") e assegnava loro la giurisdizione piena in materia civile, solo per le questioni di minor importanza in materia feudale, solo per i furti di poca entità e per le offese minori in campo penale. E sempre risalenti a Guglielmo II sono sia la costituzione successiva (I, 66), che regolava i rapporti tra baiulo e giustiziere in merito alla consegna al secondo di un ladro catturato dal primo, sia la III, 35, che imponeva a giustizieri e a baiuli di inviare prontamente alla corte del sovrano tesori, beni preziosi e denaro rinvenuti senza titolare nel loro distretto. Le Costituzioni melfitane completarono questa disciplina, disponendo che la nomina dei baiuli, al pari di quella di tutti gli altri magistrati regi provinciali, spettava al sovrano (I, 50), che il loro incarico, sia "in credentiam", sia "in extalium", era annuale e aveva inizio il 1o settembre, che essi erano messi in carica dai camerari (I, 62.2) e che prima di prendere possesso del loro ufficio dovevano prestare giuramento (I, 62.1; I, 69.1), che erano esclusi dalla magistratura sia giudici, sia chierici (I, 71), che per ciascun luogo non dovevano essere nominati più di tre baiuli, scelti esclusivamente tra abitanti di terre demaniali (I, 70), che i magistrati ricevevano un trentesimo del valore del bene oggetto della vertenza sottoposta al loro giudizio, da dividere con i giudici e i notai (I, 73.1), che erano tenuti ad inviare alla corte regia i servi fuggitivi da loro catturati e dovevano ricevere beni e denaro rinvenuti e non reclamati da alcuno, per poi spedirli alla stessa corte del sovrano (III, 36).
La normativa disposta a Melfi conobbe alcune modifiche nel 1240 e nel 1246. Nel 1240 Federico II di-spose che i baiuli partecipassero alle "assisae rerum venalium" ‒ riunioni sul prezzo dei beni venali ‒ tenute dai camerari in ogni luogo abitato (I, 60.2), che non fossero costretti dai giustizieri a prendere parte in maniera continua alle loro corti (I, 55.3), che dovevano concludere entro il termine massimo di un anno le vertenze sottoposte al loro giudizio (I, 76). Ancora più incisive furono, poi, le novità introdotte nel 1246. Il sovrano svevo abolì allora l'appalto dell'ufficio di baiulo, assegnò la nomina ai camerari ordinando loro di scegliere soltanto abitanti di terre demaniali di comprovata fedeltà e di sicura ricchezza, ridusse il numero dei baiuli per distretto da tre a uno (I, 62.2), attribuì loro una retribuzione quadrimestrale da parte del camerario (I, 74), ampliò la loro giurisdizione alle vertenze su pesi e misure (I, 66.2) e alla vigilanza sui gabellotti (I, 78).
Per quanto, infine, riguarda i giudici, le Costituzioni melfitane distinsero quelli con funzioni giudiziarie dagli altri incaricati di conferire, insieme con i notai, pubblica fede ai contratti e quindi definiti come 'giudici ai contratti'. Nominati direttamente dal sovrano, i giudici dovevano essere tre per ogni località demaniale, uno con compiti giudiziari, gli altri come giudici ai contratti, mentre i notai dovevano essere sei (Napoli, Salerno e Capua facevano eccezione a questa regola, poiché erano loro consentiti cinque giudici e sei notai); i giudici, al pari dei notai, erano scelti solo tra gli abitanti di terre demaniali che non fossero né "in servitio", né "condicioni subiecti", al fine di garantire la loro piena libertà di giudizio (I, 79). I giudici dovevano prestare giuramento prima di assumere il loro ufficio (I, 69.1), restavano in carica un anno e dividevano con baiulo e notai il trentesimo del valore del bene oggetto della vertenza (I, 73.1). I chierici erano esclusi dalla carica di giudice (I, 82). Le Novelle del 1240 aggiunsero il dovere dei giudici di concludere entro un anno la causa sottoposta al loro giudizio (I, 76) e di mettere per iscritto le loro sentenze (I, 77); quelle del 1246 attribuirono ai camerari la nomina dei giudici con funzioni giudiziarie ‒ uno per località ‒, assegnarono anche a questi ultimi una retribuzione quadrimestrale (I, 62.2) e stabilirono che nelle vertenze tra abitanti del demanio e uomini di un signore discusse davanti alla corte di quest'ultimo dovesse intervenire un giudice regio (I, 73.2).
Le ultime due corti di giustizia con le quali si esprimeva la jurisdictio del sovrano erano, poi, la corte dei pari e le curie generali regionali. La prima era disciplinata dalla costituzione melfitana I, 47, la quale riservava i giudizi penali e civili riguardanti i tenentes in capite a una corte costituita da loro pari e stabiliva che il maestro giustiziere e i suoi giudici avrebbero dovuto collaborare con la corte: dalle sentenze di questa era possibile ricorrere in appello al monarca, il quale avrebbe incaricato della questione un giudice, ordinario o delegato, "qui comes similiter sit vel baro". Le seconde sono regolate dalla lunga costituzione del dicembre 1233 inserita nel Liber Constitutionum tra le Extravagantes (E. 2). Con questa legge il monarca dispose che due volte l'anno ‒ il 1o maggio e il 1o novembre ‒ si riunissero assemblee (curie) generali a Piazza Armerina per la Sicilia, a Cosenza per Calabria, Terra Giordana e Val di Crati, a Gravina per Puglia, Capitanata e Basilicata, a Salerno per Principato, Terra di Lavoro e Comitato del Molise, a Sulmona per l'Abruzzo: a dette assemblee dovevano partecipare quattro rappresentanti di ogni grande città, due rappresentanti di ogni città minore e di ogni castello, tutti i chierici e tutti i conti e baroni della regione, mentre il sovrano vi avrebbe inviato un proprio legato a latere, il quale sarebbe stato affiancato dai giustizieri della regione. La sessione doveva durare otto giorni, ma poteva prolungarsi fino a quindici. Compito primario delle assemblee era quello di ricevere le lagnanze relative a violazioni di diritti delle comunità o di singoli abitanti commesse da parte di magistrati provinciali regi: il legato a latere del monarca, ricevuta la notizia della violazione, era tenuto a promuovere un'inchiesta affidandola a due laici e a due ecclesiastici e a trasmetterne al sovrano i risultati e doveva procedere contro quei magistrati che fossero risultati colpevoli. La curia, inoltre, offriva a tutti l'occasione per denunciare violazioni di diritti subite da parte di altri soggetti, diversi dai magistrati locali del monarca: in tal caso il giudizio spettava ai giustizieri presenti nell'assemblea. Infine, i chierici erano tenuti a denunziare alla curia generale i casi di eresia, patarina e non, di cui fossero venuti a conoscenza. Le curie regionali sveve appaiono di grandissima importanza. Esse costituiscono lo strumento con cui il sovrano tutelava i diritti delle comunità, difendendoli da tutti gli abusi, innanzi tutto da quelli commessi dai suoi stessi agenti locali; ed è interessante sottolineare che tale tutela non venne esercitata da una corte di soli giudici regi, bensì da un'assemblea in cui erano presenti, accanto ai rappresentanti e agli ufficiali regi, gli esponenti delle medesime comunità che chiedevano la riparazione degli abusi subiti. Le curie regionali sveve, allora, risultano di natura del tutto analoga al Magnum Consilium istituito in Inghilterra con la Magna Carta del 1215, di cui condividono la funzione giudiziaria e dal quale si differenziano per il loro carattere regionale e non unitario e per la presenza di rappresentanti delle comunità che nell'assemblea inglese interverranno più tardi e in qualità di esponenti non delle città, ma delle contee.
Il terzo e ultimo gruppo di costituzioni federiciane riguardanti l'amministrazione della giustizia disciplina la procedura seguita nelle corti regie. A questo gruppo può essere aggregata anche la notissima costituzione Puritatem (I, 62.1), la quale indicava a camerari e baiuli il diritto cui dovevano ricorrere nei loro giudizi. La costituzione disponeva che i suddetti magistrati "prompto zelo iustitiam ministrabunt, et quod secundum constitutiones nostras et in defectu earum secundum consuetudines approbatas ac demum secundum iura communia, Langobardorum videlicet et Romanorum, prout qualitas litigantium exiget, iudicabunt". L'attenzione degli storici si è incentrata soprattutto sulla singolarità del testo costituita dall'attribuzione della qualifica di diritto comune a due diritti, il longobardo e il romano. In particolare, Calasso (1951) ha ritenuto che la norma si riferisse a quel sistema unitario e organico di diritto comune che la storiografia giuridica immaginava operante nelle regioni del Sacro Romano Impero del tardo Medioevo e nel quale la qualifica di 'comune' doveva necessariamente essere riservata al solo diritto temporale valido per tutti gli uomini liberi, cioè il diritto romano rielaborato dalla dottrina medievale, dialetticamente relazionato agli iura propria degli ordinamenti particolari facenti parte del medesimo Impero: di conseguenza ha sostenuto che anche nel Regno di Sicilia l'unico vero diritto comune era il romano, mentre la qualificazione del longobardo come diritto comune derivava dal fatto che in alcune regioni del Regno questo costituiva il diritto territoriale, seguito dalle comunità ivi residenti. L'interpretazione di Calasso è stata generalmente condivisa dagli storici successivi, al punto che è stata sostanzialmente trascurata l'altra lettura della legge federiciana, quella che pensava per il Regno non già alla vigenza di un sistema organico di diritto comune, bensì alla continuità del tradizionale meccanismo della personalità del diritto, cui la legge sembra far riferimento con l'espressione "prout qualitas litigantium exiget". Tale lettura, infatti, vedeva i due diritti citati dalla legge come spettanti a ciascuna delle due nationes ‒ quella di origine romana e quella di origine longobarda ‒ presenti nell'Italia meridionale e affermava che la costituzione disponeva in prima istanza l'osservanza delle specifiche forme assunte in ciascuna comunità dalle consuetudini della sua natio originaria e, in mancanza di usi particolari, il ricorso alle regole generali della propria tradizione popolare. La questione è stata riaperta negli ultimi anni dal più recente editore del Liber Constitutionum, Wolfgang Stürner, secondo il quale la frase in esame non era contenuta nel testo del 1231 ed è frutto di un'interpolazione successiva, introdotta prima del 1246. L'idea è stata ripresa da Ennio Cortese (2000, pp. 458-460), il quale, però, sposta la data dell'interpolazione alla fine del sec. XIII e attribuisce l'intervento alla "leggerezza con cui sono stati maneggiati i testi" federiciani in quel periodo: a suo parere il diritto longobardo non aveva natura di diritto comune, ma continuava ad essere in vigore nel Regno svevo "non tanto ratione personae, quanto ratione rei", applicato, com'era, soprattutto in materia di successione feudale relativamente ai feudi iure Langobardorum. Appare interessante rilevare al riguardo che una gerarchia delle fonti sostanzialmente analoga a quella riportata dal testo della Puritatem a noi giunto si rinviene nella costituzione I, 47 che, come sappiamo, disciplina la corte dei pari. Essa appartiene al nucleo promulgato a Melfi e dispone che il maestro giustiziere e i suoi giudici "nobilibus, qui sententiam ferre debebunt, seriatim enuntient, ut sic antedicti comites et barones secundum sacras constitutiones nostras ac in defectu ipsarum secundum regni consuetudines approbatas et demum secundum iura, quibus constitutiones nostre et predecessorum nostrorum non obviant, [...] causam secundum Deum et iustitiam sententialiter terminare procurent". Qui gli "iura" non sono qualificati, ma il fatto stesso di distinguerli dalle "constitutiones nostrae" e dalle "consuetudines approbatae" (cioè, applicate nelle corti di giustizia) legittima la loro identificazione con il diritto romano e con quello longobardo, "iura" per antonomasia. Che entrambi questi "iura" fossero, poi, qualificabili come "communia" poco importa: quello che interessa è che anche qui siano collocati al termine della gerarchia delle fonti, alla quale la corte dei pari doveva attenersi, come diritti nei quali certamente si sarebbe trovata la soluzione della vertenza che costituzioni regie e consuetudini locali invece non garantivano. La costituzione Puritatem e la I, 47, dunque, disegnano la medesima graduatoria di fonti per le corti della giustizia regia. Una graduatoria che risulta diversa da quella descritta dai teorici del sistema di diritto comune, dato che le costituzioni regie non si trovano ‒ come costoro sostengono ‒ al secondo gradino, quali fonti sussidiarie cui si ricorreva in mancanza di una norma consuetudinaria locale, ma al primo e solo in assenza di una loro disposizione si doveva richiamare la regola stabilita dagli usi. E si comprende. A Melfi Federico II ‒ seguendo l'esempio della scelta operata dal nonno Ruggero II nelle Assise di Ariano del 1140 ‒ aveva dichiarato che le consuetudini non contrarie alle sue costituzioni rimanevano in vita, mentre le altre erano abrogate: di conseguenza, le leggi regie assumevano in via esclusiva la disciplina di alcune materie, lasciando le altre alle norme della tradizione. Sarebbe stato allora impossibile operare un passaggio da consuetudini a costituzioni nei settori regolati dalle seconde, dato che le prime erano state da queste abrogate; mentre l'ordine regio ai suoi magistrati di applicare in primo luogo le costituzioni aveva senso, perché li impegnava a verificare innanzi tutto se la vertenza sottoposta al loro esame rientrava nei campi toccati dalla legislazione sovrana e a ricorrere alle consuetudini locali solo dopo che tale riscontro avesse dato esito negativo.
Per quanto riguarda la disciplina dei procedimenti civili e penali davanti ai magistrati regi, la costituzione II, 17 stabiliva che essa doveva essere uguale per tutti i soggetti, senza riguardo alcuno per la natio cui appartenevano; il sovrano, infatti, disponeva: "aliquam discretionem habere non volumus personarum, sed equa lance sive sit Francus sive Romanus aut Longobardus, qui agit seu convenitur, iustitiam sibi volumus ministrari". Il procedimento, sia civile sia penale, si apriva con l'invio da parte dell'attore/accusatore al convenuto/accusato di una lettera di citazione che doveva pervenire a quest'ultimo per il tramite di un bonus vir (I, 97) e consegnata a lui o a suoi familiari davanti a un testimone pubblico o a tre testi privati (I, 98). Numerose leggi colpivano la contumacia del convenuto (I, 99.1-2; I, 100; I, 101; I, 102; I, 103; I, 104.1), di università (I, 107), dell'accusato (II, 1; II, 3; II, 4; II, 5; II, 6; II, 7; II, 8), nonché l'assenza nel giudizio penale di chi aveva denunziato il crimine (II, 12; II, 13) o di entrambe le parti che si fossero accordate per non partecipare al processo (II, 15). Si ammetteva, comunque, che prima della litis contestatio l'accusatore e l'accusato potessero trovare un accordo e porre fine alla lite (II, 16). Pene erano previste per chi calunniava un altro soggetto, accusandolo di un reato che non aveva commesso (II, 14). L'accusa per i reati più gravi comportava la reclusione in carcere dell'accusato, il quale, però, poteva evitare il provvedimento restrittivo presentando un fideiussore: tale possibilità era comunque esclusa per i rei confessi, per quelli colti in flagranza di reato e per quelli che l'inchiesta condotta sul delitto avesse denunciato come notori criminali (II, 10). Erano consentiti rinvii del processo per motivi ben definiti, come l'impegno nel servizio militare (II, 19; II, 20; II, 23), ed era prevista una riunione di giudizi per il caso di un attore in un processo civile accusato di reato dal convenuto e per l'altro di un accusatore che a sua volta veniva accusato dal denunziante di aver commesso un reato più grave (II, 21). Se, poi, il medesimo crimine era trattato contemporaneamente da due corti di giustizia, quella di grado più elevato avocava a sé il giudizio (II, 22).
La fase conclusiva del procedimento si apriva con la litis contestatio, la denuncia ‒ cioè ‒ della violazione dei propri diritti da parte dell'attore nel giudizio civile e del crimine da parte dell'accusatore in quello penale: tale denuncia doveva essere messa per iscritto e accompagnata da ogni elemento valido a provarla, anch'esso presentato in forma scritta e nello stesso giorno o il giorno successivo. Il convenuto o l'accusato, o il loro avvocato, erano tenuti a presentare sempre per iscritto la loro difesa e gli elementi probatori entro il termine stabilito dalla corte. Se l'avvocato del convenuto o dell'accusato presentava dati ignoti all'attore o al denunziante, la corte fissava un termine entro il quale l'avvocato doveva produrre le prove delle sue affermazioni (II, 24). La disciplina delle prove testimoniali e documentali era, poi, fornita dalle costituzioni II, 26; II, 27; II, 30; II, 35, mentre la prova per duello, ammessa in via eccezionale per il crimine di lesa maestà e per gli omicidi "furtivi" e "venefici", era regolata dalle costituzioni II, 33; II, 37; II, 39; II, 40. La rapidità della giustizia regia doveva essere garantita contro gli eventuali tentativi di prolungare i tempi del processo promossi dagli avvocati del convenuto o dell'accusato (II, 49). Particolari norme tutelavano donne e minori dalla cattiva difesa dei loro diritti da parte di procuratori e tutori (II, 41; II, 42; II, 43; II, 44). L'attribuzione e la divisione delle spese giudiziarie e di quelle per la scrittura della sentenza erano regolate dalle costituzioni II, 46 e II, 47, mentre pene severe erano previste dalle costituzioni II, 50.1; II, 50.2; II, 50.3 e II, 51 per i giudici incapaci o corrotti e per i loro corruttori. L'appello, infine, era disciplinato dalla II, 48 che fissava in cinquanta giorni dalla sentenza di primo grado il termine per presentare ricorso e stabiliva che, in caso di assenza dell'appellante al giudizio di appello, la sentenza di primo grado sarebbe diventata definitiva.
Accanto alla giustizia del sovrano operava, poi, quella amministrata dai signori, laici ed ecclesiastici, e dalle città. Per quanto riguarda la giustizia signorile bisogna distinguere tra quella fondata sulla jurisdictio connessa al dominium sulla terra, e quindi originaria, da quella che alcuni signori ricevevano per concessione del sovrano, e quindi derivata. In quanto dominus delle sue terre, il signore aveva il compito di proteggere gli abitanti di queste dai nemici esterni, di mantenere tra di loro l'ordine e la pace e di garantire il rispetto dei diritti consuetudinari dei singoli e delle comunità. Presso di lui si riuniva una corte di giustizia, composta da suoi fedeli e da suoi agenti, la quale nel caso di grandi signori, come quelli insigniti del titolo comitale e titolari di un vasto patrimonio, comprendeva anche vescovi, vassalli del re o dello stesso signore, cavalieri, giudici delle città presenti nel dominio. La corte giudicava le vertenze civili insorte tra abitanti del dominio e quelle relative ai rapporti tra questi e il signore. Già nel periodo normanno si era affermato il principio per cui i signori fondiari del Regno si dichiaravano vassalli del sovrano e quindi riconoscevano di tenere le loro terre non già a titolo allodiale, bensì per concessione regia. Il rapporto feudale riguardava esclusivamente la terra, nel senso che nell'attribuire il beneficio il monarca rinunziava ad esercitare la giurisdizione signorile sullo stesso e l'assegnava al vassallo. Non comprendeva, invece, le competenze giurisdizionali che spettavano in via esclusiva al sovrano e, quindi, non riguardava la sfera di giustizia che le Assise di Ariano per la dinastia normanna e le Costituzioni melfitane per la sveva avevano riservato a quello, né i diritti e i beni demaniali che a lui stesso erano riconosciuti in via esclusiva. In questo modo i reati della giustizia regia erano esclusi dalla competenza della curia del signore ed erano amministrati, anche nei domini dei feudatari, dai giustizieri regi. Questa situazione presentava, però, non poche eccezioni: i signori più potenti, in particolare quelli investiti di una contea, in aggiunta alla concessione feudale ricevevano spesso, se non regolarmente, l'attribuzione della giurisdizione spettante al giustiziere regio. Tale concessione ‒ che era distinta da quella feudale e ad essa si aggiungeva ‒ legittimava il grande vassallo ad esercitare nelle sue terre la giustizia penale riservata al sovrano in qualità di suo magistrato.
La prassi della doppia concessione aveva avuto inizio nel periodo normanno; ma negli anni di crisi della minorità di Federico II si erano manifestati non pochi abusi, dato che molti signori avevano approfittato delle difficoltà in cui si trovava l'autorità monarchica per appropriarsi della jurisdictio di giustiziere. Al rientro nel Regno, il sovrano svevo aveva provveduto nelle Assise di Capua a mettere fine ad ogni abuso, abolendo con l'assisa XVIII l'esercizio dell'"ufficium iustitiarie" tenuto di fatto da laici ed ecclesiastici "nisi tamen illi iustitiarii quibus fuerit a nobis officium concessum". Una regola, questa, che venne successivamente ribadita a Melfi dalla costituzione I, 49. Solo l'esplicita concessione da parte del re, dunque, poteva legittimare l'esercizio delle competenze di giustiziere da parte del signore, il quale si avvaleva anche per questo compito della sua corte di giustizia. La ricerca condotta tanti anni fa da Evelyn Jamison sui conti del Molise, e tuttora pienamente valida, mostra che costoro, avendo ricevuto dal sovrano la potestà di giustiziere, giudicavano, insieme con la loro curia signorile, gli stessi reati che le costituzioni regie assegnavano alla competenza dei magistrati provinciali del monarca. Si deve aggiungere che la concessione del giustizierato riguardò in età sveva soprattutto signori laici, mentre tra gli ecclesiastici solo l'arcivescovo di Monreale, le abbazie di Montecassino e di Cava e il vescovo di Salerno godettero di tale privilegio.
All'interno dei grandi patrimoni feudali si trovavano anche comunità cittadine i cui diritti e i cui doveri verso il signore erano in più casi definiti da una carta libertatis da lui concessa. Appare legittimo pensare che per lo più l'ordinamento delle città signorili non dovette differire molto da quello delle città demaniali. In esse operavano agenti signorili, designati con i titoli di camerario, baiulo, gastaldo, mentre i giudici erano nominati dal signore ma erano scelti tra gli abitanti della città: la corte di giustizia, presieduta dal camerario o dal baiulo e composta dai giudici, giudicava in base al diritto consuetudinario affermatosi nel centro urbano, un diritto che camerari e baiuli si impegnavano con giuramento a rispettare, sotto il controllo dei giudici. Un'assemblea di boni homines, rappresentanti diretti della comunità, era presente in alcune città con il compito di decidere sulle richieste di prestazioni da parte del signore e di collaborare con la corte di giustizia di questo.
L'esercizio della giustizia signorile era riconosciuto anche ai signori ecclesiastici nei loro benefici, di modo che essi risultano immuni dalla giurisdizione civile sia regia, sia signorile. Per quanto, infine, concerne l'amministrazione della giustizia nelle città demaniali, si è già detto delle magistrature dei baiuli e dei giudici regi. Si deve solo aggiungere che non mancavano eccezioni alla disciplina ordinaria della giustizia cittadina. Ne costituiscono un significativo esempio le città di Napoli, Salerno e Messina: qui continuarono ad operare le antiche magistrature urbane ‒ la curia del compalazzo (v. Compalatius) a Napoli, quella dello stratigoto (v. Stratigotus) a Salerno e a Messina ‒ sorte in epoca prenormanna e accettate da Federico II con tutte le loro competenze tradizionali. A Melfi, infatti, il monarca svevo dispose: "Circa compalatios tamen Neapolis et stratigotos Messane scilicet et Salerni, quibus de criminalibus de speciali et antiqua prerogativa et regni nostri observatione cognoscitur esse concessum, ordinatione constitutionum presentium nichil volumus immutari" (I, 72.2). Una giurisdizione, dunque, non solo civile, ma anche penale che esentava le città dalla giurisdizione dei giustizieri e degli altri ufficiali regi.
Fonti e Bibl.: le Assise di Capua del 1220 sono in Riccardo di San Germano, Chronica, in R.I.S.2, VII, 2, a cura di C.A. Garufi, 1936-1938, pp. 89-92. Delle Costituzioni di Federico II è stata utilizzata in questa sede l'edizione più recente, quella curata da W. Stürner in M.G.H., Constitutiones et acta publica imperatorum et regum, II, Supplementum, 1996: di conseguenza è stata adottata la numerazione delle costituzioni proposta dall'editore. Per i riferimenti all'ordinamento normanno rinvio al mio studio Il regno normanno di Sicilia, Milano 1966, in partic. pp. 219-283, mentre per l'evoluzione istituzionale del periodo compreso tra la fine della dinastia normanna e il ritorno nel Regno di Federico II nel 1220 richiamo l'altro mio studio Le istituzioni del Regno di Sicilia tra l'età normanna e l'età sveva, pubblicato nella raccolta La monarchia meridionale. Istituzioni e dottrina giuridica dai Normanni ai Borboni, Bari-Roma 1998, pp. 71-135. Sull'amministrazione della giustizia regia nel periodo federiciano restano fondamentali le monografie di P. Colliva, Ricerche sul principio di legalità nell'amministrazione del Regno di Sicilia al tempo di Federico II, I, Gli organi centrali e regionali, Milano 1964, e di E. Mazzarese Fardella, Aspetti dell'organizzazione amministrativa nello Stato normanno e svevo, ivi 1966, ai cui richiami della storiografia precedente rinvio. Ad esse devono essere aggiunti: A. Romano, Note sull'ordinamento giudiziario del Regno di Sicilia, in Cultura ed istituzioni nella Sicilia medievale e moderna, a cura di Id., Messina 1992, pp. 197-225; E. Cuozzo, Die Magna Curia zur Zeit Friedrichs II., in Friedrich II. Tagung des Deutschen Historischen Instituts in Rom im Gedenkjahr 1994. Atti del Convegno dell'Istituto storico germanico di Roma nell'VIII centenario della nascita, a cura di A. Esch-N. Kamp, Tübingen 1996, pp. 276-297; Th. Kölzer, "Magna imperialis curia", in Federico II e la Sicilia, a cura di P. Toubert-A. Paravicini Bagliani, Palermo 1998, pp. 46-64; J.-M. Martin, Le città demaniali, ibid., pp. 127-144. Sulle curie regionali v. A. Marongiu, Sulle "curie generali" del Regno di Sicilia sotto gli Svevi (1194-1266), "Archivio Storico per la Calabria e la Lucania", 18, 1949, pp. 21-43, 121-138; 19, 1950, pp. 45-53; Id., Il Parlamento in Italia nel Medio Evo e nell'età moderna, Milano 1962, pp. 175-177; J.-M. Martin, L'organisation administrative et militaire du territoire, in Potere, società e popolo nell'età sveva (1210-1266). Atti delle seste giornate normanno-sveve (Bari-Castel del Monte-Melfi, 17-20 ottobre 1983), a cura del Centro di studi normanno-svevi, Università degli studi di Bari, Bari 1985, pp. 81-83, 96, 100-102; G. Fasoli, Organizzazione delle città ed economia urbana, ibid., pp. 178-180. Sui rapporti del sovrano svevo con la Chiesa siciliana v. N. Kamp, Monarchia ed episcopato nel Regno svevo di Sicilia, ibid., pp. 123-129. Per la costituzione Puritatem ricordo F. Calasso, La const. "Puritatem" del Liber Augustalis e il diritto comune nel Regnum Siciliae, in Id., Introduzione al diritto comune, Milano 1951, pp. 233-302, ed E. Cortese, Le grandi linee della storia giuridica medievale, Roma 2000, pp. 458-460. Sull'amministrazione della giustizia nei grandi domini signorili è ancora di sicura utilità il saggio di E. Jamison, The Administration of the County of Molise in the Twelfth and Thirteenth Century, "English Historical Review", 44, 1929, pp. 529-559; 45, 1930, pp. 1-34. Sul tema v. anche il recente studio di L. Sorrenti, Privilegi giurisdizionali e giustizia feudale in Sicilia dall'età normanno-sveva all'età aragonese, "Rivista Internazionale di Diritto Comune", 10, 1999, pp. 184-189.