SICILIA, REGNO DI, AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA
Il tentativo di fornire una immagine complessiva dell'amministrazione finanziaria nel Regnum Siciliae durante il regno di Federico II richiede innanzitutto una precisazione riguardo l'oggetto stesso dello studio, giacché l'espressione 'amministrazione finanziaria' riferita al periodo svevo, pur essendo ormai di uso comune nella storiografia, non solo italiana, risente dell'utilizzazione di schemi giuridici che attengono a uno stato moderno, quale quello di Federico II certamente non fu, pur essendone un'anticipazione: si dovrà pertanto cercare semplicemente di individuare beni, persone e il rapporto tra queste e quelli sempre sovrastato dall'alta figura dell'imperatore svevo.
Quanto ai primi, essi sono costituiti da quei cespiti patrimoniali che derivano dagli iura regalia, in Sicilia distinti già prima della dieta di Roncaglia. Alla domanda: quae sunt demania in Regno Siciliae? Andrea d'Isernia avrebbe più tardi risposto che si trattava di città, castelli e altri beni come dohane, cabelle e regalia tenuti direttamente dal sovrano. Accanto dunque agli immobili si pone una categoria di beni fruttiferi corrispondenti all'esercizio di determinate potestà proprie del sovrano; i relativi diritti sono distinti in vetera e nova: i primi risalenti all'età normanna, i secondi a quella sveva, e tutti insieme comprendenti l'intero ciclo produttivo del Regno. Sarà dunque indispensabile individuarli insieme ai funzionari all'uopo preposti, sia a livello centrale che a quello periferico.
Il primo problema che si pone al riguardo è quello circa il coordinamento tra la documentazione da utilizzare allo scopo, costituita principalmente dalla Historia diplomatica Friderici secundi, dal Liber Augustalis, dagli Acta Imperii inedita e dal Regestum napoletano degli anni 1239-1240. Orbene, in tali fonti si osserva un'insolita dicotomia: quelle propriamente legislative e le altre relative alla realtà amministrativa non sono concordi tra loro, né esiste tra loro una gerarchia, carenza questa che rimanda a una visione in cui ius, ratio, lex confluiscano in un autocrate che con questi concetti si identifichi. Federico considerava il Regnum sensibile, ma reale solo in quanto emanazione del suo pensiero, in definitiva del suo ego, teso a realizzare per gradi e per esperimenti un suo progetto, per altro mutevole nel tempo, ma destinato in ogni caso a perseguire il superamento dello stato feudale già meta di Ruggero II. Ciò comporta che è impossibile individuare con dogmatica chiarezza schemi degli uffici o ruoli degli ufficiali, giacché la documentazione ci tramanda situazioni fluide, terminologie fluttuanti legate a determinati ambiti geografici, non utilizzabili perciò per tutto il Regno.
Un secondo problema, strettamente legato a quanto or ora detto, attiene alla diversa gestione dei territori della parte peninsulare del Mezzogiorno d'Italia e di quelli dell'isola di Sicilia. Essa risaliva all'età normanna, giacché la dinastia degli Altavilla, pur realizzando un ordinamento monarchico caratterizzato dall'accentramento del potere nelle mani del sovrano, titolare diretto di ogni potere pubblico e operante per mezzo di un apparato burocratico abbastanza evoluto, era stata influenzata dalle diverse condizioni delle due zone citate prima della conquista, e forse solo al tempo di Guglielmo II era stato raggiunto un assetto più omogeneo mediante il funzionamento di una 'secrezia' ‒ Μέγα Σέϰϱετον ‒ che comprendeva almeno tre dohane (v. Dohana de secretis). Di esse si può sinteticamente dire che gestivano l'amministrazione finanziaria delle terre demaniali e di quelle feudali e di tutti gli iura regalia.
Terzo problema: è necessario effettuare una scansione cronologica fondamentale che distingua il periodo di anni che arriva al 1231, data di promulgazione del Liber Augustalis, da quello che lo segue; vedremo tuttavia che a questa minima periodizzazione se ne dovranno accostare molte altre, in rapporto all'attività normativa del sovrano che, può dirsi, non conobbe soste e che non è sempre facile definire cronologicamente con esattezza, soprattutto per quel che riguarda le Novellae Constitutiones, quelle cioè che non fanno parte della massa di Melfi. Esse sono individuabili per argomento a contrario, non essendo il loro testo compreso nel codice greco parigino edito da Thea von der Lieck-Buyken, e la loro datazione costituisce un problema cui la storiografia ha cercato di dare soluzioni diverse. È necessario avvertire al tempo stesso che, paradossalmente e per i motivi già indicati, nella presente visione d'insieme non sarà possibile procedere rigorosamente per settori cronologici, né con rigorosa sistematica, per cui, se è prevedibile una lamentela circa la pregiudizievole contaminazione di diverse fasi storiche, non esitiamo a definire inevitabile la contaminazione stessa. A una trattazione di carattere generale seguirà quella che riguarda il territorio isolano, che è bene enucleare sia per motivi di chiarezza, sia perché essa costituisce una chiave di lettura e di interpretazione delle fonti.
Prendiamo dunque le mosse da un proponibile vertice: la Curia regis (v.). Nei documenti normanni questo vocabolo assume almeno tre accezioni diverse: a) quella di Consiglio del principe; b) quella di Consiglio del principe nell'esercizio della sua funzione giudiziaria; c) quella di demanio, nel significato medievale di questo termine. Da ciò si può facilmente intuire come la Curia stessa non avesse una struttura definita, mostrandosi quale organo indifferenziato, cui partecipavano dei proceres, e tra loro alcuni funzionari ai quali l'antica storiografia aveva attribuito la denominazione, oggi superata, di 'grandi ufficiali' del Regno.
Tali caratteristiche permangono in età fridericiana, con la successiva specificazione però di un organismo chiamato costantemente Magna regia Curia che costituisce il supremo tribunale del Regno. Quanto all'ambito dell'accezione che abbiamo indicato in terzo luogo e che ci riguarda in modo precipuo, essa trova conferma nel fatto che il vocabolo Curia nella documentazione sveva spesso indica quel complesso di persone cui si è accennato all'inizio, ed è appunto sulla loro attività nell'amministrazione che dovremo riferire. Pur senza affrontare i difficili problemi che derivano da una terminologia generica, dobbiamo anche ricordare che come sinonimo di Curia nei documenti si riscontra tanto dohana che camera, motivo per cui è indispensabile la consultazione di queste voci per più particolareggiate informazioni.
Nel proseguire la delineazione verso i livelli minori, si impone innanzitutto un interrogativo circa quello che era stato il vertice dell'amministrazione normanna e cioè il Σέϰϱετον con le sue dohane, attraversato dal furor theutonicus di Enrico VI. Per quanto sia stato detto da Norbert Kamp nel 1974 che i mutamenti introdotti da questo imperatore nell'amministrazione siano più da indovinare che da precisare, è giusto ricordare che egli ‒ maritali nomine re di Sicilia, legato a una tradizione militare e feudale, desideroso, com'è noto, di eliminare anche fisicamente i suoi avversari ‒ distrusse sostanzialmente l'apparato burocratico normanno, i cui uffici sopravvissero a volte quali nomina, svuotati del loro contenuto e ridotti a entità minori, con ridotta competenza: ciò è stato confermato dallo stesso Kamp poc'anzi citato. Entro questi limiti, può parlarsi di una sopravvivenza delle dohane negli anni della minorità di Federico II e in quelli in cui il sovrano inizia la ristrutturazione del Regnum, anni che chiameremo, a mo' di puro riferimento cronologico, ante Librum Augustalem. Apprendiamo così l'esistenza di una dohana Panormi e sappiamo che nel 1223 un "Matheus de Romania" sottoscrive con la semplice qualifica di secretus un diploma dato durante l'assedio di Celano, mentre a partire dal 1229 conosceremo un imperialis dohane de secretis et questorum magister, "Iohannes de Romania", che opera apud Messanam ma che si sottoscrive secretus Sicilie. La presenza poi, nel Liber Augustalis, di sporadiche citazioni delle dohane, costituisce un problema che pare strettamente connesso all'amministrazione isolana, la quale per altro, come vedremo ampiamente più avanti, non ha che occasionale, incoerente ufficialità nelle Costituzioni. Per quanto riguarda il Mezzogiorno, ufficiali qualificati camerarii e magistri camerarii avevano costituito al tempo normanno l'ossatura portante dell'amministrazione, anche se, quanto ai camerarii, non siamo in grado di chiarire del tutto la loro posizione giacché funzionari di tal nome avevano svolto ruoli diversi nel continente e nell'isola, nella quale la qualifica di camerario è attribuita genericamente a ufficiali palatini e convive con la menzione di innumerevoli altri, definiti con vocaboli greco-bizantini. Nel resto del Mezzogiorno invece camerario e maestro camerario corrispondevano a ruoli specifici, che sono stati individuati e profondamente studiati da Evelyn Jamison: ella concludeva col dire che le funzioni dei maestri camerari di Puglia e Terra di Lavoro erano, come quelle dei subordinati camerari, amministrative e giudiziali. Poiché pare che i maestri camerari normanni siano scomparsi al tempo di Guglielmo II, la loro presenza al tempo di Federico II è da considerare una ricomparsa (e su ciò, per più ampie notizie, rimandiamo alle relative voci ribadendo la difficoltà di armonizzare le testimonianze della prassi con quelle della legislazione). Ricordiamo inoltre che l'ufficio di camerario, testimoniato nell'isola almeno dal 1217 nella persona di Costantino di Eufemio, quando compare simultaneamente a quello di maestro camerario sembra, se non diverso, almeno subordinato a quello di maestro camerario, e comunque di regola esercitato per un solo anno. Con una genericità che è imposta dallo stato delle fonti, si può affermare che le funzioni dei maestri camerari si articolavano essenzialmente su due ambiti, uno propriamente giudiziario e uno amministrativo e fiscale. Come ufficiali al vertice delle aree regionali, i maestri camerari sovrintendevano direttamente agli ufficiali locali. Ad essi veniva affidata, in toto o in parte, la funzione di amministrare il territorio attraverso il controllo dell'esazione delle imposte e l'esecuzione di mansioni specifiche di volta in volta indicate nei mandati, tra le quali quella di stipendiare falconieri, leoparderii e camellarii, tutti addetti ai solacia del re. Parrebbe che l'ufficio di maestro camerario venisse esautorato negli anni Quaranta a favore di quello di magister procurator, come dimostrerebbe una serie di Novellae di incerta datazione, per risorgere negli ultimi anni di regno di Federico (su ciò v. le relative voci). È utile aggiungere che di alcuni funzionari conosciamo i compiti ma non la qualifica: esemplare su questo punto è il caso di "Alexander filius Henrici" più volte presente nel Regestum senza che venga indicato il suo ufficio, e solo per deduzione possiamo credere che in un periodo della sua attività egli sia stato magister procurator Apulie. È comunque da sottolineare che, come meglio si vedrà più avanti, nel 1246 viene completata per tutto il Regnum l'istituzione di magistri camerarii destinati a rappresentare il vertice dell'amministrazione finanziaria in ogni regione dello stato, compresa l'isola di Sicilia, e che tali funzionari assorbono le funzioni di coloro che erano stati da ultimo magistri procuratores.
L'ambivalenza rispetto a mansioni giudiziarie e fiscali si ripresenta negli ufficiali locali sottoposti a camerari e maestri camerari: i baiuli, nel 1231 previsti in un numero non superiore a tre per ciascuna sede e successivamente ridotti a uno. Essi a tenore delle Constitutiones avrebbero dovuto, come i camerari, giurare al momento della loro assunzione di esercitare l'ufficio ‒ che, chiamato baiulatio, veniva conferito in credentiam o in extalium ‒ pure, sine fraude, non amore, non odio, non pretio nec timore. Fondamentale è la loro importanza nell'amministrazione finanziaria, anche per i compiti di controllo che avrebbero dovuto svolgere nei confronti di altri ufficiali quali foresterii, fundicarii, passagerii seu portonarii, plateari (rimandiamo alle voci specifiche per altri particolari). Non si può ignorare invece, in questa sede destinata a offrire una visione complessiva, la difficoltà che sorge dalla già accennata incoerenza tra legislazione e realtà amministrativa, complicata dalla difficile interpretazione di alcune norme dello stesso Liber Augustalis. Il riferimento è a quelle costituzioni (per esempio Iustitiarios,camerarios e Iustitiarios regionum) che fra i compiti dei baiuli inserivano quello di fornire auxilium et consilium ai magistri dohane de secretis et questorum. Ma il problema della persistenza di questi ultimi ufficiali va trattato ex professo più avanti.
È necessario adesso accennare agli altri funzionari che svolgevano compiti di amministrazione, soprattutto per individuare gestione e riscossione dei cespiti fiscali. Di primario interesse appare subito la figura del cabellotus, dell'ufficiale cioè destinato a esigere le gabelle, genericamente chiamate proventus iurium Curie regis, definibili oggi come imposte sugli scambi dei generi di consumo. Come più sopra si è accennato, Federico aggravò con nova iura quelle dei tempi normanni, creando anche dei generi di monopolio come il sale, dalla cui vendita veniva ricavato il denaro per pagare i salinari, l'acciaio, la seta, la tintoria, mentre altri generi erano sottoposti a un regime che al monopolio era estremamente simile, in quanto essi venivano acquistati in toto dalla Curia e rivenduti con notevole guadagno: così la canapa, il sego, la pece. Dei nova iura Andrea d'Isernia ci ha lasciato una lista che, nelle antiche edizioni, così elenca: ius fundaci, ferri, azarii, picis, salis, ius staterae seu ponderaturae, ius mensuraturae, riae de novo [sic nelle edizioni], ius setae, ius cambii, saponis, molendini, bechariae novae, imbarcaturae, ius sepi, ius portus et piscariae, ius exiturae, ius decini [sic], tinctoriae, ius marchium celandrae, ius balistarum, ius gallae ‒ ius lignaminum non est ubique ‒ ius cabellae auripellis non est ubique per Regnum; nell'ottobre del 1232 per altro, come si apprende da un sunto fattone da Riccardo di San Germano, Federico promulgò nuove assise che rivedevano tutta la materia (per i particolari sulle prerogative e mansioni dei gabellotti, rimandiamo, in ultimo, alla voce cabellotus).
Si riallaccia all'istituzione dello ius exiturae or ora nominato il regime dei porti e la struttura burocratica loro preposta con il connesso movimento commerciale; detto ius fu imposto dal sovrano in un'epoca imprecisata, insieme al divieto di esportare cereali senza espressa autorizzazione: alla Curia veniva così assicurato un reddito notevole fino al 15 ottobre 1239, allorché venivano creati degli ufficiali denominati custodes portuum ai quali veniva demandato il compito di sorvegliare che si rispettassero le nuove norme in tema di esportazione, che ora diveniva libera per cinque anni, purché si pagasse alla regia Curia un quinto del valore totale del grano in Sicilia e in Puglia, e un settimo per l'Abruzzo, il Principato, la Terra di Lavoro e la Calabria. I custodes portuum venivano nominati da un magister portulanus al quale rispondevano della loro amministrazione, e vi erano più portulani i quali, come ai tempi normanni, avevano generale competenza su tutta la materia delle imposte che gravavano le merci in arrivo o in partenza via mare. Essi raccoglievano le somme provenienti dai custodes consegnandole in un primo tempo ai recollectores pecunie e successivamente, fornendo i rendiconti, ai magistri rationales di cui si dirà tra poco.
Si è parlato finora di quelle imposizioni che con linguaggio moderno potremmo chiamare indirette, ma è necessario ricordare che un notevole reddito proveniva al fisco regio dalla imposizione della collecta (v. Colletta), la quale gravava quasi come una imposta patrimoniale su tutti i sudditi, compresi i feudatari per i loro beni allodiali. Nata come riservata ai ben noti quattro casi feudali, Federico la impose a suo libito rendendola quasi annuale, come ci è riferito da Riccardo di San Germano; pare che l'imperatore, una volta stabilita la somma totale dell'imposta, ne ripartisse il carico tenendo conto della popolazione e della ricchezza di ciascun giustizierato: perché era proprio al giustiziere che ne veniva affidata la riscossione, diligentissima consideratione habita. Le fonti narrative stigmatizzano la pesantezza di questa imposta, che veniva accompagnata da impositiones penarum per chi cercasse di evaderla, anche se lo stesso imperatore parla di una trafittura al suo cuore nel chiamare i figli del suo Regno a dare sempre denari, trafitture che alla fine stremarono i sudditi e costituirono le premesse della decadenza del Regnum.
Aggiungendosi ai proventi delle imposte indirette e alla collecta, un notevole reddito proveniva al fisco regio dai beni patrimoniali della Curia, in verità identificabile con lo stesso imperatore, che gestiva quei beni come un grande proprietario terriero, munito però di un'autorità che al proprietario terriero mancava. Seminagioni, colture, attività armentizie, tutto veniva sorvegliato e gestito in modo da riceverne il maggior utile possibile, anche procedendo alla vendita di quei prodotti che eccedessero i bisogni in natura della Curia, e ciò avveniva attraverso maestri procuratori cui erano sottoposti curatuli e altri subordinati: la documentazione al riguardo è molto abbondante ed estremamente significativa nel Regestum.
Non siamo molto informati, infine, sulla destinazione delle somme che derivavano dai proventus Curie, e riteniamo con Adelaide Baviera Albanese che "nel periodo fridericiano si perdette quella confluenza in un solo organo centrale dei vari rami dell'amministrazione finanziaria che si era avuta nell'epoca precedente; mentre il sovrano e il suo consiglio appaiono come il solo vero centro motore dell'attività governativa, l'amministrazione dei beni e dei cespiti fiscali e feudali sembra piuttosto ispirata ad un criterio di decentramento su base provinciale. Non […] si ha alcuna notizia di un tesoriere inteso come organo centrale dello Stato" (1958, p. 312), e in verità il Regestum è chiarissimo nel mostrarci come gli ufficiali locali fossero incaricati di utilizzare gli introiti dei loro uffici per conto della Curia. Come la stessa Baviera Albanese nota, nel 1239 per disposizione imperiale dettagliatamente tramandataci dal Regestum apparvero alcuni collectores o recollectores Curie distribuiti in cinque distretti: 1)Abruzzo; 2)Terra di Lavoro, Molise, Principato e Terra di Benevento; 3) Capitanata, Basilicata, Terra di Bari e Terra d'Otranto; 4) Sicilia citra flumen Salsum, comprendente anche la Calabria fino alla porta di Roseto; 5) Sicilia ultra flumen Salsum, cioè la Sicilia occidentale. A costoro dovevano esser consegnati tutti i proventi pubblici da parte degli altri ufficiali che avessero maneggio di denaro, compresi esplicitamente i secreti di Sicilia e implicitamente i maestri portulani: almeno per quanto riguarda la Sicilia però l'ufficio fu transitorio perché il compito fu riassegnato ai secreti nel gennaio del 1240.
Con lo stesso provvedimento si ordinava che tutti i proventi delle collette allora effettuate fossero versati nell'erario apud Salvatorem maris in Napoli, presso il Castel dell'Ovo (ma su tutto ciò, per una più ampia considerazione della varietà dei problemi legati al complesso tema, v. le voci Custodes erarii Sancti Salvatoris ad mare e Camera regis). Si aggiunga che, come più volte ripetuto, è la utilitas Curie ‒ in definitiva quella dello stesso imperatore ‒ che determina i ruoli non solo delle persone ma, si consenta il tra-slato, dei luoghi: così il 12 febbraio del 1240 Federico ordinava ai custodes erarii Sancti Salvatoris ad mare di inviare tutto il denaro della Curia al castello di Introdoco, che ancora nel marzo è indicato come centro di raccolta del denaro.
Ultimo argomento di carattere generale è quello che riguarda il controllo dei conti. Pare che al tempo dei normanni gli organi superiori rivedessero quelli degli organi da loro dipendenti mentre l'esame dei rendiconti degli ufficiali più elevati era devoluto al sovrano che lo esercitava in seno alla Curia regis. Durante il regno di Federico, prima del 1240, non troviamo sostanziale differenza con questa impostazione, che vede protagonisti i familiares regis, tanto che nel 1235 tra i compiti dei familiares cui veniva affidato il governo durante l'assenza del sovrano viene espressamente compreso quello di esaminare i conti dei funzionari dipendenti dalla regia Curia. È probabile che, sforniti di competenza tecnica, quei familiares abbiano dato cattiva prova, ma è certo che il 3 maggio 1240 fu deciso di istituire un'unica corte contabile che avesse giurisdizione su tutto il Regno e che fosse composta da tre funzionari forniti di competenza tecnica: Tommaso da Brindisi, già maestro camerario di Puglia, Angelo de Marra, già custode dell'erario Sancti Salvatoris ad mare, e Procopio de Matera notaro, cui per altro nella lettera di nomina non viene attribuita la qualifica di rationales che la storiografia ha loro, in modo sostanzialmente esatto, conferito perché risultante da altra documentazione. A costoro si assegna locum competentem nel castello di Melfi per conservarvi registri e denaro e, tramite il vescovo di quella città, si procura loro un'abitazione. Il periodo che riguardava il controllo dei conti degli ufficiali andava dal giorno della incoronazione del sovrano, cioè dalla Pentecoste del 1198, fino al presente, e pertanto pare rivestire carattere di eccezionalità: ne è prova che altro analogo comando imperiale è quello del principio dell'anno indizionale 1247-1248 allorché l'imperatore, avendo rinviato il suo soggiorno in Germania, ordina nuovamente un controllo dei conti degli ufficiali del Regno fino a quel momento. Nella presente sede non è possibile seguire particolareggiatamente le vicende dell'ufficio, ma è necessario precisare che dai documenti risulta che esistevano semplici rationales ‒ rationales residentes uno loco ‒ subordinati ai magistri rationales in Curia morantes. È lecito comunque concludere che in età fridericiana i magistri rationales non appaiono costituiti in una magistratura dotata di autonomia rispetto alla Magna Curia, o meglio alla Magna regia Curia, così come avverrà ai tempi di Manfredi. Inoltre, come ha ritenuto Baviera Albanese, "con probabilità per l'ultimo periodo svevo", pare che i maestri razionali avessero dei compiti che trascendevano la semplice revisione dei conti: "erano infatti incaricati di provvedere a tutta la corrispondenza riguardante la materia finanziaria; rispondevano ai quesiti che i vari ufficiali del Regno sottoponevano al Sovrano, esaminavano le peticiones che involgevano l'interesse del fisco cum ipsi melius quam aliisciebant iura fiscalia, pro eisdem iuribus defendendis et declarandis" (Baviera Albanese, 1958, p. 340); fra le loro mansioni erano comprese la conservazione negli archivi della Curia dei registri fiscali e degli inventari dei beni mobili della Curia, e la registrazione di tutti i mandati relativi alle entrate e alle uscite degli uffici. Notevole doveva essere il loro potere politico, giacché, come quelli che erano in grado di conoscere i debitori della Curia e il grado di onestà ed efficienza di chi avesse già esercitato uffici finanziari, intervenivano nelle nomine degli ufficiali. Problematico è invece il loro rapporto con gli introiti e i rendiconti delle loro attività giacché una parte della storiografia ‒ soprattutto Paolucci ‒ è orientata per individuare in un ufficiale chiamato logotheta il capo dei rationales, privo di importanza politica e gravato di compiti che oggi chiameremmo di 'maestro di casa', condivisi con il senescalco, quali il redigere l'inventario di tutto ciò che si trovava nella corte, dagli oggetti agli animali, alla dispensa, di tutto tenendo conto finanziario. Ma, a parte che queste supposte mansioni si dedurrebbero da più tarda documentazione e non troverebbero precedenti nell'età normanna, non pare che per quanto riguarda l'ambito finanziario si possa andare al di là di quelle sporadiche testimonianze che vedono il logotheta in alcuni periodi ricevere personalmente dagli ufficiali periferici gli introiti e i rendiconti della loro attività, in ciò coadiuvato da commissarii e officiales.
Il compito di occuparsi delle spese relative agli edifici loro affidati e al pagamento dei soldati assegnati a ciascun castello lega all'amministrazione finanziaria i provisores castrorum, oggetto di studio particolare di Eduard Sthamer (1914), i quali in un primo tempo svolgevano questo compito tramite i castellani, e dal 1239 direttamente, attingendo dalle risorse dei recollectores pecunie. Ma queste competenze paiono convergere con quelle di altri ufficiali, come i giustizieri e i secreti, mentre gli approvvigionamenti sembrano affidati ad altri funzionari: così nel 1239 sarà il razionale Angelo de Marra a doversi occupare di quelli relativi al castello di Napoli. Tale incertezza è condivisa dalla Curia, che a volte ignora a chi spettino detti compiti ‒ in tal caso l'informazione verrà fornita dai giustizieri ‒ anche se è certo che la manutenzione di alcuni edifici era prevista da parte di determinate comunità o persone, mentre per altri era la Curia a dover provvedere, a meno che, trovandosi essa Curia a corto di danaro, non spostasse l'obbligo sulle comunità: simmetricamente, era la Curia che interveniva quando i sudditi risultavano troppo gravati; talvolta, come nel caso dei castelli di Montecassino e di Pontecorvo, l'obbligo spettava per metà alla Curia e per l'altra metà ad altri soggetti. Quanto alla costruzione di nuovi castelli, essa è affidata specificamente a un prepositus novorum hedificiorum con interventi eccezionali del giustiziere, ma in Sicilia vediamo che tali compiti sono affidati anche ai secreti.
Sicilia. Come si è accennato all'inizio, una caratteristica particolare della storia dell'amministrazione fridericiana del Regnum è quella di offrirci una insolita dicotomia che a sua volta mostra due aspetti: le fonti legislative e le altre relative alla realtà amministrativa non sono concordi tra loro.
Ora, una simile situazione esige, in questa occasione, una scelta precisa: da un lato infatti si pone l'ipotesi di tentare di delineare i profili dell'amministrazione deducendoli dalla legislazione, in primo luogo cioè dal Liber Augustalis, dall'altro quella di raggiungere l'obiettivo tramite la documentazione prodotta dagli uffici. Nel primo caso si potrebbe approdare ‒ come in altre sedi più volte abbiamo ripetuto ‒ all'evocazione di un'entità mai incarnata, nel secondo ci si troverà di fronte a una serie di immagini non consecutive tra le quali bisognerà cercare un ordine e una connessione che riconducano a un quadro comunque normativo.
La nostra scelta è quasi obbligata: riteniamo infatti necessario porre in secondo piano il Liber Augustalis, pur ripromettendoci di considerare al termine del nostro lavoro l'individuazione della legittimazione dell'operare dei burocrati, e dedicarci invece alla descrizione delle varie fasi che attraversò l'assetto amministrativo dell'isola.
Innanzitutto una premessa storica: l'affermazione più sopra fatta, e cioè che la Sicilia aveva mostrato durante l'età normanna una forma di stato monarchico caratterizzata dall'accentramento dei poteri nelle mani del sovrano, titolare diretto di ogni potere pubblico, convive con la differenziazione amministrativa delle due zone del Regno, quella continentale e quella isolana, e parrebbe corrispondere addirittura alla intitulatio usata per primo da Ruggero e poi dai Guglielmi di Rex Siciliae, ducatus Apuliae et principatus Capuae, la quale sottolinea la sopravvivenza di una distinzione dei territori che, in diversi tempi, erano confluiti nella monarchia creata nel 1130. Tale fenomeno fu trascurato o equivocato dalla storiografia ottocentesca, mentre fu individuato e analiticamente descritto da Jamison, soprattutto in Admiral Eugenius (1957); contemporaneamente giungeva agli stessi risultati Baviera Albanese, che nel definire Ruggero II primo sovrano illuminato giustificava questa asserzione muovendo dall'esame delle realizzazioni da lui raggiunte nell'isola di Sicilia, che fin dal principio appare chiaramente differenziata dal resto del Reame, nel quale il modo dell'insediamento normanno e la preesistente struttura condizionarono in modo evidente la sua opera e quella dei successori, almeno fino al momento in cui Guglielmo II, come si è detto, cercò di raggiungere un assetto più omogeneo. In estrema sintesi fino al tempo di Enrico VI operò un 'secreto' nel quale confluivano la dohanade secretis, quella baronum e l'altra questorum: denominazioni intraducibili anche perché relative a uffici non perfettamente ricostruibili quanto alle competenze per mansioni e per territori, ma di cui si può sinteticamente dire che gestivano l'amministrazione finanziaria delle terre demaniali e di quelle feudali.
Si deve comunque specificare che l'organico delle dohane di quegli anni è articolato essenzialmente in magistri e in semplici secreti, che il termine dohana è talvolta accompagnato nella documentazione, quasi a sfiorare un sinonimo, da quello di Curia, e inoltre che alla dohana stessa erano sottoposti, fra gli altri, i portulani e i baiuli. È indispensabile inoltre tenere conto della nomenclatura di uffici e ufficiali fatta in greco-bizantino: nomenclatura che non solo integra, ma a volte si sovrappone a quella in latino ponendo numerosi problemi, non sempre risolvibili allo stato attuale delle nostre conoscenze. Non è qui il caso di dire di più, sottolineando tuttavia per quel che riguarda il nostro assunto che molte norme concernenti l'amministrazione normanna ci sono pervenute tramite il Liber Augustalis ‒ nel quale, come è noto, furono recepite numerose assise di Ruggero II e dei due Guglielmi, ma con incerta attribuzione e con incerto testo.
La situazione ereditata da Federico era però quella che si era stabilizzata alla fine del regno di Enrico VI, caratterizzata, come più sopra si è detto, dalla distruzione che quel sovrano fece dell'apparato burocratico normanno e dalla riduzione a istituti minori delle dohane: ciò forse anche in relazione a uno stato politico che non presentava più i caratteri di una consolidata pacificazione, la sola che consenta la realizzazione di progetti ad ampio respiro, ma che piuttosto richiedeva provvedimenti di immediata praticità. Ciò appare tanto più verosimile in quanto l'avvento di Enrico VI al trono segnava l'orientarsi del sovrano in direzione di una simbiosi con la feudalità del Regno, che era stata invece tenuta a freno dalla dinastia degli Altavilla.
La sopravvivenza quindi della dohana nel periodo della minorità di Federico II è attestata sufficientemente dai documenti, senza tuttavia che si avvertano mutamenti circa i profili che abbiamo cercato di tracciare per l'età di Enrico VI, né mutamenti ulteriori di rilievo compaiono, per quel poco che ne sappiamo, negli anni in cui l'imperatore, raggiunta la maggiore età, iniziò la ristrutturazione del Regnum, anni che abbiamo già chiamato, a modo di mero riferimento cronologico, ante Librum Augustalem. È dunque certamente precedente la divisione dell'isola in due circoscrizioni, Messane e Panormi, quest'ultima attestata a partire dal 1219: l'attenta analisi dell'attività degli ufficiali preposti è indispensabile per procedere, in un momento successivo, al tentativo di paragonare l'ufficio di secreto con quello di altri funzionari, ma possiamo anticipare, in via del tutto sintetica, che le competenze dei secreti consistevano nell'amministrazione degli iura regalia, compresi quegli immobili la cui strumentalità era connessa all'esercizio di un diritto proprio del sovrano, quali le saline, le foreste, le tonnare. Per quel che riguarda i nomi di coloro che hanno ricoperto l'ufficio predetto, sappiamo di un "Matheus de Romania de Scala" attivo nella Sicilia orientale, il quale sottoscrive un diploma dato durante l'assedio di Celano con la semplice qualifica di secretus dall'aprile 1223, seguito nella stessa circoscrizione da un "Iohannes de Terminis" e poi, a partire dal 1229, da "Iohannes de Romania de Scala", imperialis dohane de secretis et questorum magister, che opera apud Messanam ma che si sottoscrive secretus Sicilie. A partire dal 1234 vedremo un secretus, "Matheus Marchafaba [Marclafaba, Markafaba] de Salerno" (v. Matteo Marclafaba), attivo in Messina e probabilmente a capo di un ufficio le cui competenze territoriali venivano definite dall'espressione Sicilia citra flumen Salsum: ufficio, lo ripetiamo, di cui non conosciamo anno e modalità di istituzione, ma che continuiamo a descrivere isolatamente, per scelta di metodo. Matteo, dunque, ordinato secreto nel 1233 come ci informano gli Annales Siculi, era stato, secondo una testimonianza di Riccardo di San Germano riferentesi al 1230, magister camerarius Apulie e successivamen-te magister camerarius Principatus et terre Beneventane, mentre la sua attività in Calabria ‒ secondo un documento attribuito da Huillard-Bréholles al 1231 ma consistente in una cattiva trascrizione, forse mutila e in definitiva alquanto sospetta ‒ rimane incerta. Esercitò la carica fino alla sua morte, avvenuta il 1o agosto 1239, forse a seguito di un delitto, e di lui sappiamo che aveva redatto un testamento in cui legava all'imperatore alcuni crediti per complessive 86 onze, 20 tarì e una gualdrappa, e che alcuni suoi parenti portarono via da Messina molti dei suoi beni, che Federico volle si recuperassero. La sua gestione ci è nota attraverso il Regestum napoletano: in data imprecisata inviò ad Accon (odierna S. Giovanni d'Acri) una nave che portava victualia, tornata indietro carica di stoffe; tenne presso di sé dei quaterniones in cui erano contenuti distintamente tutti i redditi della dohana e della secrezia che dopo la sua morte furono custoditi attentamente per ordine del sovrano. Fu zelantissimo nel compiere i suoi doveri: sovraintese alle marestallie Vallis Grate et terre Iordane, aiutò Enrico Abbate e Simone di Pietramaggiore a incassare alcuni insoluti, riscosse la tassa della galea di Messina, fece coniare la nuova moneta e la fece distribuire in Sicilia e Calabria, amministrò i victualia curie, tam de pariclis quam de granariis, provvide alle spese dei falconieri incaricati di riunire in Messina i falchi imperiali. Egli aveva nel Molise cavalli e muli che alla sua morte vennero incorporati ai beni della Curia, amministrò i beni della Chiesa di Reggio, provvide al pagamento del custode della camera di Lentini e del suo personale, funse da provveditore per il castello di Scaletta.
All'atto della sua morte la secrezia venne gestita da "Iohannes de Cioffo, Magister Camerarius a porta Roseti usque Farum", fino alla nomina del nuovo secreto "Maior de Plancatone de Baro", già magister camerarius in Abruzzo, il quale prendeva possesso della carica pur non avendo potuto giurare nelle mani di Giordano Filangieri, capitano di Calabria e Sicilia, per l'assenza di quest'ultimo da Cosenza. L'ufficio prevedeva la collaborazione di un notaro e di un giudice, i compensi non precisati vennero modellati su quelli del predecessore al fine di evitare una maggiore spesa, gli fu raccomandato di guardarsi da coloro che tentassero di approfittare della sua inesperienza, informando sempre di tutto la Curia attraverso dei nuncii che egli stesso avrebbe provveduto a retribuire. Seguiamolo nell'esercizio delle sue mansioni. Ha competenza riguardo tutti i victualia: provvede attraverso i curatuli ‒ anche quelli animalium ‒ a mansioni legate all'agricoltura e ai relativi consumi, come nel caso della vigna e dei giardini di Catona in Calabria e di Messina, o ai rifornimenti di vino per il palazzo di Napoli o per quelli della Capitanata, e ancora all'allevamento del bestiame, alla consegna ad altri ufficiali dei capi bovini richiestigli o, nelle scuderie imperiali, al controllo dei muli da sella, o degli asini da monta, dei cavalli ‒ avendo cura di far crescere in modo eguale il loro numero rispetto a quello dei muli ‒, di pecore, castrati, arieti o vacche. Si occupa delle foreste e della caccia, provvede alla migliore divisione delle terre di Augusta tra castelli e palazzi imperiali, fornendo al magister hedificiorum il denaro necessario per le fabbriche e sorvegliando i relativi inservienti. Particolarmente interessante è la sua tenuta dei registri, conservati nella chiesa "Sancti Salvatoris de Lingua", così come quelli del suo predecessore Matteo, di cui richiede una copia, trovandosi detti registri chiusi con undici sigilli, destinati, dopo l'effettuazione della copia anzidetta, a essere conservati nel castello di Messina a cura del castellano "Senator de Archis". Riceve il giuramento di un nuovo notaio della zecca di Messina, che si affiancherà all'ebreo Gaudio, e si adopera perché avvenga la distribuzione della moneta di nuova coniazione contemporaneamente alla restituzione di quella vecchia. Accoglie e ospita gli ambasciatori del sultano e i crociati diretti in Terrasanta, rifornisce di denaro Gualterio de Fisaulo che deve accompagnare a corte un personaggio che viene dalla Palestina e affronta le spese per far trasferire a Malta un prigioniero; si occupa dei beni delle chiese vacanti utilizzandone talvolta i proventi per rifornire i castelli, con le rendite del suo ufficio deve pagare alcuni debiti. Altre volte gli si ordina di procurare oggetti legati all'arte militare, come uno scudo e due selle per Corrado, figlio del sovrano, e per un valletto di sedici anni, o delle balestre e delle corazze. Dovrà occuparsi pure di inviare a corte oggetti di artigianato, come trombe d'argento o tappeti preziosi; di notevole rilievo appare la competenza circa la ricerca di tesori, perché da mettere in relazione alla costituzione Dohane de Secretis. Particolare interesse riveste la sua attività nel campo della marineria, anche perché a lui era affidata l'esazione della relativa gabella, nonché il controllo sulla costruzione dei vascelli dello stolium principis.
Vedremo in sede riassuntiva quali fossero i rapporti con altri funzionari, e passiamo ad analizzare le testimonianze sull'attività del dohane de secretis et questorum magister nella Sicilia ultra flumen Salsum, designato anche come secretus Panormi. Di tale funzionario abbiamo notizia, come si è detto, a partire dal 1219, ma non siamo in grado di accertarne le competenze nel periodo che precedette l'esercizio dell'ufficio da parte di Oberto Fallamonica (v.) ‒ in precedenza magister portulanus Sicilie ultra flumen Salsum ‒ che già certamente lo ricopriva il 5 ottobre 1239, assai probabilmente dopo un lungo periodo di vacanza o addirittura con compiti di nuova istituzione: dei suoi predecessori conosciamo soltanto il nome di un Raimondo, i cui registri, custoditi dal castellano del palazzo, verranno conservati in copia dallo stesso secreto. Era, Oberto, un personaggio di origine araba che sporadicamente usò il suo signum saracenicum e il relativo sigillo, come risulta da un documento del 1244, e che proprio a motivo della sua etnia svolse attività di carattere diplomatico presso principi arabi: la sua nomina costituiva la ripresa di un'antica tradizione del Regnum normanno che aveva visto reclutare tra gli arabi molti dei burocrati destinati a svolgere mansioni nel campo dell'amministrazione finanziaria. Le sue competenze non erano diverse da quelle del secretus Messane, e qui ci si limita pertanto a segnalare le altre che sono complementari o degne comunque di essere ricordate. Così i rapporti col gaytus di Palermo, sull'ufficio del quale poco sappiamo per l'età sveva, ma che era già presente nell'età normanna, durante la quale avrebbe avuto funzioni di maestro camerario del palazzo regio, conservando quella denominazione araba anche se fosse stato di origine greca o latina, o addirittura, come nel caso di Thomas Brown, inglese. A Oberto nel marzo del 1240 viene ordinato di prestare aiuto e consiglio al gaito notaro Filippo, e al tempo stesso di verificarne i conti, ai quali si riconnettono quelli del precedente gaito, Matteo, i cui registri sono conservati, sigillati, nel palazzo di Palermo: parrebbe dunque che il secretus Panormi fosse un superiore del gaito, ipotesi confortata dal fatto che era lui a nominarlo, ed eventualmente a rimuoverlo, giacché non mancavano le occasioni di contrasto. Fallamonica inoltre provvede alle necessità dell'imperatrice, controlla l'amministrazione delle excadencie, sovrintende agli ebrei, acquista e istruisce schiavi di colore, è autorizzato alla riparazione di una nave, a lui destinata, ma ormeggiata a Messina. Funzionario zelante, impedì agli abitanti della Sicilia orientale che possedessero victualia nella parte ultra flumen Salsum di trasportarli nella zona di residenza, come se essi fossero di un'altra regione: di ciò fu rimproverato dall'imperatore, che precisò che il fiume divideva le competenze degli ufficiali, e non due province.
Ma tale regime volgeva al termine: il 3 maggio del 1240 il sovrano comunicava a Oberto di averlo nominato magister doane de secretis e magisterquestorum per tutta la Sicilia a partire dal Faro, con esclusione cioè della Calabria: al nuovo ufficio sarebbero afferiti un giudice con lo stipendio annuo di 8 onze d'oro ‒ il primo a essere nominato sarà Tommaso di Boiano ‒, due notai che riceveranno annualmente 4 onze ciascuno e altri collaboratori. Tale provvedimento, lo diciamo incidentalmente, inclina a datare 1240 la novella Presenti lege decernimus ut officium.
Lo stesso giorno tutti gli ufficiali di Sicilia venivano informati della nomina di Fallamonica con una lettera che parzialmente citiamo in nostra traduzione: "Affinché l'organizzazione degli ufficiali del nostro Regno non confonda per mancanza di specificazione i nostri uffici, impedisca l'interesse del nostro fisco e generi anche danno ai nostri fedeli, così con ponderata decisione la nostra eccellenza ha provvisto che vi debba essere dal Faro e per tutta la Sicilia un solo secreto che gestisca con la massima cura i diritti della nostra Curia, esegua diligentemente i nostri servizi, renda giustizia ai nostri fedeli secondo le sue competenze. Pertanto, sicuri della prudenza e della correttezza del nostro fedele Oberto Fallamonica, lo abbiamo nominato doanerium de secretis et questorum magistrum dal Faro e per tutta la Sicilia, affinché debba gestire fedelmente d'ora innanzi lo stesso ufficio e tutto ciò che a questo è connesso […]". Nella motivazione del provvedimento spicca la parola ordinatio contrapposta al verbo confundere e pertanto è facile ricollegarla a quella precisazione contenuta nel rimprovero poc'anzi citato. Particolare comunicazione fu fatta ai maestri della zecca di Messina, mentre a "Maior de Plancatone" fu ordinato di rimettere i suoi registri al secretus Sicilie.
L'attività di Oberto quale unico secreto di Sicilia è ben documentata e non mostra particolarità alcuna, circa le sue competenze, rispetto alle precedenti mansioni di secretus Panormi, mentre la sua attività diplomatica è da ricondurre all'origine araba, cui abbiamo già accennato; egli ricoprì l'ufficio fino all'agosto del 1245 ed ebbe vita molto lunga giacché lo vediamo, sopravvissuto alla dinastia sveva, interrogato nel corso di alcune inquisitiones dell'età angioina. Ma, ritornando all'età di Federico, nel settembre del 1246 l'ufficio di Oberto scompariva, sostituito da due camerariati retti da magistri camerarii secondo l'antica partizione amministrativa di Sicilia orientale e occidentale, delimitate dal fiume Salso. Vediamo così attivo un "Philippus de Cathania, magister camerarius in Sicilia citra flumen Salsum", che opera però a Palermo. E con la stessa qualifica di magister camerarius incontreremo "Iohannes de Scalecta" (1247-1248), "Gualterius de Cathania" (1248-1249), "Iohannes de Plutino", "Sergius Muscettula de Ravello de Messana". Allo stato attuale delle nostre informazioni tuttavia, non riuscendo a delineare un quadro sinottico dell'organizzazione dei maestri camerari siciliani, sarà meglio rinunciare a insicure ricostruzioni parziali, anche perché le preposizioni citra e ultra con riferimento al fiume Salso sono utilizzate nei documenti in modo non del tutto omogeneo.
Parrebbe dunque che l'introduzione in Sicilia dei maestri camerari segni un adeguamento dell'amministrazione dell'isola a quella dei territori continentali, tanto più che da alcuni documenti posteriori apprendiamo che spesso gli stessi funzionari che abbiamo visto attivi in Sicilia come secreti avevano operato nei territori del Mezzogiorno con la qualifica di magistri camerarii.
Ed è proprio nel Mezzogiorno che si moltiplicano le presenze di ufficiali così intitolati: sarebbe perciò estremamente chiarificatore poter ascrivere il fenomeno a una omologazione della realtà amministrativa ai dettati della legislazione: la datazione però di alcune Nove Constitutiones è talmente incerta da non permetterci di andare al di là delle ipotesi. È certo comunque che la comparsa dei maestri camerari in Sicilia non segnò il definitivo tramonto della dohana e dell'unico secretus, il quale ritorna presente in Sicilia nell'anno indizionale 1249-1250 con "Lambertus Cugnetus de Barolo" (rectius de Barulo) che si intitolava imperialis doane de secretis et questorum magister per totam Siciliam, succeduto forse al maestro camerario "Gualterius de Cathania", e a cui subentrò nel successivo anno indizionale 1250-1251 "Bartholomeus Rizari de Cathania". Quali differenze caratterizzino gli uffici cui si è ora accennato non possiamo dirlo, anche perché pochissimo sappiamo dell'unico secreto degli anni 1249-1251, pur potendo rilevare come contemporanea all'ultima ricomparsa del secreto sia quella dei camerari minori: segno questo che insieme al funzionario superiore mutava nuovamente anche la schiera degli impiegati inferiori. Né possiamo spiegarci quale sia il significato profondo dei rapidi mutamenti disposti via via dall'imperatore: qualcuno ha parlato di puro nominalismo, ritenendo così che dietro titoli differenti si celasse lo stesso ufficio; gli autori che hanno sostenuto tale tesi esortano lo storico a non cadere in questa trappola, ma è stato loro ribattuto che per lo storico delle istituzioni il nomen dell'organismo è fondamentale. Del resto, è difficile supporre una sciatta improvvisazione in un sovrano come Federico che, sia pure lentamente e per gradi, cercava di realizzare il mutevole disegno dei suoi propositi, così come è impensabile una mancanza di tecnicismo nella cancelleria imperiale con conseguente uso indifferenziato delle qualifiche: va poi segnalato che il testo greco del Liber Augustalis adopera diverse dizioni per rendere i latini dohane de secretis et questorum magister e magister camerarius.
Una volta, infine, posti i nostri interrogativi sullo sfondo del problema delle riforme come problema di storia sociale, possiamo, sulle orme di Kamp, individuare nel Regno di Sicilia quattro momenti particolarmente significativi: quello delle riforme del 1220-1221 destinate a combattere l'anarchia feudale, quello della emanazione del Liber Augustalis nel 1231, l'altro delle riforme degli anni 1239-1240 e l'ultimo che si può collocare tra il 1246 e il 1250. Se il primo è estraneo al nostro tema, riguardo il secondo si deve ribadire che nel Liber Augustalis con riferimento alla massa di Melfi non v'è univocità tra le costituzioni in esso contenute e la realtà amministrativa siciliana. Circa il terzo periodo, sappiamo che esso è caratterizzato da profonde innovazioni mosse dall'esigenza di migliorare l'amministrazione del Regno, giacché l'imperatore era ben consapevole di ciò che avveniva intorno a lui: dall'inefficienza di alcuni funzionari alla malafede di altri, fino al peculato. Lasciando da parte le norme che attengono a settori diversi da quello finanziario, per quanto riguarda il nostro, è necessario ripetere che la datazione delle Novelle rimane un problema aperto, considerate le diverse opinioni manifestate dagli studiosi: da attribuire al 1240 sarebbero quelle capeggiate dalle costituzioni Nihil veterum e Occupatis nobis, mentre in campo finanziario sono certamente riferibili al quarto periodo le norme per i maestri procuratori, come attestano le lettere di nomina, e quelle per i maestri camerari ai quali si è già accennato. La legislazione che riguarda costoro, attraverso una breve invadenza dei primi nei riguardi dei secondi, mira sostanzialmente all'assestamento che le nuove norme richiedevano: ebbene, come non notare che mentre nella Calabria sottratta all'amministrazione del funzionario siciliano si effettua la nomina di un magister camerarius ‒ che dovremmo considerare anticipazione di una omologazione di tutte le circoscrizioni del Regnum ‒ nell'isola al contempo viene creato l'ufficio di secretus Sicilie? Se le riforme furono formulate in previsione di una conciliazione tra legislazione e realtà dell'amministrazione, così da preparare forse addirittura l'estensione all'Italia del Centro-Nord delle strutture del Regnum, l'isola di Sicilia pare in tale prospettiva, attraverso l'andamento oscillante delle istituzioni, destinata a fungere da 'laboratorio', e ci si rassegna facilmente a non raggiungere un risultato circa l'interrogativo: fu il maestro camerario del 1246 modellato sul secretus Sicilie?, giacché la sperimentazione delle norme aveva in definitiva il solo scopo di individuare quelle più adatte a realizzare il fine ultimo desiderato da Federico: tenere saldamente nelle proprie mani le leve del potere.
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