SICILIA, REGNO DI, CHIESA
L'eredità normanna consegnò a Federico II una mappa compiuta delle istituzioni ecclesiastiche del Regno; gli assetti circoscrizionali faticosamente raggiunti in un cinquantennio di conquista sia sul continente che nell'isola si erano consolidati durante il XII sec. grazie alla politica di Ruggero II e dei due Guglielmi; gli stessi rapporti tra la Chiesa latina e quella greca avevano raggiunto un apprezzabile punto di equilibrio, così come le istituzioni monastiche italo-greche si erano inserite a pieno titolo nelle strutture di aggregazione religiosa del Mezzogiorno.
È necessario, quindi, tenere conto di questo punto di arrivo della distrettuazione ecclesiastica sia per verificare concretamente la situazione del Regno nella prima metà del XIII sec., sia per cogliere le linee di tendenza della politica di Federico II nei confronti delle circoscrizioni vescovili.
Le centoquarantacinque diocesi del Regnum Normannorum ‒ incluse anche le undici Chiese vescovili direttamente soggette alla Sede Apostolica ‒ erano ripartite all'inizio del XIII sec. in venti province ecclesiastiche: 1. Capua (9 suffraganee); 2. Salerno (6); 3. Napoli (5); 4. Amalfi (4); 5. Sorrento (3); 6. Benevento (23); 7. Siponto (1); 8. Bari (11); 9. Trani (2); 10. Brindisi (1); 11. Taranto (2); 12. Otranto (5); 13. Acerenza (5); 14. Conza (6); 15. Reggio Calabria (8); 16. Santa Severina (6); 17. Cosenza (1); 18. Palermo (3); 19. Monreale (2); 20. Messina (2) (Italia Pontificia, 1935, VIII, pp. 214 ss., 339 ss., 407 ss.; 1962, IX, pp. 45 ss., 314, 288 ss., 383 ss., 434 ss., 408 ss., 452 ss., 505 ss.; 1975, X, pp. 16 ss., 124 ss., 109 ss., 221 ss., 272 ss., 329 ss.). A queste vanno aggiunte le sedi episcopali direttamente soggette alla Sede Apostolica come Aversa, Ravello, Troia, Monopoli, Catanzaro, Bisignano, Malvito, Mileto, Melfi, Rapolla, Catania.
Le variazioni di quest'assetto istituzionale nella prima metà del XIII sec. sono del tutto irrilevanti: probabilmente nel secondo decennio del secolo fu restituita la dignità episcopale alla Chiesa di Nocera, dichiarata suffraganea di Salerno (ibid., 1935, VIII, p. 305); nel 1207, in seguito alla distruzione della città, scomparve la diocesi di Cuma (ibid., pp. 469-470). Nella circoscrizione metropolitica di Acerenza, Innocenzo III eresse, il 7 maggio 1203, la diocesi di Matera che fu successivamente unita a quella di Acerenza (ibid., 1962, IX, pp. 453-454).
I rapporti di Federico II con le Chiese del Regno costituivano un passo obbligato della politica dell'imperatore, tenuto conto di due essenziali fattori connessi alla presenza e all'esercizio del potere episcopale: il primo riguardava le decime regie di cui i vescovi erano titolari; il secondo era legato alla 'funzione pubblica', oltre che istituzionale e spirituale, degli stessi vescovi nei territori delle province, funzione che li poneva in diretto contatto con i rappresentanti della Corona intenti alla loro abituale attività di carattere politico, economico e fiscale.
Quest'ambivalente collocazione dei vescovi nelle strutture del Regno non poteva non creare larghi margini di ambiguità, anche perché bisognava, per un verso, garantire la tradizionale identità di interessi tra Chiesa e Corona e, per un altro, tutelare l'honor regis e la libertas ecclesiastica, sempre in equilibrio instabile. Di qui la costante preoccupazione di Innocenzo III di non privare i vescovi delle entrate statali, ma nel contempo di regolamentare la loro elezione al fine di preservarla da ogni ingerenza laicale, compresa quella del sovrano.
Già nell'atto aggiuntivo alla bolla di investitura del Regno di Sicilia, effettuata dal papa a favore di Costanza e dell'infante Federico il 19 novembre 1198, Innocenzo III ribadiva la grande disponibilità ad assecondare le eventuali richieste dei sovrani normanno-svevi tenendo in significativo risalto, in ogni caso, la salvaguardia dei diritti della giustizia e della libertà delle Chiese ("salva justitia et ecclesiarum canonica libertate"): e tra questa "canonica libertas" si faceva rientrare l'elezione dei vescovi. A tale proposito il fine giurista di Segni indicava alcuni punti fermi: alla morte del vescovo, il capitolo cattedrale era tenuto a notificare al re l'avvenuto decesso; quindi lo stesso capitolo doveva procedere all'elezione del successore e chiedere subito il consenso del sovrano in modo da non differire la pubblicità dell'avvenuta elezione. Comunque, l'eletto non doveva prendere possesso dell'ufficio mediante l'intronizzazione prima dell'intervenuto assenso regio e della conferma papale: era questa la via formalmente più garantista atta a tutelare l'"honor" del re e la "libertas" della Chiesa (Historia diplomatica, I, 1, pp. 19-20).
A ribadire questo preciso indirizzo della Sede Apostolica sulla libertà dell'elezione dei vescovi intervenne nel 1215 il IV concilio lateranense (v.) con la promulgazione di ben quattro costituzioni (XXIII-XXVI), dove venivano disciplinate le procedure relative alle elezioni episcopali a cominciare dal periodo di vacanza di una diocesi che non doveva superare i tre mesi (cost. XXIII), per proseguire con la definizione dei compiti del capitolo cattedrale chiamato a riconoscere colui verso il quale convergevano i voti della maior vel sanior parscapituli, anche se nella stessa costituzione sono contemplati altri meccanismi elettivi, quali il compromesso o l'acclamazione unanime (cost. XXIV). Qualora poi l'elezione fosse effettuata da una potestà secolare, l'elezione doveva ritenersi nulla (cost. XXV) e pene severissime erano previste per coloro che confermavano l'elezione di una persona indegna (cost. XXVI; Conciliorum oecumenicorum, 19733, pp. 246-247).
Comunque l'intesa tra Federico II e la Sede Apostolica resse con alterne vicende fino al 1225 quando Onorio III mise l'imperatore di fronte a un fatto compiuto, ricorrendo alla provvista papale (provisio) di cinque Chiese, per di più di importanti sedi, alcune attraverso il trasferimento da altre diocesi, altre mediante nuove nomine: si trattava delle Chiese di Capua, Salerno, Brindisi, Conza e Aversa, cui destinò rispettivamente i vescovi di Patti e di Famagosta, l'abate di S. Vincenzo al Volturno, il priore di S. Maria Nova di Roma e un membro della congregazione dei chierici di S. Paolo di Aversa.
Le persone chiamate a ricoprire queste sedi erano idonee per scienza, vita e buona considerazione; erano altresì di origine regnicola e sulla loro fedeltà si poteva contare: a Federico il papa chiedeva di concedere il favore imperiale e di assicurare loro il pieno esercizio dei propri diritti (Historia diplomatica, II, 2, pp. 222-223).
I prescelti erano: Giacomo "Capuane ecclesie clericum filium quondam Constantini Amalfitani" (1225-1242), il quale, nelle vicende successive che opposero Federico II e la Chiesa, si schiererà a fianco dell'imperatore (Kamp, 1975, pp. 121-128); Cesario "de Anglo" di Amalfi (1225-1263), appartenente al patriziato della città (ibid., pp. 432-445); il benedettino Giovanni, originario del monastero di S. Liberatore alla Maiella, poi passato a reggere l'abbazia volturnense, che poté raggiungere la sua sede solo nell'aprile 1226 morendovi dopo pochi mesi, il 2 ottobre (ibid., p. 673); l'agostiniano Giacomo, prima priore di S. Frediano di Lucca e poi riformatore della canonica di S. Maria Nova in Foro, il quale resse l'archidiocesi composana fino al 1230 (ibid., pp. 745-745); il magister Giovanni Lamberti "de Aversa", che risulta presente in sede dall'agosto 1229 al 13 settembre 1235, giorno della sua morte (ibid., pp. 349-350).
Federico non gradì l'iniziativa di papa Onorio e temporeggiò nel concedere l'assenso regio, sia per il trasferimento dei vescovi di Patti e di Famagosta rispettivamente a Capua e a Salerno, sia per la nomina degli altri tre, dei quali uno proveniente dall'Ordine benedettino e l'altro da quello agostiniano.
In tal senso ci sembra debbano essere interpretati alcuni passi della lunga lettera inviata da Onorio III a Federico II, che l'editore assegna al maggio o giugno 1226 (Historia diplomatica, II, 1, pp. 588-599), ma che verosimilmente va anticipata alla fine di aprile dello stesso anno se, come si evince da alcuni documenti, Giovanni di S. Liberatore, destinato alla sede di Brindisi, non poté raggiungerla prima del mese di aprile del 1226 e se l'arcivescovo di Taranto, di cui parla il pontefice nella stessa lettera, venne arbitrariamente allontanato dalla sua diocesi intorno alla metà di aprile dello stesso anno.
Federico accusò il papa di limitare nell'elezione dei vescovi gli antichi diritti del Regno di Sicilia ("quod jus regni Sicilie in electionibus prelatorum, sicut asseris, debitum ex antiquo, nostris constitutionibus minorari"). Onorio fu tagliente e puntuale nella risposta invitandolo severamente a consultare gli atti sottoscritti dallo stesso Federico e da sua madre Costanza e, altresì, a compulsare le costituzioni dei Santi Padri: solo così non avrebbe incolpato la Chiesa per la giusta difesa delle libertà ecclesiastiche e non avrebbe messo in atto, invocando le esigenze della giustizia, ciò che in realtà si configurava come un abuso.
Fatte queste premesse, Onorio affrontava la ragione specifica della contesa e cioè l'aver provveduto "preter formam communiter requisitam" alla provvista di alcune Chiese vacanti del Regno senza consultare ("te inconsulto") il sovrano, rilevando che sarebbe stato più grave attentato far dipendere il giudizio della Sede Apostolica dall'arbitrio della volontà regia: egli, tra l'altro, non aveva assolutamente inteso promuovere persone sospette, mentre il comportamento del sovrano non sempre si era ispirato a una coerente linearità di condotta.
E qui Onorio citava il caso dell'arcivescovo di Taranto, il "magister Nicolaus" (Kamp, 1975, pp. 698-701) caduto, dopo un periodo di stretta intimità con il re ("quasi cor unum et anima una cum principe censebatur"), in irreparabile disgrazia sino a essere tacciato di tradimento, di latrocinio, di spregio del nome e del sangue del sovrano, a subire la confisca dei beni e il divieto di accesso alla sua sede: insomma a ricevere una condanna senza che si fosse celebrato ritualmente un processo (Historia diplomatica, II, 1, pp. 594-595).
Con il caso dell'arcivescovo di Taranto, Onorio elencava quelli del potente vescovo di Catania, Gualtiero di Palearia (ibid., p. 592), allontanato dalla sua sede con gravi accuse di prodigalità portata avanti a scapito della Corona, e infine del vescovo di Cefalù, Aldoino (ibid., p. 595), destinatario di gravi provvedimenti restrittivi da parte del re, non senza omettere le gravi persecuzioni, una volta colpiti i vescovi, contro gli altri membri del clero.
Sta di fatto che Federico II non inasprì lo scontro con Onorio, anche perché realisticamente il papa aveva scelto i cinque titolari delle Chiese vescovili tenendo conto della loro collocazione politica e degli interessi del re. Da parte sua il successore di Onorio, Gregorio IX, non trascurò occasione alcuna per rinfacciare a Federico l'oppressione delle Chiese del Regno e la conculcazione della libertà ecclesiastica: in una lettera della fine di ottobre del 1227 il papa faceva riferimento al "prelatorum exilium" e alle "ecclesiarum spoliationes" effettuate dal sovrano (ibid., III, p. 33); in un'altra lettera del 7 maggio 1228, rilevava il comportamento iniquo di Federico, ribadendo che era compito del papa, in quanto vicario di Cristo, impegnarsi "pro tuenda justitia et defendenda ecclesiastica libertate" (ibid., pp. 62-63).
Comunque una precisa conferma degli orientamenti 'romani' nell'elezione dei vescovi e nella provvista delle Chiese vacanti si aveva in occasione della pace di San Germano (v.) del 1230 che, come è noto, concluse il primo scontro con la Sede Apostolica già sfociato nella scomunica dell'imperatore.
A scorrere gli atti della faticosa trattativa, che compose il duro conflitto, più volte emerge la questione della libertà delle elezioni dei vescovi nel Regno: innanzitutto in quella sorta di lettera-libello del 23 luglio 1230 del patriarca di Aquileia, dell'arcivescovo di Salisburgo e del vescovo di Ratisbona, in cui si elencano i capi di accusa che furono alla base della scomunica irrogata a Federico: "Item quia ab oppressionibus et spoliationibus ecclesiarum et personarum ecclesiasticarum et conculcatione ecclesiastice libertatis monitus non destitit", non trascurando di far riferimento al caso dell'arcivescovo di Taranto impedito di accedere alla sua sede e di essere vicino al suo popolo. A tal fine i due cardinali legati, Giovanni vescovo di Sabina e Tommaso del titolo di S. Sabina, ingiungevano a Federico di restituire alle loro sedi l'arcivescovo di Taranto e tutti i vescovi e i prelati "qui sunt exules ad sedes et loca sua et ad omnia bona sua extantia" (ibid., pp. 211-213).
Il problema della libertà delle elezioni ecclesiastiche veniva ripreso dai legati il 28 agosto dello stesso anno nelle clausole imposte a Federico per essere assolto dalla scomunica: "quod non impediat [sc. Fridericus] per se vel per alium quin electiones, postulationes et confirmationes ecclesiarum, monasteriorum in regno libere fiant de cetero secundum statuta concilii generalis" (ibid., p. 218), dove è chiaro il riferimento alle costituzioni del IV concilio lateranense.
È ben vero che a Federico rimanevano sempre, in forza delle antiche consuetudini normanne, la licentia eligendi per il capitolo e l'assensus per il candidato eletto: di questi strumenti l'imperatore si sarebbe servito per orientare le scelte verso persone sulla cui fedeltà e lealtà avrebbe potuto contare.
Intanto nel 1231 Federico II apriva un nuovo capitolo di controversie con le Chiese locali del Regno introducendo la riforma del regime delle decime. È stato già richiamato come le Chiese partecipavano a tutte le entrate, presenti e future, finanziarie e reali, dell'autorità regia; ebbene, con la promulgazione delle nuove costituzioni l'imperatore garantì alle Chiese solo lo stato patrimoniale presente, consolidando così le entrate ed escludendo le Chiese stesse dai successivi profitti: "ut decimas integre, prout regis Guillelmi tempore consobrini et predecessoris nostri, ab antecessoribus officialibus et bajulis exolute fuerunt locorum prelatis exsolvere absque omni difficultate procurent" (ibid., IV, 1, pp. 11-12).
Che Gregorio IX reagisse lo attesta una fonte insospettabile, cioè la Chronica di Riccardo di San Germano: "Mense aprilis, Gregorius papa de Reate apud Interamnes vadit et inde vadit Spoletum; qui generales ad regni praelatos litteras dirigit ne quis eorum officialibus imperatoris, occasione defendendi patrimonium Ecclesiae ipsos gravare volentibus, respondeant et intendant" (1868, p. 85).
Secondo questa testimonianza Gregorio IX, nel 1232, aveva spinto i vescovi a fare quadrato contro gli ufficiali regi e verosimilmente a pretendere la partecipazione alle decime regie così come alle entrate provenienti dalle tintorie, dalla produzione della seta, dalle gabelle e via numerando.
La situazione generale delle Chiese nel Regno si aggravò qualche anno più tardi: una denuncia ferma e rigorosa delle persecuzioni inferte alle Chiese troviamo in una lettera di Gregorio a Federico del marzo 1236, nella quale il pontefice evidenziava le spoliazioni di beni effettuate, privando le stesse Chiese della libertà ecclesiastica ("nudate privilegio libertatis ecclesiae"), dai funzionari imperiali. Il quadro che emerge è drammatico: vescovi condannati all'esilio o rinchiusi in carcere; disprezzo del foro ecclesiastico e avocazione ai tribunali civili di processi pertinenti alla giurisdizione ecclesiastica; imposizione di taglie e requisizione dei beni ecclesiastici per sottrarsi alle vessazioni. Sulla provvista delle sedi episcopali vacanti il discorso del papa assumeva toni vibranti: si impediva ai capitoli di eleggere nuovi pastori, consentendo di consumare 'connubi adulterini' con le Chiese vacanti a chi non era stato eletto canonicamente o a qualche intruso: "donec adulterinis alicujus amplexibus qui non canonice, sed per impressionem electus aut alias intrusus fuerit, extiterint copulate" (Historia diplomatica, IV, 2, pp. 810-814).
La risposta di Federico alle gravi accuse del papa giunse nel settembre dello stesso anno con una lettera inviata durante l'assedio di Mantova; in essa l'imperatore tentava di rispondere analiticamente alle accuse specifiche, non a quelle genericamente formulate. Non gli constava assolutamente che avessero subito limitazioni di sorta i privilegi delle Chiese o delle persone ecclesiastiche, mentre erano stati opportunamente salvaguardati i diritti e i beni pervenuti in eredità alla Corona. Quanto poi a portare i chierici in giudizio e a imporre loro il pagamento delle taglie, tutto questo andava riferito a quelle materie che non avevano nulla a che fare con lo stato ecclesiastico, ma che erano di pertinenza della sfera civile. Per quanto concerne, infine, la provvista delle Chiese vacanti, Federico II introduceva una distinzione tra ciò che egli riteneva rientrasse nel suo antico diritto e ciò che, invece, era competenza della Sede Apostolica: nel primo caso Federico avrebbe continuato a rivendicarne la titolarità; nel secondo caso avrebbe garantito il rispetto delle convenzioni punendo i colpevoli; in ogni caso, ammoniva, sarebbe stato opportuno riferirsi a situazioni concrete (ibid., pp. 906-907).
Un momento di drammatica frizione si registrò in concomitanza con le tensioni che sarebbero, in qualche mese, approdate alla seconda scomunica irrogata da Gregorio IX a Federico II: la provvista delle Chiese e la salvaguardia della libertà ecclesiastica divennero questioni nodali per tutta la durata del conflitto.
Cominciò Federico II il 10 ottobre 1239 con una lettera enciclica inviata ai secreti del Regno al fine di nominare procuratori per le Chiese prive di vescovi (ibid., V, 1, pp. 437-438); si trattava delle Chiese di: Agrigento, vacante dal settembre 1239, alla quale venne preposto il 6 luglio 1240 Rainaldo di Acquaviva che resse la diocesi sino al febbraio 1266 (Kamp, 1975, p. 1154); di Monreale, che rimase vacante dal 10 ottobre 1239 al 10 agosto 1258 quando venne preposto Benvenuto (ibid., pp. 1169-1197); di Cefalù, il cui vescovo Aldoyno si trovava in esilio dall'aprile 1235 (ibid., pp. 1055-1063); di Catania, la cui sede risultava vacante dal 1232 (ibid., p. 1221); di Reggio, anch'essa vacante dal 1232 (ibid., p. 931); di Rossano, vacante dal marzo 1239 (ibid., p. 877); di Strongoli, vacante da lunghissimo tempo (ibid., p. 903); di Alife, vacante dal 1233 (ibid., p. 18); di Telese, vacante da qualche mese (ibid., p. 293); di Capaccio, anch'essa vacante da qualche mese (ibid., p. 458); di Aversa, vacante dal marzo 1239 (ibid., p. 350); di Chieti, il cui ultimo vescovo, Gregorio, era morto il 3 ottobre 1238 (ibid., pp. 8-10); di Sorrento, vacante dall'11 ottobre 1238 (ibid., p. 378); di Policastro, vacante da un anno (ibid., p. 473); di Venafro, il cui ultimo vescovo, Riccardo, era morto nel luglio 1239 (ibid., p. 197); di Sora, il cui ultimo vescovo era stato inviato in esilio nel 1236 (ibid., pp. 100-104); di Aquino, che fino al maggio 1239 era stata governata dal vescovo Landone (ibid., p. 148); di Gaeta, il cui vescovo Adenolfo era stato esiliato qualche mese prima (ibid., pp. 84-85); di Penne, il cui ultimo vescovo, Gualtiero "de Civitate Quana", era morto il 16 dicembre 1238 (ibid., pp. 43-45); di Otranto, il cui ultimo vescovo, Tancredi, è attestato sino all'agosto 1235 (ibid., p. 1237); di Melfi, il cui ultimo vescovo risulta attestato il 25 novembre 1237 (ibid., pp. 491-492); di Lecce, il cui ultimo vescovo, Roberto, è attestato nel 1230 (ibid., pp. 732-733); di Monopoli, il cui vescovo risulta eletto il 30 marzo 1238 (ibid., p. 499); di Venosa, vacante dal novembre 1238 (ibid., p. 807); di Salpi, il cui ultimo vescovo, "fater Petrus", è attestato l'11 aprile 1237 (ibid., p. 658); di Potenza, il cui ultimo vescovo, il premonstratense Tommaso, è attestato il 5 ottobre 1231 (ibid., p. 769); di Vieste, il cui ultimo vescovo, Teodino, è attestato nel 1227 (ibid., p. 542); di Ascoli Satriano, il cui ultimo vescovo è attestato il 17 marzo 1224 (ibid., p. 769).
Si è qui indugiato sull'elenco delle diocesi vacanti per mettere in significativo risalto la vastità del fenomeno tra le cui cause Federico ‒ che fa scaturire il suo impegno a provvedere di nuovi pastori le Chiese sprovviste di vescovi dalla protezione che su di esse egli è tenuto doverosamente ad esercitare ‒ menziona il rifiuto di coloro che venivano chiamati a ricoprire le sedi vacanti e la rinuncia di coloro che non riuscivano più a sopportare un tale connubio (Historia diplomatica, V, 1, p. 438).
In realtà le ragioni erano ben altre e andavano ricercate nelle pressioni che lo stesso Federico esercitava verso i vescovi, che voleva schierati dalla sua parte e disponibili alla sua politica: ne costituisce una riprova la lettera del 10 ottobre 1239 inviata dal sovrano al giustiziere di Terra di Lavoro, nella quale si denunciavano i gravi ed enormi eccessi del vescovo di Caiazzo, Giacomo, ritenuti atti irrispettosi e irriverenti nei suoi confronti ("nullam ad maiestatem nostram habendo reverenciam vel respectum"; ibid., p. 439) e, ancora, i provvedimenti assunti contro il vescovo di Fondi, "propter ingratitudinem et indevotionem suam", consistenti nell'espulsione dal Regno e nella confisca dei beni (ibid., p. 463). Nello stesso mandatum a Riccardo "de Montenigro", giustiziere di Terra di Lavoro, Federico faceva riferimento alla nomina di procuratori per le Chiese vacanti effettuate da Riccardo "de Pulcaro", che veniva indicato come "fidelem nostrum" (ibid.).
Era, quello delle procurationes, il metodo abitualmente invalso per il governo delle Chiese vacanti: un metodo che consentiva a Federico il controllo delle Chiese locali in un momento di forte attrito con la Sede Apostolica; questo spiega l'ingiunzione rivolta il 16 dicembre 1239 all'arcivescovo di Capua, Giacomo, verosimilmente nella sua funzione di metropolita, di non concedere la licentia eligendi in occasione della vacanza delle sedi episcopali (ibid., p. 597).
La situazione delle Chiese del Regno e l'atteggiamento nei confronti dell'imperatore svevo non mutarono con l'avvento al soglio pontificio di Innocenzo IV, nonostante che all'indomani dell'elezione di Sinibaldo Fieschi, Federico, il 26 luglio 1243, protestasse la sua devozione "vestris beneplacitis [sc. Innocentii papae] ad honorem Ecclesie et favorem omnimodum ecclesiastice libertatis" (ibid., VI, 1, p. 105).
Infatti, esattamente un mese dopo, da Anagni, Innocenzo IV gli rispondeva pacatamente, ma con fermezza, ricordandogli gli atti ostili messi in atto contro la Chiesa romana, specialmente quelli relativi alle limitazioni delle libertà ecclesiastiche (ibid., p. 115): atti che, con consapevole minuziosità, venivano elencati nella sentenza di deposizione dell'imperatore emanata il 17 luglio 1245 dallo stesso Innocenzo IV. Essi riguardavano le "postulationes, electiones et confirmationes ecclesiarum et monasteriorum" effettuate contro gli "statuta concilii generalis" (laddove è chiaro il riferimento alle costituzioni del IV concilio lateranense già prima ricordate), l'imposizione agli ecclesiastici e ai beni delle Chiese di balzelli e di collette, e il deferimento al giudice secolare degli ecclesiastici. Le accuse si facevano più circostanziate a proposito delle undici Chiese arcivescovili e vescovili vacanti nel Regno per le quali Federico aveva inviato procuratori con grave pregiudizio e pericolo delle anime, essendo state private del governo dei vescovi; e anche quando, aggiungeva il pontefice, si era talvolta proceduto all'elezione da parte dei capitoli, poiché erano stati eletti "familiares eijusdem" (cioè di Federico), si doveva pensare che gli elettori non avevano "facultatem liberam eligendi". Il libello delle accuse procedeva con ritmo incalzante rivelando, oltre l'indebita occupazione dei beni delle Chiese, il furto di croci, turiboli, calici, panni di seta e quant'altro serviva al culto, sebbene parte di questa suppellettile liturgica, in seguito al versamento di danaro, fosse stata riscattata. Gli stessi chierici non erano stati risparmiati dalle vessazioni di Federico, gravati come erano di taglie e di collette, e costretti a subire duelli, incarcerazioni, uccisioni sino al patibolo della croce "in confusionem et obprobrium ordinis clericalis" (ibid., p. 116).
Un'eloquente riprova di questo atteggiamento è fornita dal mandatum della fine del 1247, cioè nel torbido clima della ormai intervenuta rottura con il papato, con il quale Federico ingiungeva ai giustizieri del Regno e dell'Impero di punire con l'esilio e con la confisca dei beni quei chierici che si rifiutavano di celebrare l'eucarestia e di impartire i sacramenti durante l'interdetto e di assegnare i beni confiscati ai chierici "in fide nostra ferventibus" (ibid., VI, 2, p. 581).
Il problema della libera elezione dei vescovi nel Regno costituiva, quindi, un nodo cruciale dei rapporti tra Sede Apostolica e Regno, tenuto conto della natura particolare di questa struttura statuale la cui investitura al sovrano siculo proveniva dal papa. La temperie del giuramento tradito e della fiducia non onorata da parte del sovrano siculo si coglie nell'acerrima invettiva contro Federico indirizzata da Innocenzo IV l'8 dicembre 1248, quando ormai si era definitivamente consumata la frattura con la Chiesa: paragonato alla furia di un 'dragone', l'odio di Federico si era scatenato contro le Chiese e le persone ecclesiastiche; novello Erode, aveva tentato di corrodere dall'interno il corpo della Chiesa non solo non consentendo di esercitare liberamente l'autorità ecclesiastica, ma addirittura disprezzando e conculcando tale autorità, usurpandone le funzioni e i poteri nella provvista delle cattedrali e delle altre chiese, nella collazione dei benefici ecclesiastici, negli abusi perpetrati sul piano giudiziario nei confronti dei chierici per le cause pertinenti il foro ecclesiastico, nella comminazione di pene e nei maltrattamenti effettuati nei confronti degli ecclesiastici fino alla traduzione in carcere e alla pena di morte, sì che risultava completamente assente la pienezza della giurisdizione ecclesiastica e del tutto limitata l'integrità della libertà ("sic ibi jurisdictionis ecclesiastice plenitudo prorsus evacuate et libertatis integritas ex toto comminuta conspicitur").
Di qui l'impegno di Innocenzo IV a ristabilire la libertà e l'autorità della Chiesa nel Regno sostituendosi addirittura al re che, essendo stato deposto, non godeva di alcun potere: in particolare il papa abrogava tutti gli statuti e le disposizioni emanate in deroga o che costituivano pregiudizio alla libertà, all'immunità, all'autorità, alla giurisdizione ecclesiastica e altresì alle consuetudini ad esse contrarie introdotte sia da Federico che dai suoi predecessori; inoltre stabiliva che tutti i beni a qualsiasi titolo alienati o usurpati venissero restituiti alle chiese, alle cattedrali, ai monasteri, ecc., mentre per le città, le terre, i castelli distrutti da Federico veniva stabilita la possibilità di restaurarli o di ricostruirli. Con particolare solennità, come si può constatare dallo stesso formulario del documento, papa Innocenzo sanciva la libertà delle elezioni dei vescovi, la provvista e la collazione dei vescovadi, delle dignità e dei benefici, l'esenzione dei vescovi dal giuramento alle autorità secolari dalle quali non ricevevano le regalie, la resistenza da parte dei chierici o di qualsiasi persona ecclesiastica a rispondere alle ingiunzioni dei tribunali civili, la facoltà di non ammettere al foro ecclesiastico o secolare del Regno chi era incorso in una scomunica maggiore prima che fosse assolto, il potere per gli arcivescovi e i vescovi di giudicare e punire, nell'ambito delle proprie diocesi, alcuni crimini particolari (ibid., pp. 676-681).
Poteva sembrare un diktat, una sorta di bruciante ultimatum, questo di Innocenzo IV, ma altro non era che la coerente ripresa delle ragioni storiche e canoniche che erano sottese alla concezione politica sulla quale si fondava l'investitura feudale del Regno. E sarà lo stesso Federico a riconoscerlo realisticamente nel momento estremo della sua vita, quando, dettando il testamento a Fiorentino il 10 dicembre 1250, introduceva una clausola mediante la quale stabiliva "che a tutte le chiese e le case religiose venissero restituiti i loro diritti e godessero della consueta libertà" (ibid., p. 807): era, questo di Federico, un atto riparatorio, ma anche l'autodenuncia di una prassi che nei lunghi decenni del suo regno aveva contrassegnato i burrascosi rapporti tra potere religioso e potere politico.
Fonti e Bibl.:Historia diplomatica Friderici secundi; Riccardo di San Germano, Chronica, in G. Del Re, Cronisti e scrittori sincroni napoletani editi ed inediti, II, Napoli 1868, pp. 1-100; Italia Pontificia sive Repertorium privilegiorum et litterarum a Romanis pontificibus ante annum 1198 Italiae ecclesiis monasteriis civitatibus singulisque personis concessorum, a cura di P.F. Kehr, VIII, Regnum Normannorum, Campania, Berolini 1935; IX, Samnium, Apulia, Lucania, a cura di W. Holtzmann, ivi 1962; X, Calabria, Insulae, a cura di D. Girgensohn-W. Holtzmann, Turici 1975; Conciliorum oecumenicorum Decreta, a cura di J. Alberigo et al., Bologna 19733. N. Kamp, Kirche und Monarchie im staufischen Königreich Sizilien, I, Prosopographische Grundlegung: Bistümer und Bischöfe des Königreichs 1194-1266, 2, Apulien und Kalabrien, München 1975; Id., Vescovi e Diocesi nell'Italia meridionale nel passaggio dalla dominazione bizantina allo Stato normanno, in Il passaggio dalla dominazione bizantina allo Stato normanno nell'Italia meridionale. Atti del secondo Convegno internazionale di studi (Taranto-Mottola, 31 ottobre-novembre 1973), a cura di C.D. Fonseca, Taranto 1977; C.D. Fonseca, L'organizzazione ecclesiastica dell'Italia normanna tra l'XI e il XII secolo: i nuovi assetti istituzionali, in Le istituzioni ecclesiastiche della "Societas Christiana" dei secoli XI-XII. Diocesi, Pievi e Parrocchie. Atti della sesta settimana internazionale di studi (Milano, 1o-7 settembre 1974), Milano 1977, pp. 327-356; Id., Le istituzioni ecclesiastiche dell'Italia meridionale e Ruggero il Gran Conte, in Ruggero il Gran Conte e l'inizio dello Stato normanno. Relazioni e comunicazioni nelle seconde Giornate normanno-sveve (Bari, maggio 1975), Roma 1977, pp. 43-66; Id., Vescovi, Capitoli cattedrali e Canoniche regolari (secc. XIV-XVI), in Vescovi e Diocesi in Italia dal XIV alla metà del XVI secolo. Atti del VII Convegno di Storia della Chiesa in Italia (Brescia, 25-27 settembre 1987), I, ivi 1990, pp. 83-138.