SICILIA - Scultura e arti suntuarie
Nel variegato panorama artistico del Duecento in S. emergono le opere d’arte suntuaria. Della numerosa raccolta di cofanetti eburnei del tesoro della Cappella Palatina di Palermo notevoli sono quello intarsiato con coperchio troncopiramidale e il grande cofano con avori incrostati e iscrizioni in caratteri naskhê, opere di importazione egiziana della fine del sec. 12°-inizi del 13° (Rocco, 1994; Demma, 1995a; 1995b). L’altro grande cofano con scene di caccia dipinte è invece opera di arte islamica di S. dell’età federiciana (Di Marzo, 1887, pp. 7-39; Rocco, 1994; Davì, 1995a). A una bottega islamica operante in S. nel sec. 13° è pure da riferire il cofanetto di forma cilindrica di avorio dipinto della Mostra Permanente del Tesoro della Cattedrale di Palermo, ove sono raffigurate figure zoomorfe, aviformi, fantastiche, insieme a elementi fitomorfi e floreali (Davì, 1995b).
La corona di Costanza d’Aragona, realizzata nell’opificio del palazzo reale di Palermo (Mostra Permanente del Tesoro della Cattedrale), la cui attività dovette proseguire dal periodo normanno a quello svevo, senza esaurirsi, ha come termine ante quem la data di morte della regina, il 1222. L’opera con nitida incisività presenta tutte le caratteristiche peculiari della produzione orafa dell’opificio del palazzo reale di Palermo dell’età normanna, testimoniandone altresì la continuità stilistica nella prima età sveva. La filigrana d’oro posta sulla calotta aurea, creando vuoti di materia, ne smorza lo splendore e ne accentua gli effetti chiaroscurali; le gemme grezze sono raccolte in cestelli, mentre fili di perline circondano gli smalti, secondo il gusto polimaterico tipico dello ‘stile palazzo reale di Palermo’ (Accascina, 1974, p. 79). Smalti contornati da perline ornavano già un altro capolavoro prodotto nell’opificio del palazzo reale di Palermo, il manto di Ruggero II (Vienna, Kunsthistorisches Mus., Schatzkammer). Incastonatura analoga a quella delle gemme della corona presentano le pietre preziose degli anelli della stessa Costanza (Palermo, Mostra Permanente del Tesoro della Cattedrale), sia quello con castone trapezoidale a orlo ribattuto sia quello rettangolare a forma troncopiramidale con quattro uncini che fermano la pietra (Guastella, 1995a). Sono tuttora conservati solo tre anelli dei cinque riprodotti, insieme a un frammento di collare pure perduto, da Daniele (1784), su disegno di Manganaro. Il terzo anello si caratterizza inoltre per l’altezza dell’incastonatura, rilevabile proprio nelle gemme che adornano la corona. Sono detti ‘di Costanza’ un paio di orecchini di filigrana d’oro conservati a Palermo (Gall. Regionale della Sicilia), ma che tuttavia non facevano parte del corredo funerario della regina, come si rileva dalla descrizione che ne fa Daniele (1784). Si tratta comunque di un prodotto tardo dell’opificio del palazzo reale di Palermo, verosimilmente della fine del regno di Guglielmo II, vicino, per soluzioni tecniche, a talune parti della corona di Costanza. La tipologia delle testine di uccello con il becco adunco, di ispirazione bizantina, è rilevabile anche negli smalti che ornano i guanti di Ruggero II (Vienna, Kunsthistorisches Mus., Schatzkammer). Gli orecchini ripropongono la diffusa tipologia a cestello, che si riscontra in esempi bizantini come quelli databili al sec. 6° (Palermo, Gall. Regionale della Sicilia; Accascina, 1929, p. 228).
A un orafo messinese del primo ventennio del sec. 13° Accascina (1974, pp. 54-57) ritiene sia da riferire il verso della croce-reliquiario di Velletri (Mus. Capitolare), prodotto della tarda età normanna, della fine del regno di Guglielmo II. Analoga appare la croce d’argento con tabelle laterali dell’inizio del sec. 13° di Messina (Tesoro del Duomo), opera ancora legata all’arte normanna, ma dall’iconografia più conforme a moduli bizantini (Di Natale, 1992, pp. 14-18). La decorazione del verso della croce è caratterizzata da palmette tripunte entro spirali e risulta affine a quella che orna, in un fitto intreccio di losanghe, motivo diffuso nelle stoffe bizantine, il reliquiario a braccio di s. Marziano (Messina, Tesoro del Duomo), commissionato da Riccardo Palmer, vescovo prima di Siracusa e poi di Messina (1182-1195) e considerato opera di maestro messinese. La figura della Madonna richiama poi stilisticamente la Vergine orante in marmo del sec. 12°-13° del Mus. Regionale di Messina, anch’essa opera di analogo ambito culturale (Di Natale, 1992). La croce astile del duomo di Messina è stata attribuita all’aurifaber Perrone Malamorte (Accascina, 1974, p. 96), artista gradito a Federico II, che nel 1218 gli donava il casale di Dricino, vicino Milazzo, come attesta una pergamena del Tabulario di S. Placido Calonerò, in origine in S. Maria Maddalena di Valle Giosafat (Lanza di Scalea, 1892, p. 228).
La scultura in S. nell’età federiciana si manifesta soprattutto come plastica architettonica, di cui costituiscono un significativo esempio le decorazioni fitomorfe del portale e dei capitelli di castel Maniace a Siracusa, eretto tra il 1232 e il 1239. Rare eccezioni, relative tuttavia ai primissimi anni dell’età sveva, come sottolinea Andaloro (1995, p. 22), rappresentano il piccolo fonte battesimale con il ciclo dei Mesi della chiesa di S. Maria della Fontana a Lentini, in cui riemergono i modi dei capitelli monrealesi, e la lastra con l’Agnus Dei di Agrigento (Mus. Diocesano d’Arte Sacra), che rimanda agli ambiti artistici dell’ambiente crociato. Tra le mensole vanno segnalate quelle caratterizzate da figure umane e animali dell’abside centrale della cattedrale di Cefalù, da datare nella fase dei lavori successiva al 1240, anno inciso sulla facciata, in cui Gandolfo (1982, pp. 87-88) nota stringenti affinità con il cornicione del transetto del duomo di Trani. Nel Mus. Regionale Pepoli di Trapani sono alcuni capitelli e frammenti di architravi del sec. 13°, come quello con cavaliere che insegue un drago, verosimilmente s. Giorgio, e un altro con ornati romboidali, provenienti dall’attigua chiesa dell’Annunziata, probabilmente dalla cappella di S. Caterina dell’Arena, anteriore al 1240, quando veniva donata da Rinaldo degli Abati ai Carmelitani, che nel sec. 14° vi edificarono il santuario dell’Annunziata. Si ricordano ancora la formella in tufo con scene di aratura, unica superstite tra quelle dei Mesi, e il frammento con cane, ruota e altri elementi decorativi, forse già nella chiesetta normanna di S. Angelo nella campagna ericina (Abbate, 1991, p. 20).
Il paliotto c.d. dell’arcivescovo Carandolet (Palermo, Mostra Permanente del Tesoro della Cattedrale), ritenuto erroneamente dono dell’alto prelato, è composto da una parte superiore, il frontale, realizzata nella seconda metà del Cinquecento, e da un diverso paliotto inferiore, che presenta elementi fitomorfi con ricami aurei, separati da otto fasce di velluto rosso ricamate con perline. Il frontale raccoglie smalti diversi del sec. 13°: cinquantuno placche di varia forma, d’argento, smalto traslucido verde, giallo, rosso e bianco, della seconda metà dello stesso secolo, realizzate in un opificio siciliano (come gli smalti dei prependúlia della corona di Costanza), sei medaglioni in smalti opachi e traslucidi in cui sono raffigurati la Vergine, santi e un angelo, databili alla fine del sec. 13° e di realizzazione palermitana, e infine sei aquile imperiali in argento dorato, sbalzato, granulato e filigranato, ornato da paste vitree e smalti semitrasparenti, opera della metà del sec. 13°, di produzione meridionale, probabilmente di un laboratorio reale siciliano (Guastella, 1995b). Va segnalato in proposito che un decoro tipologicamente affine a quello della granulazione compare nella base del reliquiario del Santo Sangue del Tesoro del Duomo di Monreale, opera verosimilmente siciliana della fine del sec. 13° (Guastella, 1995c). Nel corso di recenti lavori di risistemazione della raccolta è stato ritrovato e individuato il reliquiario del capello della Madonna, pressoché identico al precedente, con il quale costituisce una coppia.
Dagli smalti del paliotto si differenziano quelli traslucidi di realizzazione messinese, della fine del sec. 13°, inseriti nella mitra del sec. 16° del tesoro della chiesa di S. Salvatore ad Agira (prov. Enna), proveniente dall’abbazia di S. Maria Latina, appartenuta all’abate Rainero. Questa risulta ornata da ventiquattro placche circolari, smaltate con figure a mezzo busto, quattro circolari con i simboli degli evangelisti, otto mistilinee con immagini di animali mostruosi e altre. La cultura bizantina trova espressione in questi smalti traslucidi verosimilmente a Messina, segno dell’abilità nella produzione degli smalti, sia pure nel variare delle tecniche, nei laboratori reali dell’isola. Pure a botteghe messinesi della fine del sec. 13° è da riferire il pastorale dello stesso tesoro di Agira, anch’esso appartenuto a Rainero, già abate dell’abbazia di S. Maria Latina a Messina, il cui riccio d’argento dorato è caratterizzato da smalti opachi ove è raffigurata la Madonna con il Bambino in trono dal faldistorio culminante con teste leonine da cui fuoriescono tralci floreali (Guastella, 1995b).
Manfredi I Chiaramonte nel 1311 donò alla cattedrale di Palermo il crocifisso ligneo proveniente dalla chiesa di S. Nicolò la Calsa (distrutta nel 1823). Il crocifisso, dei primi anni del sec. 14°, si inserisce nella corrente del Gotico doloroso di ispirazione nordica, renana, ma di verosimile realizzazione italiana, e sembra dovuto a un frate domenicano o francescano che potrebbe avere soggiornato in un convento a Colonia e aver visto il crocifisso di St. Maria im Kapitol (Kaley, 1993). A questo drammatico Cristo parrebbe ispirarsi quello della chiesa di S. Domenico a Trapani, riconducibile alla tipologia dei crocifissi gotico-dolorosi, che divennero in S. oggetto di grande venerazione e fonte di ispirazione (Di Natale, 1992, p. 53).
Nella locale tradizione bizantina si inserisce il Maestro di Mileto, l’autore dei sepolcri Sanseverino (Mileto, Mus. Diocesano di arte sacra), al quale Negri Arnoldi (1987) riferisce anche un gruppo di sculture conservate a Catania (Mus. Civ. Castello Ursino).
I traffici commerciali con le repubbliche marinare e in particolare con Pisa facevano sì che giungessero a Palermo e in S. opere d’arte diverse, che divenivano modelli e fonte di ispirazione per gli artisti locali (Di Natale, 1983). Tra queste è da annoverare il reliquiario con smalti, trasformato in ostensorio nel sec. 17°, di Pino di San Martino da Pisa del tesoro della chiesa Madre di Geraci Siculo (prov. Palermo), commissionato da Francesco I Ventimiglia, conte di Geraci (m. nel 1338).
A Goro di Gregorio si deve il monumento funebre, conservato nella cattedrale di Messina, del vescovo Guidotto de Tabiatis, del 1333, il cui gruppo scultoreo della Madonna con il Bambino, la c.d. Madonna degli Storpi, passato dal duomo al Mus. Regionale (Zeri, Campagna Cicala, 1992, p. 56), fu degno modello di ispirazione per gli scultori locali.
Nel Tesoro del Duomo di Messina è un calice di importazione peninsulare, da datare dopo il 1356, anno in cui la città si sottomise agli Angioini, che reca la seguente iscrizione: «Iohannes siri Iacobi de Florentia me fecit in Neapoli». Quest’orafo era infatti attivo a Napoli alla corte della regina Giovanna I d’Angiò (1343-1382). Anche questo calice con smalti si pone a modello di altri di artefici messinesi del primo Quattrocento. Nel duomo di Sciacca si conserva un calice d’argento dorato del sec. 14° di maestro messinese che si ispira ai prototipi senesi. Alla stessa tipologia si ispira il calice in argento dorato e smalti della chiesa matrice di Petralia Soprana (prov. Palermo; Di Natale, 1989). Nel tesoro della chiesa di S. Maria a Randazzo (prov. Catania) è un calice d’oro della metà del sec. 14°, ispirato a quello senese che Guccio di Mannaia eseguì per Nicolò IV (1288-1292; Assisi, Tesoro Mus. della Basilica di S. Francesco). È peraltro documentata proprio a Randazzo la presenza del maestro Giovanni di Salliceto, l’orafo prediletto di Federico III d’Aragona (1355-1377), «aurifex messanensis fidelis noster», che aveva lavorato per il sovrano a Polizzi nel 1360. A questo artista Accascina (1974) attribuisce la croce processionale d’argento dorato del tesoro della chiesa di S. Martino a Randazzo, decorata ‘a scaglia o foglia di pigna’, che nel capocroce del verso presenta in alto la rara proposta iconografica di Adamo che risorge. Un precedente in S. della figura di Adamo, variante sostitutiva del teschio posto entro la caverna del Golgota, presenta anche la croce astile in rame della chiesa madre di Rometta (prov. Messina), da datare all’ultimo decennio del sec. 12°, opera dovuta a bottega operante a latere del monastero basiliano dei Ss. Pietro e Paolo d’Agrò presso Messina (Campagna Cicala, 1994). Tra le croci astili del sec. 14° è da menzionare anche quella d’argento nei depositi della Gall. Regionale della Sicilia a Palermo (Di Natale, 1992, pp. 13-19).
Da Pisa dovette giungere a Trapani la statua marmorea della Madonna con il Bambino della chiesa dell’Annunziata, negli anni 1340-1368, periodo dell’attività di Nino Pisano (m. nel 1368), cui viene attribuita da Cosentino (in Monaco, 1950, pp. 37-55). Altri termini per la datazione sono il 1332, anno della costruzione della trecentesca chiesa dell’Annunziata, e il 1363, anno in cui Federico III d’Aragona concesse alla chiesa un privilegio. Alla famosa bottega dei Pisano si rivolgevano dunque i Carmelitani per il loro simulacro, che divenne nei secoli meta di pellegrinaggi di re, principi, nobili e alti prelati e oggetto di grande devozione per l’intera cittadinanza (Di Natale, 1995e).
Reliquiario antropomorfo, dalla forma di testa, è quello databile alla metà del Trecento di s. Gerlando, della chiesa di S. Giacomo a Caltagirone (prov. Catania). Accascina (1974, p. 126) ritiene che l’opera possa essere stata ordinata nel 1353 dal vescovo di Siracusa Pietro Moncada, catalano, che si era occupato della beatificazione di s. Gerlando, ad artista catanese che si ispirò verosimilmente a modelli catalani indicati dal committente.
Nel 1376 venne inviato a Catania (cattedrale, tesoro di S. Agata) il reliquiario a busto di s. Agata, opera di Giovanni di Bartolo, orafo senese attivo alla corte papale avignonese, realizzato per volontà di Federico III d’Aragona, che lo commissionò tramite il vescovo limosino Marziale, recatosi ad Avignone per informare il papa Gregorio XI (1370-1378) dell’incoronazione. Morto Marziale, l’incarico venne confermato dal vescovo Elia. Un’iscrizione ricorda i nomi dei due vescovi, quello dell’autore e la data di realizzazione del reliquiario. L’opera è l’unica superstite di Giovanni di Bartolo, essendo andati perduti i reliquiari dei ss. Pietro e Paolo della basilica di S. Giovanni in Laterano a Roma. Dal sec. 14° a tutt’oggi il venerato simulacro di s. Agata ha ricevuto in dono numerosi gioielli ex voto, tanto da costituire una delle più importanti raccolte di oreficeria siciliana (Di Natale, 1996).
Del 1386 è la croce processionale d’argento oggi mutila, già nel duomo di Salemi (prov. Trapani) e oggi esposta nel Mus. Diocesano di Mazara del Vallo, che reca l’iscrizione relativa anche all’autore, «magistro Iohannes de Cioni aurifex» (Di Natale, 1993, pp. 19-21). Questi, attivo a Cagliari, doveva far parte della nota famiglia di argentieri toscani, tra cui emerge Andrea di Cione.
Ai capitelli di età normanna del chiostro del duomo di Monreale sono ispirati quelli del chiostro del convento di Baida presso Palermo, che dovevano già essere iniziati quando la chiesa venne inaugurata nel 1388 (Guttilla, 1985). Taluni accostamenti formali sono pure fattibili con i due chiostri palermitani del primo Trecento, quello di S. Giovanni degli Eremiti e quello di S. Domenico, dai capitelli di tipo corinzio e di carattere fitomorfo. I capitelli del chiostro di Baida sono verosimilmente riferibili a lapicidi locali, sia pure svincolati dal gusto ‘chiaramontano’ imperante a Palermo nel tardo Trecento (Guttilla, 1985).
Tra le sculture del periodo si ricordano infine quelle del Mus. Regionale Pepoli di Trapani: la formella tufacea con stemma araldico e motivi decorativi datata 1398, l’architrave pure in tufo con iscrizione in caratteri gotici del 1378 (1388), fatta realizzare dai mercanti di panni trapanesi mentre era console Bellomo de Villano, e l’archivolto di portale trecentesco dal motivo decorativo a denti di sega, proveniente da casa Gatti a Trapani (Abbate, 1991, p. 20).
Bibl.:
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