siciliani, calabresi e salentini, dialetti
La Sicilia, buona parte della Calabria e il Salento (la parte meridionale estrema della Puglia) formano l’area linguistica definita meridionale estrema. Tale territorio trova proprio nella sua posizione, al centro del Mediterraneo, e nel particolare rapporto fra le coste (dallo sviluppo molto esteso) e l’entroterra uno dei suoi elementi comuni e unificanti. Un altro è rappresentato dalla precoce e duratura presenza dell’elemento greco, dall’antichità a tutto il medioevo (e, in certi casi, fino ai nostri giorni; ➔ greca, comunità), dovuta in primo luogo alla vicinanza e a quella rilevanza strategica che solo in tempi piuttosto recenti si è man mano trasformata nel suo opposto, ossia nella distanza e marginalità rispetto alle aree economicamente forti e ai centri decisionali d’Italia e d’Europa, facendo divenire tutta l’area una sorta di lungo corridoio senza sbocco.
Accanto a quello greco, numerosi sono stati anche altri apporti linguistico-culturali: dal latino all’arabo, dal provenzale allo spagnolo, senza dimenticare la diffusa e ancora visibile presenza albanese in Calabria e Sicilia (➔ albanese, comunità), la presenza italiana settentrionale (gallo-italica) in Sicilia e le tracce lasciate dal giudaismo, nel Salento e altrove (➔ giudeo-italiano). Scarsi, invece i residui della componente germanica medievale, un po’ più visibili nell’alta Calabria, al confine con l’area meridionale.
La prova degli stretti rapporti fra le parti dell’area è data anche dalla toponomastica (➔ toponimi). Nell’antichità, infatti, era il Salento a portare il nome di Calabria, che, nel corso dei secoli, si estese alla vicina Lucania. Uno degli elementi che contribuirono poi a determinarne il graduale spostamento verso sud, fino a far uscire dall’uso, nel VII secolo, il nome prelatino e latino di Brutium (che designava, appunto, la penisola calabrese), fu certamente il progressivo ritrarsi dell’influenza bizantina, che finì per creare quell’articolazione fra Calabria settentrionale (latina e longobarda) e meridionale (greca e bizantina) ben visibile ancora oggi proprio sul piano delle tradizioni dialettali (cfr. Rohlfs 1972), e simile alla parallela bipartizione linguistica fra Puglia e Salento (cfr. Mancarella 1975; Stehl 1988).
Le città hanno sempre svolto, in questo particolarissimo contesto, un ruolo essenziale. Durante i circa due secoli e mezzo del periodo arabo (dall’831 al 1072), Palermo strappò definitivamente a Siracusa (rimasta a lungo grecofona) il ruolo di metropoli regionale (alterne furono invece le fortune di Agrigento); i cronisti dell’epoca la descrivono, ammirati, come una città sontuosa, paragonabile, per ricchezza, al Cairo o a Córdoba. Questo primato, però, soprattutto dopo il trasferimento della capitale a Napoli (XIII sec.), non impedì lo svilupparsi di altri poli urbani, tra cui, innanzitutto, Catania e, dopo il terremoto del 1693, di altri centri siciliani orientali di media grandezza che proprio allora furono dotati, come la città etnea, di un notevole impianto architettonico barocco (Noto, Ragusa, Modica). Palermo, Catania e Messina, inoltre, hanno comunicato e «comunicano tra loro scavalcando tutta la Sicilia» (Vàrvaro 1984: 278), il che non è stato certo senza conseguenze per le vicende linguistiche e culturali dell’isola: ad es., una variante che conquisti le tre città si guadagna «per ciò stesso la qualifica di siciliano comune» (ibid.) e tende, quindi, a imporsi anche altrove.
Degno di nota, poi, il fatto che nelle zone interne l’insediamento sparso sia piuttosto raro, mostrandosi invece netta la prevalenza di medi e grossi nuclei accentrati (con ampi spazi vuoti fra l’uno e l’altro), parecchi dei quali di recente fondazione (come Casteltermini, nell’Agrigentino) o rifondazione (come Grammichele, nel Catanese), altri di tradizione antica e medievale (ad es. Troìna, nell’Ennese). I contatti città-campagna e la stessa variabilità linguistica geografica (➔ variazione diatopica) vi assumono quindi aspetti peculiari, e sconosciuti altrove.
Sul continente, Lecce ha conteso a lungo, e con successo, alle altre città pugliesi (Bari inclusa) il ruolo di maggior centro culturale e intellettuale, senza però ostacolare lo sviluppo di cittadine minori (tra cui Otranto, Maglie, Gallipoli e, più a nord, Oria e Francavilla Fontana). Il già menzionato dualismo calabrese, visibile anche a livello geografico (l’istmo di Catanzaro), ha invece portato all’imporsi di un centro dominante tanto a sud (Catanzaro stessa) quanto a nord (Cosenza, che era già fra le più antiche città del Mezzogiorno); una suddivisione che solo nel periodo aragonese si sarebbe articolata, tramite l’istituzione di una Calabria ulteriore I, con capoluogo Reggio, e una Calabria ulteriore II, con capoluogo Catanzaro. Non va trascurato il ruolo svolto, a livello locale, da cittadine come Rossano, Paola, Crotone, Vibo Valentia (già Monteleone di Calabria) e Nicastro, Sambiase e Sant’Eufemia Lamezia (unitesi nel 1968 a formare Lamezia Terme).
I dialetti meridionali estremi si differenziano, nel loro complesso, da quelli dell’area meridionale (➔ meridionali, dialetti) per una serie notevole di caratteristiche, fra cui si possono ricordare alcuni tratti ben determinati.
(a) Un sistema vocalico tonico di soli cinque elementi, nel quale mancano le vocali chiuse /e/ ed /o/, e diversi suoni vocalici latini originariamente distinti si sono fusi tra loro: [ˈfilu] «filo» < fīlu(m), come [ˈnivi] «neve» < nĭve(m) e come [ˈtila] «tela» < tēla(m), ma [ˈbːɛɖːa] «bella» < bĕlla(m); [ˈluna] «luna» < lūna(m), come [ˈkruʧi] «croce» < crŭce(m) e [ˈsuli] «sole» < sōle(m), ma [ˈmɔrta] «morta» < mŏrtua(m). Secondo ricostruzioni ormai accettate dalla maggior parte degli studiosi, un simile sistema sarebbe il frutto del prolungato contatto, in epoca altomedievale, tra varietà romanze e greco bizantino, una lingua che fu, per secoli, di prestigio e di largo uso in tutta la nostra area, e che presentava, fra l’altro, proprio un notevole conguaglio di vari suoni vocalici sulle vocali estreme (cfr. Fanciullo 1984). Fanno eccezione solo il Salento più settentrionale, che ha un sistema di transizione con quello napoletano, e l’alta Calabria, ormai nell’area dei dialetti meridionali, in cui il sistema più diffuso è di tipo sardo (➔ sardi, dialetti).
(b) La presenza di vocali finali ben percepibili, che sono, nella maggior parte dei dialetti, tre ([-i, -u, -a]): in Sicilia, nella Calabria meridionale e in parte di quella centrale (inclusa Cosenza), nonché nell’alto Salento (con Brindisi) si dice, per es., [ˈkɔri] «cuore», [ˈsatːʃu] «so», [ˈfimːina] «donna»; in vari punti della Calabria centro-settentrionale e nel restante Salento, però, possono essercene quattro, per via della conservazione di [-e] (a Lecce, ad es., si dice [ˈpane], [ˈpɛte] «piede», [ˈsurde] «sorde» – che si oppone a [ˈsurdi] «sordi» –, [kriˈtare] «gridare»).
(c) La pronuncia cacuminale o retroflessa (cioè con la lingua puntata sul retro degli incisivi; ➔ dentali) di [-dd-] derivante da -ll-, come in [ˈbːɛɖːu] «bello», [kaˈvaɖːi] «cavalli». Notevole è però l’ulteriore diversificazione degli esiti osservabili nella Calabria centro-meridionale, dove si ritrovano, fra le altre, le varianti [-ɖ-], [-ʎʎ-] e [-jj-], e anche [-ll-] conservato. La pronuncia cacuminale, molto antica secondo alcuni, è nota anche alle varietà sarde e a una parte di quelle corse (➔ corsi, dialetti) e lunigianesi (➔ toscani, dialetti), e, in pressoché tutto l’estremo Mezzogiorno, si estende alla vibrante e a nessi consonantici come [-tr-] e [-str-] ([ˈpaʈɽi] «padre», [ˈʃʈɽanu] «strano»).
(d) Il mantenimento delle consonanti occlusive sorde dopo una nasale, assente nel resto del Sud e anche nell’Italia mediana ([ˈsantu], [anˈkɔra], e non [ˈsandə], [anˈgɔrə]) (➔ sonorizzazione).
(e) L’assenza degli infiniti tronchi, assai diffusi, invece, nell’alto Mezzogiorno e fino alla Toscana ([kanˈtari, kanˈtare] «cantare» e non [kanˈda], [ˈd:iʧiri, ˈti:ʧere] e non [ˈdiʧə] «dire», ecc.).
(f) L’uso del ➔ passato remoto in luogo di quello prossimo, ancora più frequente di quanto non si osservi nell’alto Mezzogiorno (nella Calabria meridionale [kapiˈʃːisti?] «capisti, hai capito?», in Sicilia [ˈkɔmu duˈmːisti?] «come dormisti, come hai dormito?»).
I dialetti di Sicilia non sono facilmente classificabili, dato che molti fenomeni vi si presentano con una distribuzione a macchie di leopardo, conseguenza, fra l’altro, delle particolari vicende demografiche dell’isola. Una delle poche distinzioni chiare è rappresentata dalla diffusione del dittongamento metafonetico di /-ɛ-/ ed /-ɔ-/ (➔ metafonia), per influsso dei suoni originari latini -i ed -u in fine di parola: questo, assente nella maggior parte delle parlate occidentali, dal Trapanese all’Agrigentino occidentale ([ˈvɛntu] «vento», [ˈpɛri] «piedi»), nonché nel Messinese e in parte del Catanese, è invece ben noto a molte di quelle centrali (Enna, Caltanissetta) e nella cuspide sud-orientale ([ˈvjentu], [ˈpjeri]). Palermo, con una vasta area costiera circostante presenta invece dittonghi incondizionati, come in [ˈkwɔsa] «cosa» e [ˈfjɛsta] «festa» (cfr. Ruffino 1984: 162 segg.). I dittonghi metafonetici sono pure assenti in tutta la Calabria meridionale e nel basso Salento mentre Lecce e Brindisi conoscono l’esito dittongante in [-wɛ-] da [-ɔ-] originario ([ˈbːwɛnu], [ˈbːwɛni] «buono, -i», ma [ˈbːɔna] «buona»).
Tra i pochi fatti tipici delle parlate della Sicilia nord-orientale ci sono la pronuncia rafforzata di [b-] iniziale ([ˈbːuka] anziché [ˈvukːa] «bocca»), la conservazione dei nessi -nd- e -mb- ([ˈkwandu] «quando», [paˈlumba] «colomba», invece di [ˈkwanːu], [paˈlumːa]) e grecismi lessicali come [armaˈʧia] «muro a secco» < gr. ermakìa, [ˈkɔna] «edicola sacra» < gr. èikon, [ˈgrasta] «vaso» < gr. gàstra e [salaˈmira] «geco» < gr. samamìthion.
I dialetti del centro dell’isola, ritenuti in genere più conservativi (ma non sempre ciò è vero), appaiono soprattutto caratterizzati dal passaggio di /-l-/ a /-n-/ prima di consonante dentale o palatale ([ˈantu] «alto», [ˈfanʧi] «falce»), da quello di /nf-/ a /mp-/ ([mpiˈlari] «infilare», [mpurˈnari] «infornare») e da verbi come [riˈiri] «sollevare» < erigĕre, [sdruviˈʎːarisi] «svegliarsi», [tiɖːiˈkari] «solleticare».
La Sicilia occidentale, infine, si distingue dalle altre zone dell’isola per la presenza di numerosi ➔ arabismi, come [ˈkaɖːu] «secchio» < ar. qādūs, [kasiˈria] «vaso da fiori» < ar. qasrīya, e grecismi come [ˈmira] «cippo confinale» < gr. mòira. Altri termini di origine araba, di più ampia estensione (spesso sono presenti anche in Calabria) e riguardanti soprattutto l’agricoltura, sono [ˈbːurʤu] «cumulo di paglia» < ar. burǧ, [ʧiˈrana, ʤuˈranːa] «raganella, rana» < ar. ǧarān, [ˈʤɛbːja] «grande vasca» < ar. ǧābiyah, [ˈsaja] «canale artificiale» < ar. sāqija, [dːzagaˈrɛɖːa] «nastro» < ar. ẓahar (cfr. Ruffino 1984).
Dal punto di vista lessicale, i dialetti siciliani, oltre a mostrare interessanti francesismi ([kustuˈrɛri] «sarto» < fr. ant. costurier, [raˈʧina] «uva» < fr. raisin) e ispanismi ([kriˈata] «serva, domestica» < spagn. criada, ormai desueto; a Palermo [karniˈtːsɛri] «macellaio» < spagn. carnicero), appaiono dotati, nel loro complesso, di un certo grado di innovatività rispetto alla maggior parte del Mezzogiorno (compresi il Salento e la Calabria settentrionale). Ne sono una prova, fra le altre, le voci siciliane (e calabresi meridionali) [aˈguɟːa] «ago», [kaˈaɲːa] «cesto, paniere», [duˈmani] «domani», [ˈɔrbu] (e sim.) «cieco», [ˈtɛsta] «testa», [ˈtuma] «formaggio», [mariˈtari] «sposarsi, prender moglie», [skaˈnːari] «uccidere», ecc., che, oltre a individuare inattese e precise concordanze con il Nord Italia, si oppongono chiaramente ai corrispondenti [ˈaku], [paˈnaru], [ˈkraj], [ʧeˈkatu], [ˈkapu], [ˈkasu], [nʣuˈra], [aˈtːʃidere], tipici della Calabria settentrionale e dell’alto Mezzogiorno, e sicuramente più arcaici.
Il siciliano si configurerebbe quindi, stando all’opinione di Rohlfs, come «il dialetto meno meridionale del Mezzogiorno». Riassumendo un annoso dibattito, si può dire che i Normanni, per ripopolare e ricristianizzare le terre rimaste spopolate dopo la cacciata degli Arabi, favorirono l’immigrazione, tramite alcuni feudatari a essi imparentati, di coloni provenienti soprattutto dal Monferrato (che a quel tempo si considerava parte della Lombardia, più ampia della regione attuale), concedendo loro privilegi e assegnando terre situate non di rado nelle zone più elevate, verdi e salubri dell’isola (le più simili a quelle d’origine). In seguito a questa poco nota migrazione da nord a sud, si formarono sull’isola numerose nuove comunità, diverse dalle altre per lingua e cultura, e definite oggi, nel loro insieme, la Lombardia siciliana (➔ gallo-italica, comunità). Ma un fatto altrettanto notevole è che esse sono il resto di una presenza un tempo – come dimostrano le ricerche storiche e linguistiche – molto più diffusa: e ciò spiega come mai il lessico siciliano sia stato profondamente permeato da voci di origine settentrionale, gallo-italica; l’apporto gallo-italico in Sicilia è stato anzi forse «ancor più cospicuo e multiforme di quanto lo stesso Rohlfs abbia indicato» (Ruffino 1984: 182).
Uno dei maggiori motivi di interesse della posizione linguistica della Calabria sta invece nel fatto che essa appare solcata da una serie di confini linguistici (➔ confine linguistico), che distinguono i dialetti meridionali dal siciliano. Ricordiamo, da nord a sud:
(a) il limite del vocalismo ‘siciliano’, che compare a sud di una linea (➔ isoglossa) che va all’incirca da Diamante, sul Tirreno, a Cassano, sullo Jonio;
(b) la presenza della vocale finale neutra indistinta /-ə/ (➔ scevà), che in genere non va oltre la linea Cetraro-Bisignano-Melissa;
(c) le assimilazioni dei nessi consonantici -nd- e -mb- ([ˈkwanːu] «quando», [ˈkjumːu] «piombo»), sconosciute a sud della linea Amantea-Crotone;
(d) l’uso di tenere per «avere», non con il valore di ausiliare: [ˈtɛne e ˈspal:e ˈlarge] «ha le spalle larghe», diffuso dal Lazio in giù, è ignoto già a Nicastro e a Catanzaro (dove si dice [ˈndavi i ˈspad:i ˈlargi] e simili);
(e) il ➔ passato remoto come tempo perfettivo (➔ aspetto) quasi unico, ormai evidente a sud di Nicastro e Catanzaro;
(f) lo scarso impiego dell’➔infinito in diversi tipi di frasi (cfr. oltre), che comincia a sud della stessa linea;
(g) i dittonghi metafonetici di /ɛ/ ed /ɔ/ (➔ dittongo; ➔ metafonia), ignoti a sud della linea Vibo Valentia-Stilo ([ˈfɛrːu] ~ [ˈfjerːu], [ˈbːɔnu] ~ [ˈbːwonu]);
(h) l’uso del possessivo enclitico (➔ parole enclitiche), nelle prime due persone, con molti nomi di parentela e affinità ([ˈfiɟːuma] «mio figlio», [ˈfratita] «tuo fratello»), che raggiunge la piana di Rosarno e la Locride, ma non le coste dello stretto di Messina (dove si dice, alla siciliana, [mɛ ˈfiɟːu], [tɔ ˈfrati]).
Uno dei dibattiti più vivaci della prima metà del Novecento ha riguardato la persistenza e i caratteri della grecità in Calabria. Secondo Rohlfs, la grecità antica, profondamente radicata, non sarebbe mai scomparsa del tutto, nemmeno durante i secoli della dominazione romana, e avrebbe poi costituito un fertile terreno per il greco bizantino di epoca medievale. Ancora nel XIV secolo risulta che l’area grecofona – oggi ormai prossima all’estinzione nei paesini aspromontani che ancora la testimoniano – includeva quasi tutta la Calabria meridionale. Una tale compatta distribuzione mal si accorda con l’ipotesi di un’importazione del greco esclusivamente in epoca bizantina.
A ogni modo, il fondo linguistico ellenico nella Calabria meridionale è oggi riconoscibile sia nella toponomastica e nella microtoponomastica che in molte parole legate alla campagna (piante, animali, insetti), per es.: [aˈgrɔmulu] «melo selvatico» < gr. agriòmelon, [lambuˈrida] «lucciola» < gr. lampurìda (calabr. settentr. [kanːiˈluʧida] e sim.), [riˈniska] «pecora giovane» < gr. arnìska (calabr. settentr. [pekuˈrɛlːa/), [ˈmɛlːisːa] «vespa» < gr. dèllitha (calabr. settentr. [ˈvɛspa]) (cfr. Rohlfs 1972). La disputa sulla persistenza del greco ha coinvolto anche i dialetti del Salento, che, come quelli della Calabria meridionale e della provincia di Messina, mostrano un fondo lessicale e tratti sintattici di ascendenza ellenica; al centro della penisola salentina, inoltre, esiste ancora oggi la cosiddetta Grecìa (➔ greca, comunità).
Fra i costrutti più sicuramente imputabili all’influsso e al diretto contatto con il greco va menzionata la scarsa popolarità dell’infinito, che, dopo verbi esprimenti volontà, intenzione, movimento, viene sostituito da /ku/ (< quod) nel Salento (Simone 2002), o /mu/, /mi/, /ma/ (< modo) in Calabria e nel Messinese, più il verbo al presente indicativo, coniugato in accordo con il soggetto della reggente (/ku/ e /mu/, insomma, hanno le stesse funzioni che ha in greco nà): nel Salento [uˈlia ku ˈsːatːʃu] «volevo sapere» [lett. «volevo che so»], in Calabria [ˈvɔɟːu mu ˈbːiu] «voglio bere» (gr. thèlo nà pìo), [ˈjiru mi ˈjɔkanu] «sono andati a giocare».
Nel Salento, poi (ma anche in alcuni punti limitrofi della Puglia centrale, e nell’estremità meridionale della Calabria), il ➔ periodo ipotetico dell’irrealtà, riferito al presente, è espresso con l’imperfetto indicativo ripetuto (lett. «se potevo, facevo», costrutto che l’italiano colloquiale riserva al periodo ipotetico dell’irrealtà riferito al passato, «se avessi potuto, avrei fatto»): [viˈvia ʧi nʧˈɛra ˈakwa] «berrei, se ci fosse l’acqua».
Voci salentine del lessico quotidiano, di carattere conservativo, sono [ˈkraj] «domani» ([ˈkrajə] o [ˈkrejə] in Puglia) < cras, [ˈfitu] «trottola», [ˈsɔkru] «suocero», [ˈspɛkːja] «mucchio di sassi», [ˈtrudːu] «trullo, casa rurale con copertura in pietra a falsa cupola», [natːsiˈkare] «cullare».
Secondo le indagini dell’ISTAT relative agli usi linguistici fra il 2000 e il 2006, l’estremo Mezzogiorno è ancora largamente dialettofono, con percentuali ben superiori alla media nazionale. Considerando solo Calabria e Sicilia (i dati del Salento, infatti, non sono scorporabili da quelli della restante Puglia), in Calabria ben il 31,3 % dei parlanti dichiarava nel 2006 di usare in famiglia solo o quasi solo il dialetto, una percentuale non soltanto quasi doppia rispetto a quella generale italiana (16%), ma superiore anche a quella della Sicilia (25,5%) e di altre regioni meridionali (Puglia 17,3%, Campania 24,1%, Basilicata 29,8%), nonché assai più alta di quella di coloro che, nello stesso ambito familiare, si dichiaravano italofoni più o meno assoluti (il 20,4% in Calabria, il 26,2% in Sicilia, addirittura il 33% in Puglia). Analogo è il quadro offerto dagli usi linguistici con gli amici: in questo caso, la percentuale calabrese di dialettofonia più o meno esclusiva scende al 22,9% (identica a quella lucana, 23%), ma resta maggiore di quella siciliana (19,1%) e nazionale (13,2%).
Il limitarsi ai dati più recenti rischia però di mettere in ombra un altro dato importante, e cioè che, negli ultimi anni, la dialettofonia avrebbe subito anche qui un calo vistoso, e anzi maggiore che altrove: nel 2000, infatti, coloro che dicevano di parlare solo o quasi solo il dialetto in famiglia erano il 40,4% in Calabria (il 9,1% in più rispetto al 2006), e il 32,8% in Sicilia (il 7,3% in più); in soli sei anni, dunque, la diminuzione nell’uso del dialetto sarebbe stata largamente superiore alla media nazionale (passata dal 19,1% al 16%). Anche nel comportamento con amici il regresso del dialetto è notevole: dal 30,8% al 22,9% in Calabria, dal 26,6% al 19,1% in Sicilia, di fronte a un calo nazionale limitato a soli tre punti (dal 16 al 13,2%). La Sicilia, anzi (comunemente considerata un baluardo dell’uso del dialetto), vede ormai la percentuale degli italofoni più alta rispetto a quella dei dialettofoni esclusivi in ogni contesto d’uso.
Sembra plausibile interpretare queste cifre come la conseguenza di un atteggiamento antidialettale ancora piuttosto diffuso (motivato proprio da una dialettofonia tuttora rilevante) e in ogni caso più comune rispetto al resto del Paese e anche del Mezzogiorno, dove la scelta in favore della varietà locale non sembra più così alternativa rispetto all’italiano né troppo rigidamente connotata in senso sociale. Il dialetto, insomma, continuerebbe a essere, in questo estremo lembo d’Italia, vittima di forti pregiudizi linguistici, frequenti anche tra i più giovani (cfr. Ruffino 2006).
Va notato che le cifre relative all’uso «sia di italiano che di dialetto» sono salite tanto in famiglia (Calabria: dal 39,4% al 43,1%; Sicilia: dal 42,5% al 46,2%), che con amici (Calabria: dal 44,4% al 46,1%; Sicilia: dal 44,2% al 48,7%), mostrando una tendenza in linea col resto del Mezzogiorno e con altre regioni italiane. Inoltre, l’aumento è paragonabile, se non maggiore, a quello registrato per l’italofonia esclusiva. Anche dove il dialetto sembra godere di minor prestigio, quindi, «al decremento della dialettofonia non corrisponde […] un incremento dell’italofonia altrettanto marcato», perché c’è stato un contemporaneo, speculare aumento non dell’italofonia pura e semplice, ma soprattutto «dei casi di uso alternato […] e di parlato mistilingue italiano/dialetto» (Grassi, Sobrero & Telmon 2003: 30).
L’➔italiano regionale dell’estremo Mezzogiorno (➔ Palermo, italiano di), anche quello delle persone colte, lascia spesso trasparire alcuni tratti fonetici e grammaticali tipici dei dialetti:
(a) l’assenza delle vocali chiuse /e/ ed /o/, sostituite con /ɛ/ ed /ɔ/ ([ˈbːɛre] «bere», [ˈsɔno] «sono»);
(b) la pronuncia regolarmente intensa di /b/, /d/, /g/ e /ʤ/, in posizione iniziale e intervocalica ([ˈbːib:ita], [ˈdːata], [ˈgːɔla], [ˈdːʒɛnte]);
(c) la presenza di suoni cacuminali o retroflessi, come la vibrante [ɽ] ([la ˈɽːadjo]), sempre intensa, e che, in combinazione con [t], diventa quasi [ʧ] ([il ˈʈɽɛno] «il treno»);
(d) la preferenza per il passato remoto (te lo dissi ieri mattina), a cui può corrispondere, per reazione, il ricorso ‘indebito’ al passato prossimo (l’ho visto tanto tempo fa);
(e) il congiuntivo imperfetto usato come esortativo (mi spicciasse «si decida a servirmi»);
(f) la frequente collocazione del verbo alla fine della frase (Francèsco sòno, il prèside parla).
Tipica è anche, come a Napoli e in Puglia, la mancata apocope di [-e] negli ➔ appellativi professore e dottore se seguiti dal cognome (sono il professore Rossi).
In Sicilia e nella Calabria meridionale, ma in certi casi anche altrove, si notano poi, con varia frequenza: l’assordimento di [-nʤ-] in [-nʧ-] ([ˈanʧelo] «angelo»); l’uso del suffisso -ina, con funzione non diminutivale (ammazzatina «omicidio», sarcitina «rammendo»); quanto con valore finale o consecutivo (dammi i soldi quanto mi compro il giornale); il valore anche transitivo di alcuni verbi, come entrare, uscire, scendere (entravo la macchina nel garage, esca il documento «tiri fuori il documento»; cfr. Trovato 2002: 877-878).
Nel lessico, l’area presenta al suo interno casi notevoli di concordanza, che non di rado si estendono al resto del Mezzogiorno, come si può vedere nei tipi catenaccio «lucchetto», giardino «agrumeto», lacerto «girello [taglio di carne]», mappina «cencio, strofinaccio», melone, mellone «anguria», tuppo «crocchia», villa «giardino pubblico», cadere malato «ammalarsi», fare filone «marinare la scuola» (in Sicilia sono attestati anche i tipi fare Sicilia, buttarsela, caliarsela), immischiare «contagiare una malattia», scotolare «scuotere la tovaglia» e altri (cfr. Mammana 1997: 139-153). Al livello di ➔ regionalismi semantici il siciliano traffico assume il significato di «operazioni complicate e fastidiose» (per prenotarmi dovevo fare tanto di quel traffico …), mentre, fra i regionalismi «non imputabili, sia direttamente che indirettamente, alla presenza del dialetto» (Tropea 1976: 131) si segnalano inguardabile per «assai brutto» e semicantinato per «seminterrato». Per quanto riguarda, infine, i modi di dire, spiccano in Sicilia avere il carbone bagnato «avere la coda di paglia», e parlare quanto un giudice povero «parlare troppo» (cfr. Trovato 2002: 879).
Più facili da rappresentare per iscritto, quasi a dispetto delle apparenze, rispetto ai dialetti meridionali, soprattutto per ragioni fonetiche (ad es., per la mancanza di suoni vocalici neutri), le varietà meridionali estreme hanno visto anche stabilizzarsi abbastanza precocemente una tradizione scrittoria, in qualche caso giunta fino ai nostri giorni, o quasi (cfr. anche § 6). Le difficoltà maggiori, oggi come ieri, sono date dalla resa grafica delle consonanti cacuminali o retroflesse, in particolare [ɖ], [ɽ] e [ʈ]. Per quanto riguarda la prima, ad es., è diffusa la semplice grafia dd, ma sono pure presenti, a livello amatoriale, le varianti ddh, come in cavateddhi «tipo di gnocchi incavati con il dito; cavatelli», in Calabria e nel Salento, cuddhureddi «dolcetti rotondi di farina zuccherata», nella bassa Calabria, o -ddr- (quest’ultima diffusa soprattutto in Sicilia e nel Salento, dove può corrispondere all’incirca alla pronuncia reale: ad es., a Corsano (Lecce) c’è il detto puru all’infernu, è meju cu vai a cavaddru ca all’ampede «anche all’inferno è meglio andare a cavallo che a piedi»).
In Sicilia, il dialetto scritto e letterario appare sostanzialmente omogeneo, senza cioè che vi trovino puntuale riscontro le tante differenziazioni areali (ad es. i dittonghi metafonetici o incondizionati), differentemente da quanto avviene in Calabria e nel Salento – dove è invece più facile riconoscere le particolarità delle zone di provenienza dei singoli autori. Questo è certamente collegato
ai generi letterari per i quali il dialetto si è, come dire, specializzato: il fatto che il siciliano abbia un uso soprattutto lirico non è certo senza rapporto con la sua omogeneità. Ciò significa anche che il controllo, il potere di orientamento, del siciliano sui dialetti parlati, fuori delle grandi città, deve essere stato tutto sommato limitato, anche se i testi a stampa hanno dato l’impressione contraria (Vàrvaro 1984: 280).
Dopo l’eccezionale ma breve periodo rappresentato dalla Scuola fridericiana, nota come ➔ Scuola poetica siciliana (sec. XIII), che di fatto non ha avuto eredi né sull’isola, né nella restante Italia meridionale, la letteratura in siciliano vive dapprima, nei secoli XIV-XV, l’epoca dei volgarizzamenti (dal latino) o delle traduzioni e ritraduzioni (soprattutto dal toscano), poi, a partire dal Cinquecento, quella di un ritorno alla poesia d’amore, sia pure in un contesto culturale ormai del tutto cambiato. È in questo periodo che si sviluppa una lingua poetica notevolmente intrisa di stilemi letterari, la quale verrà usata quasi senza innovazioni fino agli inizi dell’Ottocento. La prima, monumentale raccolta di poesie d’amore è rappresentata dalle Muse siciliane, pubblicate fra il 1645 e il 1653 da Pier Giuseppe Sanclemente, pseudonimo del palermitano Giuseppe Galeano (1606-1675).
Nel Settecento la figura di maggior spicco è certamente quella del palermitano Giovanni Meli (1740-1815), membro dell’Arcadia e rara figura di intellettuale con un’ampia rete di contatti internazionali, per il quale il siciliano serve addirittura a stendere dotte dissertazioni filosofiche in versi. A lui si affiancano i concittadini Giovanni Alcozer (1756-1854) e Ignazio Scimonelli (1757-1831), anch’essi membri dell’Arcadia, e il catanese Domenico Tempio (1750-1821).
Nell’Ottocento la letteratura dialettale vive periodi interessanti soprattutto dopo l’Unità, nel solco dell’esperienza verista, grazie, per esempio, a Serafino Amabile Guastella (1819-1899), ricordato anche come studioso delle tradizioni popolari, al giovane ➔ Luigi Pirandello (1867-1936), che scrive novelle nel dialetto della natia Girgenti (Agrigento), e a Nino Martoglio (1870-1921), poeta, ma anche regista e sceneggiatore teatrale e cinematografico. Coetanei di Martoglio sono Francesco Guglielmino (1872-1956), che tende a un raffinato dialetto regionale, e Alessio Di Giovanni (1872-1946), uno dei pochi a usare il dialetto anche nella prosa.
Tra i nomi degni di nota nella letteratura siciliana del Novecento possono essere ricordati quelli del ragusano Giovanni Antonio Di Giacomo, più conosciuto come Vann’Antò (1891-1960), il primo a tentare ibridazioni con l’italiano che poi avranno ancora più fortuna; di Ignazio Buttitta (1899-1997), poeta assai impegnato politicamente, nonché vincitore, nel 1972, del premio Viareggio; e di Santo Calì (1918-1972), che usa l’arcaico dialetto dei pastori di Linguaglossa (Catania) per ribellione alla freddezza e allo schematismo che contraddistinguerebbero la lingua nazionale. Il periodo più recente è punteggiato da scelte letterarie e linguistiche molto particolari, come quelle di Vincenzo Consolo (1933); un caso a sé è invece lo sperimentalismo linguistico di Andrea Camilleri (1925), che ha costituito il fenomeno editoriale forse più noto e discusso degli anni a cavallo tra i due secoli.
In Calabria, la letteratura dialettale inizia nel Seicento a opera di due originali autori entrambi di Aprigliano (Cosenza), Domenico Piro (1664-1696), che avvia un filone di poesia erotica e licenziosa in realtà assai poco popolare, e Carlo Cosentino (1671-1758), traduttore della Gerusalemme liberata. Bisognerà però attendere l’Ottocento, e in particolare il periodo postunitario, per ritrovare temi e figure di ampio respiro, come, ad es., Bruno Pelaggi (1837-1912), per il quale il dialetto nativo diventa lo strumento per esprimere la delusione dei meridionali di fronte alle promesse mancate del nuovo Stato unitario e l’aspirazione a un mondo più giusto; atteggiamenti simili mostra Antonio Martino (1818-1884), mentre Vincenzo Ammirà (1821-1898) si segnala sia per composizioni a carattere licenzioso e anticlericale, sia per toni malinconici e rievocativi. Attento alla storia e all’antropologia della regione è invece Vincenzo Padula (1819-1893), singolare figura di sacerdote e intellettuale coinvolto in pieno nei moti antiborbonici, che con il poemetto Notte di Natale fornisce forse il miglior esempio di letteratura in calabrese dell’Ottocento. Nel Novecento, il mondo dell’emigrazione e quello della memoria e degli affetti saranno i protagonisti delle opere di Michele Pane (1876-1953), naturalizzato statunitense (sarà uno dei primi a dedicare attenzione alle interferenze della lingua degli emigrati in America, come in Lu calavrise ngrisatu «Il calabrese che parla in lingua inglese»), e di Vittorio Butera (1877-1955). Assai suggestiva è infine l’operazione linguistica condotta nei suoi romanzi di ambientazione calabrese da Giuseppe Occhiato, scomparso nel 2010.
Nel Salento, la stagione letteraria dialettale si apre ben prima che nel resto della Puglia, anche perché il dialetto era usato, nella comunicazione quotidiana, anche dai ceti più alti. Il primo esempio rilevante è offerto dal Viaggio de Leuche («viaggio a Leuca»), poemetto giocoso in ottave del sacerdote Geronimo Marciano (1632-1714), a cui fa seguito, qualche decennio più tardi, la farsa rusticana Nniccu Furcedda («Nico stampella», cioè «storpio»), composta verso il 1730 da Girolamo Bax sul modello di quelle napoletane coeve. Il leccese Francescantonio D’Amelio (1775-1861) è invece l’iniziatore della tradizione lirica dialettale, che proseguì nei decenni successivi con Francesco Marangi (1864-1939) e Giuseppe De Dominicis (1869-1905), cantore della vita e del folklore salentino. Vanno ricordati anche il poeta brindisino Agostino Chimienti (1832-1902), Giuseppe Susanna (1851-1929) e, tra le voci più recenti, Giuseppe De Donno (1920-2004), nei cui sonetti si ritrova un notevole impegno civile, assieme a una buona dose di sperimentazione linguistica.
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