COCCAPANI, Sigismondo
Figlio dell'orafo Regolo Francesco e fratello di Giovanni, nacque a Firenze nel 1583. Queste e le altre non molte notizie biografiche che possediamo di questo ramo trapiantato da Carpi a Firenze della nobile famiglia "lombarda" dei Coccapani, che contava membri ragguardevoli, derivano dal Baldinucci e dal Tiraboschi.
Il Baldinucci ha utilizzato per le notizie su questo pittore, architetto e studioso di problemi di idraulica, appunti e lettere, probabilmente in mano dell'omonimo e più volte citato nipote sacerdote, figlio di Giovanni, stralciandone pochi accenni a lavori o progetti o più o meno convenzionali espressioni di stima da parte di persone di qualche rilievo. Il Tiraboschi e più tardi, integrandolo, il Campori hanno fornito qualche precisazione su quanto, forse per via ereditaria, era rientrato a Carpi, e poi era stato disperso, di scritti, disegni e carte varie di entrambi i fratelli fra l'altro un quadro del C. collocato nella chiesa di S. Agostino, fornendo attraverso il testamento di quest'ultimo documentazione sull'origine carpigiana della famiglia. Ma non essendo andato l'interesse dei biografi, anche quello del Baldinucci, al di là della raccolta di qualche dato, mancando pressoché del tutto il supporto del diretto ricordo visivo delle opere pittoriche, ne è risultata una "vita" generica, sfocata, in cui niente affiora del temperamento che pur dovette esserci dietro alla vena extra-vagante - il Longhi (1943) diceva suggestivamente "negromantica" - che nutre i migliori dipinti del Coccapani. Proprio per essa invece, ora che un certo numero di quadri è venuto a saldarsi con sufficiente certezza intorno al suo nome, egli viene ad occupare una posizione di tutto riguardo entro lo svolgimento della pittura fiorentina dei primi decenni del Seicento, di cui accompagna e più spesso sollecita gli esiti più brillanti in ordine al singolare naturalismo "romanzato" che la caratterizza e che è il frutto ormai abbastanza noto di un ambiguo incontro fra tradizioni accademiche locali e marginali suggestioni caravaggesche al lume crepuscolare della corte medicea.
Forse una situazione familiare economicamente abbastanza tranquilla accanto a scelte personali in qualche modo implicite nel carattere delle opere oggi note e a interessi scientifici tradottisi in scritti e studi, visti favorevolmente dallo stesso Galilei, sono alla radice dello scarso impegno pubblico del C. e dell'avvio lento della sua attività, accanto al Cigoli, a Roma, dove quest'ultimo si era conquistata fama di virtuoso colto e ben introdotto socialmente. Fu aiuto del Cigoli infatti negli anni della decorazione della cupola della cappella Paolina, in S. Maria Maggiore, cui si lavorò tra il 1610 e il 1613, e se ne tornò a Firenze molto probabilmente prima della morte del maestro (cfr. Carteggio L. Cigoli-G. Galilei), in tempo per datare nell'anno 1613 una lunetta ad affresco nel chiostro di S. Marco che illustra la "storia dei ciechi accattoni e del povero gentiluomo" e che resta con le quasi invisibili lunette della cappella Martelli in S. Gaetano, compiute venti anni dopo, la sua sola opera in pubblico a Firenze.
La cultura del C. a questo punto emerge localmente già con tratti abbastanza inconsueti, avvivando la trama banale dell'episodio illustrato con un intrecciarsi più fitto e mosso di personaggi dai volti ben individuati, un gestire più incalzante e un andamento sciolto di panni ridondanti che va oltre la floridezza pittoresca della contemporanea Giuditta di Cristofano Allori, or ora riemersa dalle collezioni reali inglesi in una prima edizione appunto del 1613 (C. McCorquodale, Painting in Florence 1600-1700, London 1979, pp. 17 s.). Un paio d'anni dopo, la Incoronazione di Michelangelo per la galleria di casa Buonarroti a Firenze (1615-17) non mantiene le promesse, forse per difficoltà insite nel tema;ma doppiato il decennio, opere come la cosidetta Musica zingaresca già nella Galleria Corsini a Firenze o il S. Sebastiano curato dalle pie donne, attualmente di ignota collocazione (Sricchia, 1963), per non dire poi della eccezionale Fanciulla dormiente del Museo di Budapest, presentano novità di tutto riguardo nell'ambiente fiorentino.
Allo sviluppo della ricerca sulla materia pittorica, stesa in pennellate dense, tortuose, che avvicinano il C. al Feti, anche egli legato al Cigoli, e che presuppongono in entrambi qualche attenzione alle esperienze romane del Borgianni, dell'Elsheimer, ma soprattutto della cerchia di quest'ultimo, Jan Pynas in particolare, si accompagna infatti in queste opere una indipendenza notevole di taglio e di spirito dal quadro da stanza fiorentino, quale allora si veniva definendo nel largo seguito di Matteo Rosselli, con una speciale capacità di recuperarne sul piano pittorico e quasi di accentuarne umoristicamente anche le inclinazioni verso un addobbo e una messa in scena vistosamente teatrale. La premessa è indubbiamente una certa familiarità con l'area caravaggesca e un certo estro nel trarre partito dalla sua rottura di schemi precostituiti, l'una e l'altro favoriti da un momento di palese interesse a Firenze per il fenomeno naturalistico, a livello privato, di quadro da stanza, che portava a lavorare per la corte granducale Artemisia Gentileschi, il Manfredi, Honthorst, il napoletano Caracciolo, alcuni presenti di persona altri attraverso le opere. Ma sulle nuove acquisizioni prevale nel C. un gusto della deformazione e del bizzarro, dell'impianto compositivo insolitamente angolato con effetti di incombenza sul primo piano e di vistosi ingorghi di panni, che ne orienta diversamente i risultati ed ha offerto più di qualche argomento a raffronti e, prima, a confusioni con il francese Vignon, forse anche lui presente a Firenze e in ogni caso operante ai margini della autentica corrente caravaggesca. Qualunque tema è soggetto a questa interpretazione che suggerisce la idea del travestimento e del teatro domestico anziché della tranche de vie; non è un caso che il curioso Suonatore di flauto protagonista del quadro già nella Galleria Corsini, in sgargiante costume con alamari e gran turbante impennacchiato sopra i lunghi riccioli, abbia suggerito per l'opera, con l'alone esotico che vi circola, il titolo certamente improprio di Musicazingaresca; ma non meno zingaresca in questo senso e misteriosamente notturna è l'atmosfera creata, nel citato S. Sebastiano, dalla donna incombente con il suo groviglio di panni e il volto in ombra sul corpo riverso del martire, mentre ad un analogo registro sentimentale si ispira la vivacità delle stoffe colorate, dei tappeti, il tipo dell'abbigliamento nella Sacra famiglia Brimo de Laroussilhe a Parigi (cfr. Sricchia, 1963), prototipo di numerose varianti.
Lo scarso catalogo delle opere del C., privo anche della testimonianza delle due tele per cappelle gentilizie il cui ricordo il Baldinucci estraeva dalle succitate lettere, una per la chiesa di S. Ponziano a Lucca, l'altra per la pieve di Marti, entrambe disperse, ha cominciato ad essere rimpolpato in anni recenti (Del Bravo, 1966; Gregori, 1974; Cantelli, 1976). Le due opere acquistate di recente dal Museo di Brest, un S. Sebastiano curato dalle pie donne e un Giaele e Sisara, qualche altra in collezione privata, tra cui in particolare un Mosè che fa scaturire l'acqua e una Adorazione dei Magi, hanno precisato la fisionomia del pittore e la sua cultura davvero complessa e sottile nel ridurre entro la propria cifra stilistica suggestioni diverse, anche dal Guercino più macchiato e romanzesco, con qualche tangenza con il Rutilio Manetti degli anni Venti, che resta tuttavia di talento meno lambiccato. Da qui è stato possibile partire per una distinzione (Cantelli, 1976) tra le sue esperienze e quelle, per qualche tratto affini e dipendenti, di Cesare Dandini, il cui catalogo pur esso in via di formazione, ma abbondantissimo, stava inglobando alcuni numeri giustamente restituiti al C., in particolare il S. Sebastiano a figura intera dell'abbazia di Vallombrosa e l'altro, a mezza figura, del Museo di Pistoia, densi di sensuali pesanti umori. Che tuttavia un avvicinamento effettivo da parte del Dandini ci sia stato e sia alla base di questi disguidi lo dimostrano il bel Flautista esposto alla mostra fiorentina del 1970 (Borea) e la Figura allegorica di collezione privata, riferita al C. da chi scrive (1963) e dal Cantelli (1976) al Volterrano, ma ancora una volta oscillante proprio fra il primo e il Dandini.
Che il C. poi proseguisse per la sua strada senza smentirsi né in fatto di qualità né per estro, sta a dimostrarlo la forte Scena di stregoneria presentata alla mostra del 1965 a palazzo Strozzi (Gregori).
All'attività di pittore e di "maestro di disegno" che dal 1619teneva accademia per gentiluomini in casa di Piero Strozzi il C. alternò, come il Cigoli, interessi per l'architettura, comprovati da disegni per cappelle (per S. Gaetano di Firenze, per il duomo di Siena) e dall'intervento nella elaborazione del progetto per la facciata del duomo di Firenze (cui si rimise mano nel 1633) e nelle controversie che seguirono fino all'abbandono dei lavori (Del Moro, 1888). Al tempo del collegamento con il Cigoli risale il rapporto con Galileo (cfr. Cart. L. Cigoli-G. Galilei) che nel 1631 stese una relazione al granduca "sopra il modo di ridurre Arno in canale, trovato da Gismondo Coccapani, pittor fiorentino", un problema su cui il pittore aveva lavorato a lungo e i cui risultati trovavano consenziente l'autorevolissimo relatore, a parte le riserve circa il tempo che sarebbe stato necessario per la realizzazione. Carte del C., relative alla questione, sono conservate nei voll. 108 e 109 della Collezione Galileiana della Biblioteca nazionale di Firenze.
Il C. morì a Firenze nel 1642.
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