signore (segnore)
Per l'alternanza delle due forme v. Petrocchi, Introduzione 431. Di questo vocabolo, presente in tutte le opere canoniche oltre che nel Fiore, occorre innanzi tutto registrare gli esempi nei quali, secondo un uso ampiamente attestato nella lingua del tempo, compare come titolo accordato a chiunque eserciti un'autorità sovrana o abbia dominio, come il possessore di un feudo rispetto ai propri vassalli: Cv III X 7 lo suddito è conoscente del vizio del signore; Rime dubbie XIX 12 Parmi che di battaglie di signore / veng'a ciascun cui d'Amor cheriraggio, cioè mi sembra conveniente che il sonetto si rivolga a chiunque provenga dalla schiera dei " nobili ", a cui chiederò d'Amore (per l'interpretazione, assai controversa, v. A. Pézard, La rotta gonna, Firenze 1967, 107-111); Fiore LXIX 3 Lasciala far a gran signor di terra, / che posson sofferir oste e battaglia!, lascia che queste sfide le facciano i " grandi feudatari ", che possono sopportare le spese di un esercito e di una guerra (e si noti l'accostamento fra s. e ‛ battaglia ', presente in tutti e due i passi).
Nella Commedia compare solo con riferimento diretto a personaggi effettivamente esistiti; nella dichiarazione di lealtà verso Federico II resa da Pier della Vigna (vi giuro che già mai non ruppi fede / al mio segnor, che fu d'onor sì degno, If XIII 75); nell'elogio di D. alla famiglia Malaspina (La fama che la vostra casa onora, / grida i segnori e grida la contrada, Pg VIII 125); nell'accenno di Carlo Martello al suo diritto di succedere nei domini aviti al padre Carlo II d'Angiò (la Provenza per suo segnore a tempo m'aspettava, Pd VIII 60); così, usando l'appellativo di segnor mio (v. 86), D. si rivolge al principe angioino. Per la caratteristica tendenza medievale di rivestire di forme contemporanee personaggi e vicende del mondo antico, il titolo di s. ricorre anche a proposito di Traiano (Pg X 83 e 86) e di Pisistrato (XV 102).
Ha senso meno specifico quando indica chi tiene altre persone a servizio presso di sé; in tutti gli esempi di questo gruppo il valore del vocabolo è reso più evidente dal fatto che esso si accompagna sempre a quello di ‛ servo ' o di altro sostantivo di significato analogo: Rime L 17 buon signor già non ristringe freno / per soccorrer lo servo quando 'l chiama; Cv III I 8 Sì com'è intra lo signore e lo servo: ché, avvegna che lo servo non possa simile beneficio rendere a lo signore quando da lui è beneficiato, dee però rendere quello che migliore può; If XXIX 77 non vidi già mai menare stregghia / a ragazzo aspettato dal segnorso, " dal suo signore " (per la formazione con l'aggettivo possessivo enclitico, v. Parodi, Lingua 251); e così in XVII 90 (buon segnor), XXII 49, Pd XXIV 148.
In Rime CVI l'antitesi fra s. e ‛ servo ' è inserita più volte nel tessuto stilistico della canzone, quasi per sottolinearne il carattere dottrinario con una movenza di chiara derivazione oratoria: l'uomo, allontanando da sé la virtù, si riduce a condizione servile (v. 25 O Deo, qual maraviglia / voler cadere in servo di signore, / o ver di vita in morte!); e sì che è proprio la virtù, cara ancella e pura (v. 39), a istituire la signoria dell'uomo sulle proprie azioni rivolgendole al bene (tu sola fai segnore, v. 41); ma l'uomo, allontanandosi da lei, diventa servo non di signore (che sarebbe una condizione servile tollerabile), ma di un vil servo, cioè del vizio (Servo non di signor, ma di vil servo / si fa chi da cotal serva si scosta, v. 43): un servo, il vizio, che, quando l'uomo gli si assoggetta, esercita il proprio dominio con protervia e arroganza (questo servo signor... è protervo, v. 48); lo dimostra l'esempio dell'avaro, il quale, affannandosi inutilmente nel tentativo di raggiungere il completo soddisfacimento del suo vizio, è servo... ch'è seguace / ratto a segnore, e non sa dove vada (v. 65); se questo avviene, se molti uomini cedono al vizio, la colpa è della ragione, la quale si lascia sopraffare, lei, signora, da un servo che la sormonta (ah com poca difesa / mostra segnore a cui servo sormonta!, v. 98). Oltre che dalla presenza nella canzone di vocaboli appartenenti al medesimo ambito semantico (famiglia, v. 30; corte, v. 31; vassallaggio, v. 35; segnoreggia, v. 68), il carattere letterario e dotto di questo così frequente ricorso alla medesima figura retorica è rivelato dal fatto che, come ha notato il Contini, vil servo era tipica formula guittoniana, attestata dal sonetto sulla lussuria (" Lussuria, tu di saggi' om matto fai, / adultero cherco, e vil serv'om signore ", vv. 1-2).
Un altro gruppo, altrettanto numeroso e stilisticamente coerente, di esempi si ha in Cv I V, VI e VII, cioè nei capitoli del trattato destinati a giustificare l'uso del volgare in un'opera di contenuto dottrinario, con l'osservazione che un commento in latino a poesie in volgare sarebbe stato sconveniente, in quanto fine del commento era quello di servire alle canzoni, e colui che è ordinato a l'altrui servigio... se elli non è [conoscente del bisogno del suo signore e a lui non è] obediente, non serve mai se non a suo senno e a suo volere (V 5; l'integrazione, proposta da Busnelli-Vandelli, manca nella '21); ora, se 'l servo non conosce la natura del suo signore, manifesto è che perfettamente servire nol può (VI 4), mentre 'l latino non sarebbe stato servo conoscente al signore volgare se non in genere, ma non in distinto (§ 2); e si veda anche V 6, VI 3 (due volte) e 5 (due volte), VII 8 e 11 (due volte).
Al tema delle ricchezze dominatrici degli uomini, accennato anche in Rime CVI 65 (già citato), si collegano i seguenti esempi: Cv II X 10 un'altra infermitade pessima vidi sotto lo sole, cioè ricchezze conservate in male del loro signore (che traduce Eccl. 5,12); III XIII 11 [i beni mondani] li altri fanno loro signori. E vada qui anche Fiore CLXXIII 5 e dì... / che tu ha' rifiutato gran signore, / che riccamente t'avrebbe donata, dove gran signore, dato il contesto, sembra alludere al possesso di cospicui mezzi finanziari (e sarà ovvia, qui, l'assenza di qualsiasi valutazione negativa).
L'idea di preminenza implicita nel vocabolo spiega perché D. si rivolga frequentemente a Virgilio con l'appellativo di s.: If II 140 Or va, ch'un sol volere è d'ambedue: / tu duca, tu segnore e tu maestro, ben chiarito dalla chiosa del Boccaccio: " Tu duca, quanto è all'andare: tu signore, quanto è alla preminenza e al comandare, e tu maestro, quanto al dimostrare; e così in IV 46, VIII 20 (lo mio segnore), 103 (quel segnor che lì m'avea menato) e 116, XVI 55, XIX 38 (tu se' segnore), Pg IV 109, VI 49, VII 61, IX 46, XIX 85.
Quel segnor de l'altissimo canto (If IV 95) è ormai concordemente ritenuto Omero; la candidatura di Virgilio, dubitativamente proposta dal Castelvetro (" si può intender di Virgilio, perché ora è onorato come signore... e si può intender d'Omero, il quale di sopra è stato domandato Sire "), per quanto sia stata sostenuta dal Foscolo, dal Tommaseo, dal Torraca e da altri, non trova più consensi; parimenti, fra i commentatori moderni, solo il Mattalia accoglie la lezione quei signor, largamente attestata dalla tradizione manoscritta e preferita dai chiosatori trecenteschi (Lana, Boccaccio, Anonimo, Buti, ecc.), i quali intendevano tutta la frase come espressione di un primato, riconosciuto da D., ai poeti ricordati nei vv. 88-90 e a Virgilio sopra tutti gli altri. E si veda, per la questione, Petrocchi, ad l., e Parodi, Lingua 341-342.
Anche a non voler considerare l'importanza, nella tradizione letteraria, della rappresentazione dell'amore come una divinità, la tendenza alla personificazione dei sentimenti, sia pure in modo diverso insita sia nella concezione cortese e cavalleresca dell'amore sia nella poetica dello Stil nuovo, spiega perché il titolo di s. sia insistentemente attribuito ad Amore nelle opere giovanili di D. e nel Fiore.
Forza dominante che signoreggia l'anima del poeta (Vn IX 3 lo dolcissimo segnore, lo quale mi segnoreggiava per la vertù de la gentilissima donna) e, anzi, tutti i cuori gentili (III 10 4 A ciascun'alma presa e gentil core / ... salute in lor segnor, cioè Amore), Amore è quel segnor ... / che vince ogni possanza (Rime LVII 1), che le donne innamora (LXXXV 6), che ha in balia D. (L 65); è il signor, confessa il poeta rivolgendosi a Cino, a cui siete voi ed io (XCVI 2). Segnore de la nobiltade (Vn XII 4), Amore merita gli appellativi di alto segnore (Rime XC 6), di dolce mio signore (Rime LXXXVI 7), segnor gentile (LXXX 15), possente segnore (CIV 6), o anche, semplicemente, di signore (LX 4) e signor mio (CXVI 12). Esempi analoghi in Vn III 3, VIII 7, X 1, XII 5, 9 e 10 4, XVIII 4, XXIV 8 7, Rime LVI 10, LXVI 7, XC 46, CII 25, CIV 39, CXVI 12 e 72, Rime dubbie XIV 6, XVI 4.
Naturalmente gli stessi appellativi tornano nel Convivio, come logico esito della trasfigurazione della Donna gentile della Vita Nuova in parametro e immagine della filosofia: II Voi che 'stendendo 51 Amor, segnor verace; IV Le dolci rime 18 chiamo quel signore / ch'a la mia donna ne li occhi dimora (ripreso in II 2 e 17), così commentato secondo il senso allegorico: chiamo la veritade che sia meco, la quale è quello signore che ne li occhi, cioè ne le dimostrazioni de la filosofia dimora, e bene è signore, ché a lei disposata l'anima è donna, e altrimenti è serva (II 17).
Nel Fiore, l'uso di s. con riferimento ad Amore nella maggior parte degli esempi non si discosta dall'ambito semantico documentato nelle opere canoniche, come dimostrano i passi di X 7 questo mio signor, XXXVI 6 il mi' signor verace, XLII 14 lui tengo a signore (con ‛ tenere ' anche in III 8 e XXXVII 13); e così III 10, XXXVIII 2, LXXXI 7, XCI 10; è però più chiaramente avvertibile la connessione del vocabolo con l'ordinamento feudale: IV 5 I' sì son tu' signore, / e tu sì se' di me fedel giurato; XXXVIII 7 egli è mi' segnor ed i' son seo / fedel. E vada qui anche CLXXXV 6 egl'è ancora / el signor tuo lassù, unico esempio nel corpus dantesco in cui s. compaia con il significato di " marito " (come sire in CLXXXVI 4).
Il rilievo dato nell'opera dantesca alla suprema sovranità di Dio è avvertibile nel diffuso ricorso a s. per rivolgersi o per riferirsi a Dio. Il modello è offerto dalla tradizione biblica, come dimostrano Cv III IV 8 Dio è segnore: esso fece noi e non essi noi (che traduce Ps. 99, 3 " Dominus ipse est Deus; / ipse fecit nos et non ipsi nos "), e IV XIX 7 Segnore nostro Iddio, quanto è ammirabile lo nome tuo ne l'universa terra!, che, almeno in parte, rielabora il testo davidico di Ps. 8, 2 " Domine Dominus noster, quam admirabile est nomen tuum, in universa terra ! ".
Così, Dio è chiamato segnore de li angeli (Vn VIII 1), ‛ s. del cielo ' (XIX 7 20 Lo cielo, che non have altro difetto / che d'aver lei, al suo segnor la chiede), segnore de la giustizia (XXVIII 1), altissimo signore (XXXIV 7 3); segnor mio (If II 73) lo riconosce Beatrice, e mi' segnore la Ragione (Fiore XXXV 9); segnor caro (Pg XI 22) lo invocano i superbi. E si vedano ancora Rime Cv 4, Vn XXVI 2, Cv IV XXVIII 17, Pg XX 94, XXI 72. Analogamente, è tradizionale la denominazione di nostro Signore (Cv IV XXVII 8, XXX 4; Segnore, in XI 12, XVII 11, If XIX 91; Segnor, in Pd XXIV 35) attribuita a Cristo; anche più esplicito l'esempio di XXXI 107 Segnor mio Iesù Cristo, Dio verace. In un caso ricorre con riferimento di una divinità mitologica: Vn XXV 9 Iuno... parloe ad Eolo, segnore de li venti... e... questo segnore le rispuose.