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SILLABARIO

di Francesco Paolo Japichino - Enciclopedia Italiana (1936)
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SILLABARIO

Francesco Paolo Japichino

È il primo libro che si mette in mano al fanciullo per insegnargli a leggere e si chiama così perché è fondato sul presupposto didattico che occorra partire dalla sillaba per formare la parola (metodo sillabico).

Questo metodo, di cui qualche traccia è nell'Orbis sensualium pictus di J. A. Komensky, apparso nel 1658, e nelle scuole dei Portorealisti, diffuso in Italia, nella prima metà del sec. XIX, da G. A. Rayneri, che s'ispirava soprattutto a J. Jacotot (1770-1840), rappresentò una specie di rivoluzione di fronte al vecchio metodo alfabetico, già in uso presso i Romani e i Greci. Di questo fa menzione Dionigi d'Alicarnasso nel suo trattato Della composizione delle parole, rilevando che, nell'insegnamento del leggere, si fanno prima imparare i suoni delle lettere, poi le loro forme e il loro valore, quindi le sillabe e loro modificazioni e in fine le parole. Così, dal nome delle prime lettere dell'alfabeto: a, be, ce, de, il primo libro di lettura fu chiamato Abecedario, del quale correva in Italia un tipo particolare, ornato nel frontispizio da una croce con tre trasversali e detto perciò Santacroce.

L'illogico metodo alfabetico, che durò per tanti secoli (così, per far leggere la parola tavolo si faceva scomporre la parola e quindi compitare: ti a ta, vi o vo, elle o lo, tavolo), fu sostituito dal sillabico, ed ebbe in Italia un adattamento speciale nel metodo proposizionale per opera di Gian Giacomo Piccolelli, il quale in un'operetta Consigli ai maestri per insegnare a leggere (Napoli 1838) raccomandava di fare apprendere agli alunni questo passo: "Belli, scelti garofani, gelsomini, viole, fiori odorosi, che qui Cesare raccoglie senza pena e lagni", dove sono compresi, oltre a tutte le sillabe semplici anche i digrammi; e quindi nel metodo delle parole normali di R. Lambruschini in Italia e di J. K. Vogel in Germania, scomponendo le quali si trovano gli elementi per la lettura e la scrittura di tutte le parole possibili.

Ma anche il metodo sillabico era lungo, perché bisognava insegnare prima le vocali, poi le sillabe semplici, le inverse, le complesse e finalmente le composte e cedette il posto al metodo fonico, che fu diffuso in Germania da H. Stephani (1761-1850) e in Italia nella seconda metà dell'Ottocento, ma fu scoperto da B. Pascal, come risulta da una lettera che la sorella Jaqueline gli scriveva il 26 ottobre 1655, accettando in massima il metodo da lui ideato e chiedendo qualche chiarimento.

Con questo procedimento, nella sua rigida applicazione, insegnate le vocali, si parte dalle consonanti che possono più facilmente pronunciarsi (v, r, s, t, f e così di seguito) avendo cura di formare parole costituite da sillabe semplici e complesse e quindi da sillabe composte. I sillabari antichi insistevano molto nel rispettare la gradazione. Così, insegnato il suono v e la forma grafica, si facevano leggere alcune parole composte da sillabe semplici, rimandando l'insegnamento delle composte a un secondo momento; si sapeva perder tempo, all'inizio, per guadagnarlo dopo. I moderni, invece, complicano le difficoltà, presentandone parecchie contemporaneamente, e riescono piuttosto d'inciampo.

Molte e lunghe sono state le discussioni in Italia, verso la fine del secolo passato, tra i seguaci del metodo fono-sillabico, che contempera i due indirizzi, e quelli del metodo fonico puro; tra quelli che, per l'insegnamento delle composte, insistevano nel ritenere come logico il raddoppiamento (es. bab-bo) e gli altri, come logicissimo, pratico e spedito, il rafforzamento (ba-bbo). Questioni inutili, specialmente sotto l'aspetto razionale. Perché né le sillabe, né le parole sono reali, ma l'espressione, cioè il pensiero. La questione piuttosto va posta nei suoi giusti limiti, cioè rispetto all'insegnamento, che dev'essere fatto bene e col maggiore risparmio di tempo possibile. E a ciò risponde adeguatamente il metodo fonico, che, per favorire i poteri associativi del bimbo, s'è unito con altri espedienti didattici (fono-mimico, fono-ideografico, ideo-fono-mimico); tutti, più o meno efficaci, se vengono ravvivati dall'arte sapiente del maestro.

Vedi anche
sillaba La minima unità fonica (autonoma e distinta sotto l’aspetto dell’articolazione) in cui si possono considerare divise le parole. ● La sillaba è costituita da un punto vocalico o centro o apice, formato da una vocale o da un dittongo o anche da una sonante con valore vocalico (così, per es., la sonante ... alfabeto linguistica Complesso di segni ciascuno dei quali indica un suono consonantico o vocalico di una lingua determinata.  ● L’antichità ha conosciuto vari sistemi di scrittura, ciascuno dei quali è giunto dalla primitiva fase ideografica a un grado più evoluto, in cui determinati segni hanno acquistato ... tigrino Lingua semitica (anche tigrai o digrigna) parlata dai Tigrini nell’Eritrea centrale e nella regione etiopica del Tigrai fino al Lago Ascianghi; in una parte di quest’area si parlava anticamente il ge‛ez, rimasto in uso come lingua liturgica della Chiesa ortodossa etiopica. Lingua che possiede una ricca ... geroglifico Ciascuno dei circa 3000 segni della scrittura pittografica degli antichi Egizi. I geroglifico, che sono immagini schematiche di oggetti naturali, avevano valore ideografico e fonetico; i segni fonetici servivano principalmente per scrivere le parole senza ideogramma, le particelle e alcuni elementi grammaticali; ...
Tag
  • DIONIGI D'ALICARNASSO
  • GERMANIA
  • ITALIA
Vocabolario
sillabàrio
sillabario sillabàrio s. m. [der. di sillaba; cfr. il lat. tardo syllabarii «scolari che sanno appena sillabare»]. – 1. Libro per imparare a leggere secondo il metodo sillabico, partendo cioè dalla sillaba, e non dai singoli suoni isolati,...
abbiccì
abbicci abbiccì (anche a bi ci, a b c o A B C) s. m. [dal nome delle prime tre lettere dell’alfabeto]. – 1. Alfabeto: conoscere, imparare l’a.; sono molti idioti che non saprebbero l’a b c, e vorrebbero disputare in geometria, in astrologia...
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