CENTOFANTI, Silvestro
Nacque a Calci (Pisa) l'8 dic. 1794 da Giuseppe e Rosalia Zucchini, in una modesta famiglia di fattori del senatore Orlandini, che era, tuttavia, sufficientemente facoltosa, o sufficientemente industriosa, se riuscì a far impartire un'ottima educazione al C. e al secondogenito Vincenzo.
Questi seguì gli studi medici a Pisa e fu quindi professore di ostetricia nelle università di Siena e di Pisa, nonostante gl'incidenti e le punizioni, per indisciplina "patriottica", durante il suo alunnato alla Sapienza negli anni Venti. Anche una delle sorelle fece un matrimonio "borghese": fu madre di Leopoldo Tanfani, stimatissimo avvocato e uomo politico in Pisa, carissimo al C. qual figlio e qual figlio adottato (donde l'assunzione del doppio cognome Tanfani-Centofanti).
La famiglia Centofanti vantava, d'altronde, remote (ma forse inesistenti) connessioni con l'università di Pisa ed era lontano congiunto del C. quel Cesare Malanima che gl'insegnò il greco e l'ebraico, dopo i primi rudimenti presso i sacerdoti Giuliano Giusti, V. Pellegrini e P. Morosi e dopo lo studio delle lettere italiane col Cardella. Entrò quindi, studente di leggi, all'università di Pisa, ov'ebbe maestro il Carmignani e frequentò anche il Rosini, ma non senza sottoporre ad esaurienti, severe critiche, nel volgere dei propri studi, tanto la Luisa Strozzi del Rosini quanto la Teoria delle leggi della sicurezzasociale del Carmignani.
Gli inizi letterari del C. datano dalla Restaurazione e coincidono con essa: un poemetto di 566 endecasillabi sciolti Il presentimento avverato ovvero La perfetta sovranità, Pisa 1814 (rist. in Biondi, pp. 158 s.), per il ritorno di Ferdinando III.
Il poemetto, elogiatogli da Ippolito Pindemonte e da Fortunata Sulgher-Fantastici, rivela un C. già padrone della tecnica stilistica e del verso ("montiano", in specie) e limitatamente "conformista" in politica: in quanto plaude, sì, al ritorno della dinastia e alla caduta del regime napoleonico, ma giustifica e fonda il ritorno sul consenso del popolo, quasi che i restaurati Lorena potessero o volessero (mentre per il C., allora e poi sempre fino al '48, se non addirittura fino al '59, dovevano) rinnovare i tempi e la politica di Pietro Leopoldo, meritandosi, quindi, il favore dei sudditi col proseguire nel solco del riformismo toscano e del governo francese.
Il C., infatti, se non fu mai giacobino, e nemmeno propenso alle ideologie illuministico-sensistiche del sec. XVIII, sentì però fortissima la "lezione" bonapartesca: la quale fu lezione, a un tempo, di storia e di vita, un'esperienza civile per tutto quel che di nuovo e di buono i Napoleonidi avevano introdotto nel granducato di Toscana, oltre che nella limitrofa Lucca di Elisa Baciocchi; e un'esperienza intellettuale o morale, per l'intelligenza del passato e del prossimo, diverso avvenire.
Dopo aver composto versi di circostanza (fra l'altro, tre Idilli, l'ultimo dei quali, La gratitudine, in occasione del felice parto della principessa Maria Anna Carolina, per ringraziare il principe ereditario che aveva impedito l'alienazione delle sue terre: poi in Vita poetica, Firenze 1881, pp. 11-351, il C. non tardò, tuttavia, nel giovanile fervore poetico, e nel ricordo della storia recente, a immettere nel suo classicismo arcadico-romano la problematica del tempo ("Le idee della libertà politica, che circolavano nelle riunioni conversevoli, non potevano non piacermi") e, trasferitosi "dai campi nella città", si diede a dettare ben altri versi (quantunque d'assai mediocre imitazione "montiana"), "con animo di promuovere il risorgimento d'Italia" (in Vita, p. 7).
Dimenticate, o perdute, dall'autore medesimo, "non poche Odi, da me dette ... le Italiche, le quali con gli esempi massimamente romani di ogni civile virtù infiammassero i giovani a magnanima emulazione"; ma sincera, e quasi promessa ferma per l'avvenire, la missione che al C., in una di quelle superstiti Odi, assegna la gloria: "E se Italia a chi Le è figlio/ Gridi: Patria e Libertà ... / In te il dì del gran periglio / Un Tirteo l'Italia avrà" (Vita, pp. 8, 48).
Trasferitosi con la famiglia (mortogli nel frattempo il padre) a Firenze nel 1822, perché chiamatovi dal principe alla Biblioteca palatina e al riordino degli archivi medicei, nonché (insieme con V. Antinori e Guglielmo Libri) a raccogliere ed eventualmente pubblicare materiale galileiano (e poco importa che nulla, o quasi, riuscisse a concludere di ciò che sarebbe stato precipuo suo compito, fra errori, avventure amorose, debiti e guai diversi, in cui lo aiutarono, e per cui lo compiansero, il Capponi e il Tommaseo), il C. diede principio a una dispersa e molteplice attività, coerente e organica nel sommettere filosofia e poesia al servizio della storia, e nell'interpretare la storia come un continuum di civiltà, come un processo d'incivilimento, che è la progressiva attuazione del regno di Dio.
Cominciò dal teatro, proponendosi di dar all'Italia "del secolo nuovo", non più né illuministico né misogallico, ma cristiano e romantico, un teatro tragico che fosse, a un tempo, istituzione e poesia. "In Pisa mi era esercitato scrivendo due o tre atti della Medea, e facendo qualche breve traduzione da tragedie greche" (Vita, p. 51 n. 1). In Firenze, dopo vari tentativi (il migliore de' quali è probabilmente la frammentaria Ines de Castro), sollecitato dalla versione sofoclea del Bellotti e sicuramente dalla lettura di Schiegel, dalla tematica del lombardo Conciliatore e di concerto (forse inconsapevole) con Gino Capponi, si volse al teatro greco e dettò un Edipo re, "dalla Compagnia Domeniconi ... recitato ... nel teatro Goldoni con successo non infelice, e pubblicato nel 1828". Non isfuggì all'attenzione del Tommaseo che acutamente, ed amichevolmente, ne scrisse sull'Antologia del Vieusseux, iniziando così un sodalizio destinato a durare tutta una vita. L'Edipo doveva meramente aprire "l'ordinamento del nuovo teatro tragico che mi era proposto di dare all'Italia; il quale doveva incominciare dal mondo romano e dalla venuta del Cristo, e terminare con l'èra dei popoli nel mondo delle nazioni" (Vita, p. 61, 59).
Ad attuare un disegno poeticamente impossibile, ma storiograficamente fecondo, in quanto affermava la serietà, il tremendum e l'unità della storia, la quale si articola per successione di popoli ed ampliamento costante di civiltà (la civiltà fecondata dal cristianesimo inverando d'umanità e religiosità nuove la mera poesia e bellezza estetica dell'antica Grecia: dunque, senza rifiuto o ripudio della cosiddetta "paganìa"), il C. lavorò con assiduo impegno di storiografo e di lettore.
Lettore di libri antichi e moderni, e giudice, non imparziale forse, ma certo non impartecipe, della situazione "letteraria" in cui versava l'Italia. Desideroso e impegnato a darle una letteratura che fosse adeguata ai bisogni dei tempi, e solo poteva sorgere da un'alta esperienza poetico-civile. Donde il vagheggiamento del poeta nuovo, del poeta aspettato, derivasse la propria spiritualità e cultura dal travaglio del tempo e da un sentire "dantesco": dal superamento del sensismo è del byronismo e da un operoso ritorno a Dante. Non più il Dante "montiano" (benché il C. rammentasse sempre con gratitudine l'incitamento che il vecchio Monti non aveva negato ai suoi giovanili esperimenti), ma il Dante vero e storico, Dante ristudiato e reinterpretato conforme alla critica, ai risultati della nuova filologia e all'abbandono del mero grammaticume, delle quisquilie accademiche (alle quali troppo tuttavia concedette lo stesso C. in alcune sue scritture, per esempio nell'opuscolo Sopra un luogodiversamente letto della Divina Commedia, Firenze 1856, a difesa della lezione "Dirò dell'altre cose ch'io v'ho scorte", e per l'identificazione del Veltro con la persona e la campagna di Arrigo VII). Egli procedette perciò oltre le remore della polemica lombarda fra classici e romantici, di cui, forse unico tra i toscani, avvertì la significazione nazional-europea (anziché meramente letterario-provinciale), osservando con pienissima verità che "Dante, scrittore di un poema, che anche per la novità delle forme si differenzia da quelli della classica antichità, era avuto in onore ed allegato non più dai lodatori di Shakespeare, e di Goethe, che dagli studiosi di Omero e di Virgilio" (Un preludio al corso dilezioni su Dante Alighieri, Firenze 1838, P. XXVI; Vita, p. 22). E questo perché dagli inizi del sec. XIX "la società ravvicinavasi a Dio. Quindi a Byron succedeva La Martine, la scuola di San Simon agli economisti: e già l'Europa era succeduta alla Francia, a Napoleone l'umanità" (Preludio, p. XXXV; Vita, p. 230).
Questa poesia nuova (e il C. ne salutava interpreti, come il Lamartine, il Manzoni e l'Hugo), in quanto arte o creazione di popolo (essendo il popolo la novità essenziale e manifesta del mondo postnapoleonico), doveva primamente o soprattutto, avvertiva il C. per la sua stessa esperienza d'interprete e di traduttore dei tragici greci, essere, od estrinsecarsi, in teatro di popolo. E nel '42 così ne ragionava (forse remoto, ma non ignorato, precorrimento, per il D'Annunzio del teatro d'Albano, d'un'esperienza e d'un proposito che governano la poesia e la poetica dannunziana dalla Città morta al romanzo del Fuoco): "Il mio teatro dee poter dare feste drammatiche come quelle della Grecia antica. La rappresentazione vuol farsi di giorno, e tutto un popolo ci vedrà espressa l'immagine della sua storia nazionale e quella dell'umanità. Alcune parti di questo edifizio saranno immutabili, perché sono, fondamentali: le altre accessorie si faranno sempre di nuovo secondoché le occorrenze delle nuove tragedie domanderanno" (Vita, pp. 138-139). Né i temi, secondo questo incallito e competentissimo "classicista", dovevano essere, necessariamente, "classici" (come volevano i tradizionalisti) o "storici" (secondo suggeriva l'esempio del Manzoni e, al C. benigno e carissimo, del troppo lodato Niccolini). "La nuova guerra dei giganti combattuta nelle giornate di Dresda e di Lipsia sarebbe degna che se ne imprimesse nelle anime il sublime terrore coi suoni dell'omerica tromba" (Preludio, p. LVII; Vita, p. 252). Dunque, una concezione storica, e storica perché spiritualistica, della realtà, la quale, nella pienezza dei tempi, si articola nel mondo delle nazioni. "Il mondo delle nazioni - affermava il C. nel '38 - è un inesplicabile mistero: la storia, una raccolta di fatti senza un principio organico di connessione, se i moti che quelle eseguiscono e questa racconta, non furono ordinati ad un grande scopo; se tu ne contempli le sparse o interrotte serie, e le confuse diversità, inconsapevole di questo scopo, o incurioso ad investigarlo" (Preludio, p. XLVIII; Vita, pp. 243-244). Potevano il Capponi e il Tommaseo ridere del C. alla ricerca d'una "filosofia intera", cioè organica e spiritualistica, che, precorrendo a un tempo e per diverse vie Gioberti e Spaventa, il C. ravvisava nella filosofia italico-pitagorica e poi platonico-scolastica, nel dualismo di s. Anselmo e nel panteismo del Bruno, onde al C. pareva possibile di affrancarsi avventatamente, e quasi senza conoscerli, dal Kant e dall'Hegel. Potevano, più giustamente, rimpiangere la vita sregolata e l'attività dispersa del C., il quale, tuttavia, non ebbe nulla del "poligrafo", in quanto da una congiunta e parallela esperienza di filologo e di filosofo, di poeta e di letterato, e profittandone, ma superandole, seppe e riuscì ad essere storico.
Se era di storico già la refutazione giovanile del Carmignani in un articolodell'Antologia (giugno 1832, pp. 92-137), che non solo per motivi personalistici tanto piacque al Romagnosi (e di storico o educatore politico furono il suo scritto anonimo luganese del '34 e, quantunque vanamente ingegnandosi di trarne un guadagno legittimo, mentre non ebbe che disgusti e amarezze, il suo stesso programma nel '37 di pubblica esposizione del poema dantesco), storico puro il C. si dimostrò nei suoi tre libri maggiori, il Discorso sull'indole e le vicende della letteratura greca (premesso nel 1840 all'antologia fiorentina Il fiore della letteratura greca, poi ristampato, Firenze 1870, col diverso titolo: La letteratura grecadalle sue origini fino alla caduta di Costantinopoli), il saggio Sulla vita e le opere di V. Alfieri (premesso a un'antologia dell'astigiano, Firenze 1843) e il saggio Sulla vita e le opere diPlutarco (premesso, Firenze 1850, alla ristampa delle Vite nel volgarizzamento di G. Pompei).
Il Discorso sull'indole e le vicende della letteratura greca, se è debole nell'impianto filologico-linguistico, anche per le avventatezze del C. nel riscontrare o nel proporre analogie di lingua, di mito e di religione fra il mondo greco e il mondo ebraico-orientale, se non ha felicemente nulla di manualistico e di bassamente informativo (e qui andranno ricercate le ragioni precipue della sostanziale "sfortuna" del libro, massime nel cinquantennio di filologia "scientifica", fra il 1870 e il 1920 circa), resta insigne documento della storiografia romantica italo-europea, lavorato com'è su Creuzer, A. W. Schlegel, F. Schoell. C. O. Müller, ecc., non senza echi o mediazioni francesi (di cui il C. era periodicamente informato dall'esule Tommaseo). L'esperienza "cristiana" gli permette di avvertire il carattere estetico-mitico più che non etico-religioso, epperò precristiano e non moderno, della letteratura greca, evitandogli fraintendimenti anacronistici. La sua esperienza storicistica, la sua fedeltà allo "statino", alla "piccola patria", d'altronde, gli permettono non solo di cogliere la realtà della polis, ma l'inscindibilità sostanziale di polis e paideusis: donde, nella valutazione dell'ellenismo e della letteratura ellenistica (e già della letteratura prosastica del IV sec. a. C.), l'individuazione d'un tono e d'una storia diversi affatto dal tono della letteratura greca "classica" e dal ritmo della polis, il cui declino è attestato, a un tempo, e causato dalla "morte della poesia"; e questa, di concerto con la migliore storiografia romantica, dal Niebuhr al Nietzsche, il C. giustamente data dalla "crisi" della guerra del Peloponneso e dal magisterio socratico. Non v'è, pertanto, nel C., critica letteraria stricto sensu e neppure analisi di opere poetiche (se non, forse, unicamente per il Prometeo e l'Edipore), ma storia dell'"incivilimento" greco, o storia tout court, vista e narrata dall'angolo visuale della letteratura.
Un criterio e un metodo analoghi governano il saggio alfieriano: che è la storia d'un uomo, e di come attraverso gli eventi e le ideologie d'un secolo, i travagli, le avventure o gli errori d'un individuo (i viaggi, gli amori, i cavalli, l'europeismo e il feudale piemontesismo aristocratico del conte Alfieri) si sia venuta formando, concretando, variamente esprimendo l'attività letteraria dell'astigiano. Il quale, tuttavia, resta uomo del Settecento, incomprensivo, nel suo misogallismo, e della Rivoluzione e dell'egemonia bonapartesca: un limite storico all'umanità della persona, che coincide col limite poetico dell'Alfieri, nel mentre il C. ne commisura la posizione quasi di arbitro fra due secoli, paragonabile in ciò all'aborrito Napoleone, e di mediatore d'insegnamenti e di ammonimenti destinati a fruttare per l'educazione etico-politica dei nuovi Italiani. Il C., perciò, omette ogni critica formale o di "genere"; se l'Alfieri abbia crato la tragedia italiana e quale fosse e donde si origmasse, e altre cose non pertinenti, in cui si era fin allora trastullata la maggior parte dei critici, quando la critica alfieriana non s'identificasse col "patriottismo" e la propaganda politica risorgimentale; ma implicitamente rivendica il carattere "europeo" dell'astigiano, e la necessità, quindi, per la nuova letteratura nostra, di essere una letteratura di "popolo" e di adeguarsi all'Europa.
Stupisce pertanto (ma non stupisce chi rammenti l'efficacia magisteriale del C. su amici più giovani, come il Montanelli, e il consenso che non solo Capponi, Vieusseux o Niccolini gli dimostravano, ma universitari quali Gaetano Giorgini e il "provveditore" monsignor Giulio Boninsegni) che, con sovrano motuproprio dell'8 nov. 1841, Leopoldo II, scartati successivamente, per opposizione "laicistica" il Rosmini, per l'antigesuitismo del pensatore il Gioberti, perché intinto di hegelismo ereticale il p. Domenico Mazzoni, nominasse il C. alla "cattedra di storia della filosofia nuovamente istituita nella università pisana" (Guasti, p. 342). E da Pisa il C. non si mosse più, benché proseguisse carteggio e spirituale commercio con gli amici fiorentini e successivamente collaborasse all'Archiviostorico e alla Crusca, di cui fu eletto corrispondente nel '59.
Innumerevoli le testimonianze (Montanelli, G. B. Giorgini, Filippo Gualterio, Costanza Arconati, Alessandro D'Ancona, ecc.) degli entusiasmi, invano deprecati dal Capponi e invano oppugnati dalle autorità accademiche e di polizia, che il C. suscitò nell'università e, in città con le sue lezioni, frequentate anche da stranieri e da residenti in luoghi limitrofi. Insegnamento non tecnico né certo critico-filologico, benché il C. sapesse come si doveva scrivere la storia della filosofia, e bandisse la metodica e i libri del padre Bonafede, mentre, col tramite del Morelli, s'informava in Germania su quanto, dopo Schleiermacher, si fosse scritto su Eraclito, era in contatto con Schelling, Gioberti e Cousin, né disdegnava persino (in questo più accorto del Capponi) il temuto ed universalmente avversato Renan.
Patriota e incline a teorie di "primato" anche prima di leggere il trattato rivoluzionario del Gioberti, preludendo alla sua prolusione per l'anno 1844 Del platonismo in Italia (Pisa 1844),diceva: "bisogna pur confessarlo a nostra vergogna: i tedeschi sovrastano in queste, come in altre parti dello scibile a tutte le nazioni, e sono diventati anche i nostri maestri". E in una successiva prolusione (Alla storia della filosofia italiana, Pisa 1846), nell'annunziare con verità "che noi perveniamo a un'epoca nuova del mondo", "all'Italia scossa, ringiovenita, meglio consapevole di sé, e dai brevi successi e dalle sventure ugualmente ammaestrata a recuperarsi", si riteneva degno di parlar "schietto e franco come al mio ufficio storico e alla mia indole si conviene", perché "italiano di animo e di principii, e tenero delle patrie glorie e ragioni, ma non avverso ad alcuno o solamente ai codardi, non ligio a veruna setta fra tutte le opinioni indipendente, non adulatore di plebi e non di tiranni, religioso indagatore del vero, e forse non indegno di pronunziarlo". Ma, oltre la frequente retorica e l'astrattismo fumoso di parecchi suoi luoghi, il C. era un uomo assai più concreto e pratico che non paresse a troppi suoi critici, se di questi anni venne elaborando una dottrina della nazionalità che nulla ha di razzistico, e perciò non indegnamente si apparenta alla concezione del Mazzini e del Mancini; se la stessa "prelezione" pisana del '46termina con un'infiammata, e niente affatto "satanica", ipotiposi del "cavallo creato dall'ingegno al carro dell'umanità che si avanza", "organo dell'Eterno", in quanto, rinnovando storicamente, col miracolo del vapore, i miracoli quattrocenteschi della stampa e di Colombo, simboleggia "la nuova espansione del pensiero immenso che prorompe, si allarga, si muta, si comunica, e il nuovo reggimento delle forze pubbliche, e la nuova libertà tra mansueta e terribile sotto l'impero della Ragione" (ibid., pp. 7, 19, 7-8, 30-31).
Non sorprende, perciò, che il C. subito divenisse un entusiasta di Pio IX e s'impegnasse, col Montanelli, con G.B. Giorgini, col Matteucci e altri, nella redazione del settimanale, poi trisettimanale, pisano, L'Italia, ch'ebbe ispiratore e collaboratore il Gioberti. Accolse con orgoglio e fiducia le riforme, accettò di far parte della Consulta e del Senato, ma nella più celebre ed infiammata delle sue lezioni (Sul Risorgimento italiano, Pisa 1848), letta "nell'Aula dell'Università di Pisa il dì 15 marzo 1848", e debitamente dedicata "A Vincenzo Gioberti" fieramente affermava, contro la dottrina straniera delle chartes octroyées: "Noi riceveremo le nostre costituzioni da Ferdinando, da Carlo Alberto, da Leopoldo, e la ricevemmo da Pio, non come un loro dono, ma come l'adempimento di un loro dovere: le ricevemmo non dall'autorità che abbia in essi originariamente la sede, ma da un'autorità anteriore ad ogni loro potere, superiore ad ogni loro prerogativa, fondatrice eterna del vero ordine pubblico, e della quale essi sono i primi rappresentanti. Questa autorità è quel diritto sacro, in nome del quale i popoli furono condizionati a chiedere, e giustamente chiesero le loro franchigie politiche... Il potere sovrano non è più confuso con la persona che ne è il simbolo vivo ed è ordinata ad esercitarlo: la nuova e vera base del principio dinastico è il consentimento dei popoli". Coerentemente, perciò, in quel discorso medesimo rivendicava la dissoluzione del potere temporale dei papi,e auspicava: "sul fondamento della nazionalità, e dell'indipendenza e fraternità de' popoli sorgerà quel sacro e vero diritto pubblico europeo, che fino ad ora è stato impedito dall'arbitrio dei forti e dalle coperte mene della diplomazia". Ricordava altresì: "fino dal 1834, in un libretto stampato a Lugano parlai di Stati uniti d'Italia, mentre allora gli altri risguardavano ad altro segno" (ibid., pp. 12, 15, 16). Analogamente in due ottave indirizzate il 19 giugno al Gioberti, edite l'indomani da L'Italia e ristampate da G. Gentile (Albori, II, p. 96), il C. salutava la nuova Italia combattente "varia ed unita", pur sostenendo, altrimenti dalla maggior parte de' suoi collaboratori e conterranei, il fusionismo carloalbertino.
Anche dopo i rovesci militari e l'armistizio Salasco, restò fermo sulle sue posizioni di moderato federalista e monarchico, persuaso, come Gino Capponi, che la politica democratico-repubblicana e la guerra di popolo, così come erano propugnate in Toscana dal Montanelli e dal Guerrazzi, avrebbero aggravato i dissidi all'interno dei singoli Stati italiani e affrettato, col duplice spauracchio della repubblica e della rivoluzione, l'intervento straniero. Perciò, al prezzo dolorosissimo della rottura col Montanelli, favorì la restaurazione lorenese contro le mene dei "livornesi" e partecipò attivamente alle operazioni in tal senso della Giunta provvisoria, la quale fallì, certamente, il suo scopo immediato ch'era di evitare l'intervento austriaco e di salvare la costituzione, ma distaccò per conseguenza diretta dal partito dei granduchisti l'intelligentsia moderata e quindi permise il superamento del "separatismo" toscano nella pacifica rivoluzione "unitaria" del 27 apr. '59.
Il C. si vide tolta la cattedra dalla reazione, pur conservando lo stipendio universitario in virtù del nuovo suo incarico, puramente fittizio e onorifico, d'ispettore delle biblioteche. Non tacque la propria opposizione, la sua fedeltà agli allievi del battaglione toscano caduti a Curtatone, da lui celebrati nelle strofe eloquenti dell'ode saffica Per il 29 maggio 1851 (in Vita, pp. 363-366). Poche settimane prima aveva indirizzato a Robinia Young, l'inglese consorte del Matteucci e valorosa traduttrice del libro di Emilio Dandolo, il poemetto I volontari lombardi (in Vita, pp. 341-362), che, in perfetta consonanza di sentire con Gino Capponi, ribadiva il coraggio di ieri e le attese del domani, pur tra i confessati errori dell'epopea quarantottesca.
Nell'attesa tornò agli studi. Riprese il manoscritto del '46 e terminò - traendo auspici "da un sepolcro di Superga", dond'"esce un lume di speranze sacro ed inestinguibile" - il Plutarco, scrittura mirabile e rara, perché remota parimenti dal "plutarchismo" retorico-paradigmatico e dall'antiplutarchismo dei filologi fontanieri, dimentichi o indifferenti a Plutarco uomo, testimone, difensore ed interprete d'una civiltà e d'una patria nei confronti del livellamento imperiale romano, depositario e trasmettitore di valori essenziali all'umanità (mentre i virieruditissimi unicamente si preoccupavano di derivare da "quel cretino di Plutarco" materiale, disgraziatamente riplasmato da uno scrittore di genio, per le proprie memorie dottamente illeggibili).
Il non partecipare né del "plutarchismo" che ormai tramontava in Europa, né dell'antiplutarchismo, che per un secolo ha poi imperversato, nascondendo la testimonianza e la presenza del filosofo di Cheronea nella storia della Grecia da Nerone a Traiano, al suo risorgimento potenzialmente antiromano nel II secolo d. C., spiega perché lo scritto del C. rimanesse quasi ignorato, certo senz'efficacia e senza eco fin quasi ai giorni nostri: e solo consolasse la vecchiezza dei suoi più vicini, come il Capponi, il Lotti, e altri pochi. Non passarono, invece, inosservati, anche per la varia celebrità degli autori da lui recensiti, i saggi che sull'Archiviostorico italiano (rispettivamente: App., IX [1853], pp. 539-556; n.s., II [1855], pt. 2, pp. 119-146; III [1856], pt. 2, pp. 91-130) il C. dedicò all'Averroès di Renan e al Saint-Anselme di Charles de Rémusat, tanto più che nel ricostruire il sistema dualistico-spiritualistico di s. Anselmo il C. intese di dar forse l'ultima mano al "proprio" sistema. Scriveva, infatti: "risolvendo in forma splendida e nuova il problema della filosofia cristiana, nel secolo undecimo poneva le fondamenta della metafisica moderna, preparava il Cartesio, escludeva i temperamenti del Leibniz, rispondeva anticipatamente, e quanto allora si potesse, al Kant, era migliore dell'Hegel, e mostrava di appartenere alla scuola italica". E concludeva (quasi attribuendo al santo i propositi d'un neoguelfo del '48): "Anselmo dalle intime necessità, nelle quali trovava la congiunzione indissolubile tra la ragione e la fede, doveva poter dedurre una sua dottrina, la quale distinguesse gli officii così della Chiesa, come dello Stato, e ne fermasse scientificamente la necessaria concordia" (Arch. stor. ital., n. s., III [1856], pp. 104-105, 130).
Il '59, quindi, non lo trovò né impreparato né incerto o nostalgico. Gradì la nomina a senatore e le onorificenze offertegli dal nuovo Stato italiano, quand'anche ovviamente si dolesse dell'immediato pensionamento, pur addolcito dalla carica (fino al 1865) di rettore magnifico dell'università pisana: e questo gli permise di aver parte diretta e autorevole nelle cerimonie che contrassegnarono il terzo centenario della nascita di Galileo e il sesto centenario dantesco.
Dei due discorsi, entrambi a stampa (il secondo nel volume miscellaneo Dante e il suo secolo, Firenze 1865; il primo in opuscolo autonomo, Pisa 1864), è assai più significativo il discorso galileiano, dove il C. riprese la polemica anticartesiana ed antikantiana, perché la "conoscenza è iniziata dalla natura, il senso comune non è privo d'ogni valore scientifico, come fu reputato dal Kant, e la evidenza degli assiomi e di tutte le verità è da una verità cosmica che esclude ogni dubitazione dall'umano intelletto. Ma le testimonianze dei sensi debbono essere confermate dall'esperienza; e le dimostrazioni razionali venire direttamente dalle cose ed essere necessarie". Che poteva anche essere un contemperamento fra il dualismo platonico-italico e le nuove filosofie. Le quali già penetravano anche nella sua università; e ad opera di suoi discepoli o giovani amici.
È, infatti, miracolosa l'abilità di questo vecchio, ormai cieco e declinante in salute, nel serbare il rapporto umano con le nuove generazioni. Al pio Giovanni Lotti, che gli aveva raccomandato un oscuro e non conformistico normalista, il C. rispondeva, il 12 dic. 1855: "Ho veduto con piacere il giovine Carducci; ho udito de' suoi versi; lo presenterò alla Ferrucci, alla quale già ne ho parlato" (A. D'Ancona, Ricordi storici del Risorgimento italiano, Firenze 1914, p. 178, n. 1). Aiutò e promosse la carriera accademica del "savonaroliano" Pasquale Villari, che poco dopo si sarebbe dichiarato positivista. E nel '64gli scriveva il Carducci, col rispetto e la gratitudine del discepolo, per raccomandargli G. Chiarini aspirante a un posto nell'amministrazione universitaria pisana (Lettere, IV, Bologna 1941, pp. 77-78):il quale Carducci dovette quasi totalmente agli scritti "greci" del C. le sue conoscenze in materia, almeno ne' suoi scritti giovanili (salvo a risalire poi dal C. a C.O. Müller, quando la Letteratura greca di quest'ultimo, che il C. sembra conoscesse direttamente, fu volgarizzata da Giuseppe Müller e da Eugenio Ferrai). Potevano i giovani, o alcuni giovani, considerarlo un "superato", massime quando entrò alla Normale la nuova filologia con Vitelli e D'Ovidio, col Piccolomini e col Puntoni; potevano sorriderne o riderne anche il D'Ancona e il Barboni; i migliori non gli negarono mai né riconoscenza né pietas.
Il C. morì a Pisa il 6genn. 1880.
Fonti e Bibl.: Le carte del C., in ispecie il ricchissimo carteggio, si conservano pressoché tutte nell'Arch. di Stato di Pisa. Per un primo ragguaglio, relativo più particolarmente al '48, vedi M. Luzzatto, in Boll. stor. pisano, s. 3, XVII (1948), pp. 248 ss.; B. Casini, ibid., pp. 259-314; E. Michel, Maestri e scolari dell'Università di Pisa negli avvenim. del 1848, ibid., pp. 59 ss., 89 ss. Fra le testimonianze più memorabili di maestri, amici e contemporanei, vedi N. Tommaseo, Dizionario estetico, Milano 1852-53, I, pp. 348-350; II, p. 59; A. Vannucci, Ricordidella vita e dei tempi di G. B. Niccolini, Firenze 1866, ad Indicem; A. De Gubernatis, Ricordibiogr., Firenze 1872, pp. 284-299; G. Capponi, Lettere, a cura di A. Carraresi, I, Firenze 1884, pp. 481 s.; II, ibid. 1886, pp. 299 s.; III, ibid. 1884, pp. 29 s.; IV, ibid. 1885, pp. 245 s.; C. Guasti, Opere, III,2, Prato 1896, pp. 334-350 (con elenco quasi completo degli scritti a stampa del C.); L. Barboni, Fra matti e savi,Livorno 1898, pp. 1 ss., 35 ss. (rifuso in Geni e capi amenidell'Ottocento, Firenze 1911, pp. 117 ss.); A. D'Ancona, Ricordi ed affetti, Milano 1908, pp. 207-226; N. Tommaseo-G. Capponi, Carteggio, a cura di I. Del Lungo-P. Prunas, Bologna 1911-1932, specie I-II, ad Indices; V.Monti, Epistolario, a cura di A. Bertoldi, V, Firenze 1930, pp. 124-128, 133 s.; V. Gioberti, Epistolario, a cura di G. Gentile-G. Balsamo Crivelli, specie V-VII, Firenze 1930-1934, ad Indices; G. Giusti, Epistolario, a cura di F. Martini, Firenze 1932, 1, pp. 423 ss.; II, pp. 462 ss.; G. D. Romagnosi, Lettere edite e ined.,a cura di S. Fermi, Milano 1935, pp. 296-298; F. Fiorentino, Ritratti stor. e saggi critici, a cura di G. Gentile, Firenze 1935, pp. 256-259; N. Tommaseo, Diario intimo, Torino 1946, ad Indicem; A. Manzoni, Lettere, a cura di C. Arieti, Milano 1970, II, p. 369; III, pp. 218, 285. Il lungo silenzio sul C. fu repentinamente e vittoriosamente interrotto durante la prima guerra mondiale dagli studi contemporanei del Croce sulla storiografia italiana e del Gentile sulla cultura toscana dell'Ottocento: B. Croce, Storia della storiografia ital. nelsecolo XIX, Bari 1947, I, pp. 264-267; G. Gentile, GinoCapponi e la cultura toscana nel sec. XIX, Firenze 1942, pp. 115-177 (qui, a p. 115 n. 1, ulteriore bibl.); Id., Albori della nuova Italia, II, Firenze 1969, pp. 85 ss. Restano sul piano cronachistico D. Biondi, Un dimenticato, S.C.,Pisa 1921 (dello stesso Biondi v. anche V. Gioberti e S.C., piccolo carteggio inedito, Pisa 1923); ed E. Michel, Maestri e scolari dell'Universitàdi Pisa, Firenze 1949, pp. 23 s., 81 ss.; mentre già aveva tentato un ritratto critico (sia pur negativo, in polemica col Gentile) E. Garin, S.C., in Boll. stor. pisano, s. 3, XVIII (1949), pp. 115-143. Sul C. "antichista", vedi P. Treves, Lo studio dell'antichità classica nell'Ottocento, Milano-Napoli 1962, pp. 775 ss. (con ampia bibl. alle pp. 787-789 e una scelta commentata dalla Letter. greca e dal Plutarco); M. Gigante, Settembrini e l'antico, Napoli 1977, pp. 73 ss. Sul C. "alfieriano", vedi M. Fubini, in Il Veltro, VII (1962), pp. 35-37, 43. Sul C. dantista, M. Di Nardo, Dante nel Risorgimento, in Studi suDante, VI,Milano 1941, pp. 242 s. Sul pedagogista, M. Mazzini, Un educatore del Risorgimento: S.C. e la sua attività, Cremona 1931.