GATTI, Silvestro
Nacque nella seconda metà del Duecento da Raniero, figlio del Raniero Gatti di Viterbo eponimo della famiglia, e da Alessandrina di Pietro degli Alessandri.
Discendente da una stirpe che sin dagli inizi del XIII secolo appare come una delle più ricche e potenti della Viterbo comunale, il G. ne ereditò la tradizione di egemonia cittadina che, tuttavia, all'epoca in cui egli fu attivo (i primi decenni del Trecento), era destinata a essere messa in crisi dai mutati equilibri tra le forze politiche della provincia; dopo il trasferimento della sede papale ad Avignone, infatti, il Patrimonio di S. Pietro in Tuscia divenne scenario di violenti scontri causati dai tentativi espansionistici di Roma e dei maggiori Comuni della provincia, ai quali si aggiunse la politica di aggressione portata avanti dalla famiglia dei di Vico, sostenitrice della parte imperiale, per creare un solido ed esteso dominio territoriale.
Le prime testimonianze relative al G. non sono particolarmente significative: nel 1304 egli presenziò alla sottomissione di Cornossa a Viterbo e nel 1312 comparve nell'atto con il quale il padre Raniero impugnava il testamento di suo fratello Visconte a favore del convento di S. Maria in Gradi. Gli avvenimenti che lo avrebbero portato a svolgere un ruolo determinante nella vicende del Patrimonio durante gli anni Venti del XIV secolo presero l'avvio dalla ribellione organizzata nel 1315 dai Comuni e dai signori guelfi del Patrimonio contro il vicario del rettore provinciale, Bernardo di Coucy, apertamente favorevole alle forze ghibelline e ai di Vico. Secondo i cronisti orvietani il G. avrebbe combattuto al fianco dello schieramento ghibellino in difesa di Bernardo, assediato dalle truppe guelfe dentro Montefiascone, rendendosi protagonista di un episodio che gli attirò l'odio della famiglia orvietana dei Montemarte; costoro, infatti, lo ritennero responsabile della morte di Francesco di Farolfo, ucciso da Neri di Baschi mentre era portato via dal G. sul suo cavallo: per vendicare questa morte, i Montemarte nel 1324 uccisero un figlio del G., Giovanni, mentre si trovava in Orvieto.
In quell'inizio di secolo la provincia era ormai sfuggita al controllo della Chiesa, ma con l'elezione nel 1316 del nuovo pontefice Giovanni XXII la politica papale nei confronti dei territori italiani conobbe una svolta significativa; nel 1317 Bernardo di Coucy fu allontanato e sostituito dal rettore Guglielmo Costa, il quale organizzò subito la riscossa contro i di Vico e le altre forze ghibelline. È probabile che fosse concordata con il Costa l'azione armata guidata dal G., il quale nel 1319 tolse Viterbo ai di Vico, che la dominavano dal 1312, e assunse la carica di defensor populi.
Su questo episodio, del quale le cronache viterbesi tacciono, siamo informati dalle deposizioni del processo, tenutosi nel 1357, per il possesso dei due castelli di Cornienta Nuova e Cornienta Vecchia; secondo il racconto dei testi il G. avanzò con un gruppo di uomini armati ed entrò nella città per la porta detta Capo la piaggia, sotto la chiesa di S. Francesco, gridando "vivat Sylvester" e "moriatur prefectus". Le deposizioni non concordano sull'anno nel quale ciò avvenne, ma lo storico viterbese G. Signorelli colloca l'episodio nel 1319, tenendo conto della dichiarazione di alcuni testimoni, secondo cui il regime del G. durò dieci anni, sino alla sua morte nel 1329. A conferma della sua ipotesi Signorelli (1907) cita sia l'epigrafe del 1320 (che ricorda la costruzione della chiesa di S. Maria delle Farine a opera del G. qualificandolo come defensor), sia la relazione sullo stato della provincia redatta tra il settembre 1319 e il giugno 1320 dal vicario del rettore del Patrimonio, Guitto (vescovo di Orvieto), nella quale si fa riferimento alla già avvenuta assunzione della carica di rector et defensor populi da parte dello stesso G. (Antonelli, 1895, p. 448).
L'ufficio del defensor era nato in seguito alle trasformazioni dell'ordinamento municipale nel 1291, sotto la pressione della parte popolare: dopo la cacciata dei nobili dalle cariche comunali, la guida della vita cittadina era stata assunta da una nuova magistratura, gli Otto di popolo, alla quale si era affiancato successivamente il rector et defensor populi. Il primo rector ricordato nella documentazione fu, nel 1306, un cugino del padre del G., Pietro di Rolando Gatti detto Frate Guercio, il quale ricoprì la carica almeno fino al 1310, mentre dal 1312 - quando Enrico VII arrivò a Viterbo - il defensorato passò a un esponente della famiglia di Vico, Bonifacio figlio di Manfredi. Guitto nella relazione a Giovanni XXII faceva presente la necessità di abolire sia il magistrato degli Otto di popolo, sia l'ufficio del difensore, giudicando questo fortemente lesivo dei diritti della Chiesa in quanto non solo svuotava di ogni potere il podestà da questa nominato, ma assumeva i caratteri di una vera e propria signoria assoluta ("est quasi totaliter dominus") dal momento che nulla poteva essere deciso senza di lui; aggiungeva inoltre che il G., il quale occupava in quel momento la carica, sosteneva di esservi stato confermato dal rettore Guglielmo Costa: il che secondo Signorelli (1907, p. 340) sarebbe verosimile, dal momento che tra i due personaggi dovevano esservi buoni rapporti se il G. aveva dato a un suo figlio il nome di Guglielmo Costa.
La signoria del G. su Viterbo fu messa in crisi dalla nomina a rettore, nel 1320, proprio di quel Guitto che nella sua relazione aveva dimostrato una forte ostilità sia nei suoi confronti, sia verso la città di Viterbo (nemica di Orvieto); in seguito alle pressioni del rettore, il G. fu cacciato dalla città agli inizi del 1322 (il 6 febbraio Giovanni XXII scriveva ai Viterbesi rallegrandosi con loro per la riforma del governo: Reg. Vat., 111, c. 128r) e il Comune rinnovò il giuramento di fedeltà alla Chiesa. L'ostilità del Papato, o piuttosto del rettore Guitto, nei confronti dell'ufficio del defensor e delle altre magistrature popolari viterbesi non aveva comunque compromesso i buoni rapporti tra la famiglia Gatti e la Chiesa. Giovanni XXII continuò ad avere un atteggiamento di benevolenza nei confronti del G., si adoperò perché rientrasse in città e fosse ben accolto da Guitto, e prese lui e la sua famiglia sotto la sua protezione: sia perché il G. godeva dell'appoggio del vescovo di Viterbo, Angelo Tignosi, e di personaggi influenti quali Napoleone Orsini (come ipotizza Signorelli, 1907, p. 343), sia perché il Papato aveva bisogno dell'aiuto delle famiglie di antica tradizione guelfa come quella dei Gatti, trovandosi in un momento in cui le forze ecclesiastiche nella provincia arretravano sotto la pressione dei di Vico, sempre più minacciosi. Una volta tornato a Viterbo, però, il G. riprese i pieni poteri e l'ufficio di difensore cosicché nell'ottobre del 1322 il papa gli ordinava di rinunciare alla carica e sollecitava l'interesse del rettore, ma al tempo stesso affidava al vescovo la decisione circa l'opportunità di rendere esecutivi i provvedimenti: in definitiva, nulla fu fatto per impedire al G. di continuare a essere signore della città.
La consapevolezza di quanto fosse debole il potere papale lo incoraggiò a coltivare nuove ambizioni di dominio territoriale e a porsi, conseguentemente, nel campo avverso alle forze ecclesiastiche. Nel 1323 assalì le terre dei Farnese - fedeli alla causa guelfa - e, per avere una base sicura per i suoi piani di conquista territoriale, cominciò a ricostruire, nonostante i divieti papali, il castello di Cornossa (fra Montefiascone e Marta), già di sua proprietà; nell'agosto del 1325, insieme con Faziolo di Vico, assalì e saccheggiò Montegiove, scatenando in tal modo una lunga guerra tra Viterbo e Orvieto (a fianco della quale intervenne il rettore); nel 1327, quando Ludovico il Bavaro entrò nel Patrimonio, il G. aderì prontamente alla causa imperiale: Ludovico fu accolto festosamente a Viterbo il 2 genn. 1328 e nominò il G., che gli aveva consegnato le chiavi della città, vicario imperiale.
Giovanni Villani racconta in proposito una vicenda che non trova riscontro nelle fonti documentarie: il Bavaro, nel marzo 1327, venuto a sapere che il G. conservava grandi ricchezze, avrebbe spedito un drappello di suoi uomini, i quali, con il pretesto di una trattativa segreta per il passaggio di Viterbo al re Roberto, lo torturarono, lo depredarono di 30.000 fiorini d'oro e lo condussero prigioniero a Roma insieme con un figlio. Contro questa notizia sono stati avanzati dubbi fondati: dalle deposizioni dei testimoni nel processo delle due Corniente si apprende che il G. avrebbe conservato l'ufficio di defensor sino al momento della sua morte, avvenuta nel 1329, mentre negli archivi viterbesi si conserva un documento dello stesso anno nel quale il G. compare con il titolo di vicario imperiale (Signorelli, 1907, p. 345 n. 36, ipotizza che in realtà si sia trattato di un contributo straordinario imposto con la forza e per il quale la città dovette consegnare al Bavaro degli ostaggi).
Nel settembre 1328, dopo che l'imperatore si era allontanato dal Patrimonio per risalire verso Pisa, cominciò l'offensiva delle forze pontificie per riprendere il controllo di Viterbo. Un primo tentativo del cardinal legato Giovanni Gaetano Orsini fallì perché le sue truppe, una volta entrate in città (4 febbr. 1329), si sbandarono per darsi al saccheggio e furono pertanto messe in fuga dagli uomini del Gatti. La guerra continuò senza che si delineasse una svolta decisiva, finché non intervenne a risolverla Faziolo di Vico, che, desideroso di liberarsi dell'uomo che ostacolava le sue ambizioni di dominio, provocò all'interno di Viterbo una sollevazione contro il G.; questi, costretto ad abbandonare il suo palazzo, si nascose in una casa vicina, ma qui fu raggiunto e ucciso dallo stesso Faziolo il 10 sett. 1329.
I suoi figli (Giovanni e Fazio erano morti prima di lui, ma restavano Teodora, Rolando o Lando e Guglielmo Costa) e i loro discendenti vennero banditi dalla città e vi furono riammessi solo nella seconda metà del Trecento.
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