LEGA, Silvestro
Nacque l'8 dic. 1826 a Modigliana, cittadina della Romagna toscana, da Antonio e Giacoma Mancini, sposata in seconde nozze il 18 giugno 1820.
L'atto di battesimo registra come suo padrino Pietro Nediani, zio paterno della prima moglie di Antonio, Domenica (morta di parto nel 1812 dopo aver messo al mondo nove figli in dodici anni), e testimonia della continuità dei rapporti di Antonio con il nobile e facoltoso casato della prima consorte; fu tale imparentamento, del resto, a consentire alla famiglia Lega di essere annoverata - ancora nel 1818 - fra le più agiate e ragguardevoli della città, intestataria di diversi mulini e impegnata nell'agricoltura e nell'artigianato tessile (Matteucci, I, pp. 19-33).
Assai diversa l'estrazione sociale di Giacoma, già domestica in casa Lega, alle cui umili origini pare facesse riscontro una certa maturità intellettuale: "Mia madre era amantissima dell'istruzione e della buona educazione della propria famiglia. Fino dai primi anni fummo collocati sotto la tutela degli Scolopi", come ricorda lo stesso L. nella lettera del 2 maggio 1870 indirizzata a Diego Martelli, contenente "la tiritera del mio passato in arte", ovverosia note biografiche di massima relative al periodo che dall'infanzia arrivava fino alle prime affermazioni, richieste dall'amico critico in vista di un articolo che peraltro non vide la luce in quegli anni. La lettera, conservata nella Biblioteca Marucelliana di Firenze, è pubblicata in S. L., 2003, pp. 197-199 (tutte le citazioni non altrimenti indicate sono da intendersi estrapolazioni da questo testo).
Nessuna notizia si ha dei primi anni vissuti in seno alla famiglia, con due fratelli maggiori di lui di quattro e di cinque anni, e con la presenza di quelli, ormai in età giovanile, nati dal primo matrimonio del padre. Agli studi in collegio il L. si riferisce come a un'esperienza vissuta senza una piena adesione; ma è lui stesso a ricondurre a quegli anni il germe di quell'inclinazione spontanea che avrebbe dato un senso preciso al suo bisogno di affermazione: "Scarabocchiando sempre nei muri, o scartafacci, mi si dava a credere che io avessi genio p[er] la Pittura. Arrivai a un punto che ci credetti sul serio e costrinsi mio padre a strascinarmi a Firenze. Ottenni questo bel beneficio".
Non è da escludere che la decisione del L. di trasferirsi a Firenze a meno di diciassette anni, nel 1843, derivasse non solo dall'entusiasmo all'idea d'intraprendere la carriera di pittore in una capitale culturale, ma anche dal bisogno di sottrarsi a un ambiente familiare che cominciava a patire di progressive incertezze economiche. Il L. giunse a Firenze verosimilmente all'inizio della primavera del 1843, l'anno precedente a quello cosiddetto "della piena" con cui Adriano Cecioni, equivocando, collegherà l'arrivo dell'amico. Egli era ospite del fratellastro Giovanni, anche lui pittore, maggiore del L. di più di vent'anni e già da tempo dimorante a Firenze in una casa sul lungarno nel quartiere di S. Croce.
Nonostante la sua mediocrità di artista senza vocazione, Giovanni era riuscito a crearsi un certo spazio da "pittore ufficiale", inserendosi - con questa ambiziosa etichetta ma in realtà operando da copista dai maestri del passato - nella Nuova guida storico-artistica di Firenze, pubblicata nel 1845, insieme con personalità di maggior nome come Carlo Ademollo, Pietro Benvenuti, Giuseppe Bezzuoli, Tommaso Gazzarrini, Adolf von Stürler, Luigi Mussini e altri.
Il 30 maggio 1845 si registra l'iscrizione del L. all'Accademia di belle arti, dove seguì l'iter stabilito dall'ordinamento dato fin dal 1802 a quell'istituto da Pietro Benvenuti che lo diresse in età napoleonica e della cui prima classe di pittura era ancora titolare, insieme con Bezzuoli, quando il L. vi approdò. Sebbene affidato a maestri non di prim'ordine, come Benedetto Servolini e Gazzarrini, il L. avrebbe riconosciuto di aver acquisito dimestichezza con gli strumenti di lavoro, sottolineando il passaggio dal dilettantismo alla pratica di un mestiere ordinato da regole ben precise: "sebbene ragazzo capii subito, che dallo scarabocchiare sui muri a disegnare un profilo era molto differente". Compiuto tale passaggio, tuttavia, il L. non tardò a trovare inadeguata e mortificante la mera disciplina accademica; lasciò l'Accademia e, contemporaneamente, la casa del fratello con cui i rapporti non furono mai di intesa profonda.
Il conseguente ingresso nello studio di Mussini (Matteucci, I, pp. 35-54) va riferito al 1845 o forse anche al 1846, poco dopo il rientro dello stesso Mussini da Roma dove si era trattenuto quattro anni (1840-44) come pensionato dell'Accademia e dove aveva licenziato, come saggio di secondo anno, La musica sacra (1841: Firenze, Galleria dell'Accademia).
L'opera venne esposta a Firenze nello stesso anno e profondamente ammirata da quanti - come Pietro Estense Selvatico - sostenevano, contro i neoclassici e romantici, i diritti del purismo alla nazarena, nutrito dal recupero della pittura quattrocentesca e del primo Cinquecento, umbra in particolare, dal Perugino al Raffaello anteriore alla Disputa, e dal modello "ingriste" della Consegna delle chiavi (Montauban, Musée Ingres, 1817). Diritti, che tuttavia erano stati presto riconosciuti dalla cultura accademica e sostituiti, in una sorta di recuperata continuità, a quelli classicisti; l'Accademia, infatti, apparirà naturalmente più disponibile ad accettare le nuove idealità del purismo, "male minore" di fronte al pericolo rappresentato dalle eresie anticlassiche del romanticismo (Mazzocca, pp. 166 s.).
Non si sa, al di là degli imprecisi accenni agli anni anteriori al 1848, divisi fra la frequentazione dell'atelier di Mussini e quella della scuola del nudo, quale vita il L. conducesse a Firenze. Benché rari siano i riferimenti autobiografici all'attività politica, l'insistenza con cui Martelli allude alla sua figura di rivoluzionario ("nel 1848 era già un mazziniano fervente e un cospiratore conosciuto e cupo"), probabilmente radicata ai tempi di Modigliana e all'attività lì svolta dal prete mazziniano don Giovanni Verità, fa pensare che da questo punto di vista egli svolgesse un ruolo preciso (Ceccuti). Di fatto, allo scoppiare della guerra contro l'Austria nel 1848, il L., con Mussini e gli altri allievi di studio e come del resto avevano fatto o stavano per fare molti altri frequentatori dell'Accademia come Stefano Ussi, Alessandro Lanfredini e Serafino De Tivoli, si arruolò volontario.
L'esperienza del "generoso e poetico movimento del '48", naufragato "nei vortici sollevati dalle sette e dagli arruffapopoli audaci e ambiziosi" (così Mussini, cit. da Matteucci, I, p. 43 n. 37), fu per tutti gli artisti coinvolti un momento di distacco dalla pittura; ma il L., appena rientrato dalle campagne militari, riprese con forte assiduità l'impegno nel perfezionamento della ricerca purista. Partito per Parigi il suo maestro Mussini, egli si rivolse allora ad Antonio Ciseri, poco più anziano di lui. Giunto a Firenze nel 1833 e allievo di Bezzuoli in Accademia, Ciseri era la personalità che in quel momento meglio poteva rappresentare per il giovane L. una continuazione dell'insegnamento "rigorista" - benché non precisamente purista - di Mussini. Fu nel suo studio, frequentato almeno a partire dal 1849 (lettera del L. a Ciseri da Modigliana, 9 sett. 1849, riportata in E. Spalletti, Per Antonio Ciseri, in Annali della Scuola normale superiore di Pisa, classe di lettere e filosofia, s. 3, V [1975], p. 595) con entusiastica deferenza ("questo nuovo maestro m'inebriò"), che il L. imparò a osservare il vero con più semplicità e con un maggior senso della realtà, apprendendo non solo a esercitarsi in una tecnica disegnativa sicura e sciolta, ma anche a organizzare il quadro in tutte quelle componenti tramite le quali il soggetto assume la verità di una narrazione, talento dimostrato da Ciseri nelle opere di quegli anni come Giano Della Bella prende volontario esilio da Firenze, presentato nel 1849 alla mostra annuale dell'Accademia.
La collocazione del L. nel contesto fiorentino di questi anni, in cui andavano consolidandosi le premesse per le svolte stilistiche della metà del decennio successivo, viene chiarita da T. Signorini, il quale, nella sua storia sulla nascita del caffè Michelangelo narrata diciassette anni dopo, afferma che "un numero non indifferente di giovani si emancipò affatto da qualunque insegnamento accademico e preso a solo maestro la natura tal quale si mostra coi suoi così detti difetti, colle sue così dette inutilità, trivialità e anche indecenze, nuda insomma e libera da qualunque influenza e scuola, iniziarono fra noi quella lotta che per il volgere di 15 anni fu combattuta e che oggi si impone e si imporrà ogni giorno di più per la storia dei fatti che le daranno ragione" (Il caffè Michelangelo, in Gazzettino delle arti del disegno, I [1867], 19, pp. 150 s.). Ciò non significa che a questa data il L. non avesse in qualche modo già familiarizzato con alcuni esponenti del gruppo (lo stesso Signorini, Gaetano Bianchi, Odoardo Borrani, Felice e Serafino De Tivoli), ma la sua personalità viene allontanata da quel contesto di atteggiamenti libertari e goliardici, impropri per un artista totalmente immerso nella sua vocazione e impegnato a risolvere un'inquietudine creativa per la quale la generica libertà creativa invocata da molti suoi giovani colleghi rappresentava una rivendicazione ancora astratta e vaga, dunque inutile.
È a questo momento che risale la sua prima prova ufficiale, L'incredulità di s. Tommaso (Modigliana, ospedale civile), realizzata su insistenza di Ciseri e densa, dietro l'impaccio proprio di un exploit giovanile, di spunti rivelatori di una personalità artistica orientata alla concretezza e alla solidità formale. Di seguito il L. avrebbe realizzato un grande dipinto a olio, esposto alla mostra annuale dell'Accademia del 1851 e oggi scomparso, raffigurante La Velleda, personaggio tratto dai Martiri di R. de Chateaubriand, opera cui pure Mussini si ispirerà nell'Eudoro e Cimodoce del 1855 (Matteucci, I, p. 52). L'affermazione pubblica del L. arrivò però solo nel 1852 quando decise di partecipare al concorso triennale bandito dall'Accademia con David che placa col suono dell'arpa le smanie di Saul travagliato dallo spirito malo (Firenze, Accademia), opera fortemente "ingriste" in cui l'artista riassume tutta l'esperienza e la pratica maturata "sotto a particolari professori e maestri" e che meritò il primo premio soprattutto per la vivace qualità coloristica (Matteucci, I, pp. 55-73, e II, p. 18 n. 6). Il momento di popolarità derivatogli dal premio triennale fu senz'altro all'origine della ripresa dei contatti con i vecchi amici di Modigliana che, vedendo in lui una promessa per il prestigio della città e consapevoli del decadimento economico della sua famiglia, ottennero per il L. la concessione di una sovvenzione d'incoraggiamento per la prosecuzione della sua carriera.
Sono poche le ulteriori notizie che informino della vita del L. a Firenze nella prima metà degli anni Cinquanta e soprattutto delle sue frequentazioni in un momento in cui cominciava a comporsi nella cultura cittadina un mosaico di correlazioni tra giovani artisti, autoctoni e non, soprattutto Vincenzo Cabianca, Borrani, Signorini, Lorenzo Gelati, i due De Tivoli. Benché il possesso di uno studio proprio (ibid., I, p. 60 n. 17) testimoni che l'artista andava acquistando una sempre maggiore autonomia, il L. sembra essere ancora del tutto estraneo a quei fermenti, né esistono evidenti notizie che leghino in qualsiasi modo il nome dell'artista al "movimento della macchia", nato nel 1855 sull'onda delle suggestioni riportate a Firenze da Domenico Morelli, Saverio Altamura e Serafino De Tivoli, reduci dall'Esposizione di Parigi (ibid., p. 62 n. 23).
Di come il L. reagisse all'apparire delle prime opere "effettiste" del gruppo, è Signorini che - a posteriori - ci trasmette l'immagine più efficace, riconducendo la sua spontanea avversione al fenomeno all'intransigenza della personalità del L.: "la sua serietà non gli faceva ammettere gli scherzi di nessun genere, tanto che non fu possibile di portarlo quasi mai al nostro Caffè Michelangelo, in quell'agape fraterna di bohémiens […]; che là non voleva farci il buffone, come sempre ci rimproverava di farci noi ogni sera, colle nostre eterne burle e chiassate" (ibid., p. 64 n. 26).
Alla progressiva affermazione pubblica del cenacolo di artisti del caffè Michelangelo nei due anni successivi, che avrebbe portato alla partecipazione collettiva alla Promotrice del 1857 (cui parteciparono Serafino De Tivoli, Gelati, Vito D'Ancona, Borrani, Signorini, Giovanni Fattori, Cabianca), corrispose un periodo di crisi del L. che fra 1855 e 1857 si tenne a distanza dal disagio creativo che gli procurava il confronto irrisolto con i fermenti fiorentini: "Allora praticavo artisti che viaggiavano; vedevo in loro più idee nuove, di quelle che non avevo io. Mi pareva d'esser vecchio senza anni". Lontano pure dallo studio di Ciseri, avrebbe passato a Modigliana due anni di quello che sembrò essere un vero e proprio ritiro, durante il quale fece "molti ritratti" che "sebbene non primi mi aprirono la mente, mi fecero più sicuro delle idee nuove".
Di tutta la serie di ritratti plausibilmente riferibili a quest'arco di attività, si distingue il Ritratto del fratello Ettore fanciullo (collezione privata: Matteucci, II, p. 21 n. 11), prima opera in grado di trasmettere la misura delle doti eccezionali del L. pittore, quella maggiormente rappresentativa della sua giovinezza e rivelatrice di una particolare complessità di cultura e di una profonda meditazione formale.
A Modigliana, grazie all'appoggio di amici e nonostante il suo risaputo anticlericalismo, nel giugno del 1857 l'artista ottenne dalla Pia Opera della cattedrale la commissione per quattro lunette da collocare nel sacello della chiesa della Madonna del Cantone, a fianco del duomo, a sostituzione di antiche pitture illustranti i quattro flagelli (La peste, La carestia, Il terremoto, La guerra) dai quali, secondo la tradizione popolare, Modigliana era stata risparmiata grazie all'intercessione della Madonna (Matteucci, I, pp. 75-92, e II, pp. 24 s., nn. 15-16). Le prime due lunette, eseguite a Firenze, erano già praticamente compiute alla metà dell'anno successivo e benché ancora caratterizzate da un'intonazione romantico-purista memore di Mussini e prossima all'enfasi gestuale di Ciseri, testimoniano un ulteriore scatto nella faticosa conquista di un'indipendenza creativa.
Lo scoppio della seconda guerra d'indipendenza nell'aprile del 1859 coinvolse in maniera pressoché generalizzata la generazione di giovani artisti fiorentini, arruolatisi volontari fin dall'inizio di maggio sull'onda di impetuosi entusiasmi patriottici, e benché il nome del L. non compaia nelle liste dei volontari toscani, Signorini lo avrebbe annoverato insieme con quelli di Borrani e Raffaello Sernesi in un gruppo di artiglieri di prossimo arruolamento (Id., I, p. 77 n. 14). Nel clima a tratti di delusione, derivante dalle condizioni dell'armistizio sancite dal trattato di Villafranca, a tratti di euforia per la coscienza dell'aprirsi di nuove stagioni, dall'autunno 1859 - essendo tornati quasi tutti dalla guerra - ricominciarono a popolarsi le riunioni del caffè Michelangelo, dove la presenza del L. è ora testimoniata dal ricordo del giovane Nino Costa, appena giunto a Firenze. Un significativo cambiamento, conseguente all'individuazione di una strada personale che conducesse alle scioltezze del fare moderno e dunque a una ritrovata disinvoltura nel rapporto con i suoi giovani colleghi, si realizzò in quegli anni, come è testimoniato dallo stesso artista che lo associa alle prime esperienze di pittura all'aperto (ibid., p. 79 n. 24).
Testimonianza capitale di questa svolta sono i quattro quadri a soggetto militare realizzati fra il 1860 e il 1861 sull'onda del concorso bandito nel settembre 1859 nel Monitore toscano dal neoeletto primo ministro Bettino Ricasoli allo scopo di mobilitare le energie creative dei giovani pittori toscani (parteciparono fra gli altri Antonio Puccinelli, Fattori, Borrani, D'Ancona, Ademollo e Signorini) intorno a soggetti patriottici, fra cui - in particolare - episodi della guerra del 1859 (Matteucci, I, pp. 80 s., e II, pp. 32-35). Il primo dei quattro quadri, inviato a tale concorso, guadagnò al L. un premio in danaro che, inaugurando finalmente un periodo di relativa tranquillità economica, gli consentì l'insediamento in una stanza-studio in via S. Caterina, zona di residenza di molti pittori, fra cui Fattori e Banti. Ma è nei tre quadri successivi, il Ritorno di bersaglieri italiani da una ricognizione (Firenze, Palazzo Pitti) la perduta Ricognizione di cacciatori nelle Alpi, con la quale partecipò all'Esposizione di Brera nel dicembre del 1861 e, soprattutto, Un'imboscata di bersaglieri italiani in Lombardia (collezione privata), presentato all'esposizione annuale della Società promotrice fiorentina nel maggio 1861 e, quattro mesi dopo, "ammirato dai più" (Matteucci, I, p. 100 n. 24) alla grande Esposizione nazionale italiana di Firenze, che l'artista manifesta il raggiungimento di un vero equilibrio formale, il "distacco assoluto dalle diverse scuole avute"; ammise lui stesso, riferendosi all'Imboscata: "lì ero io; che cominciava a fare come sentiva, come voleva e come sapeva".
L'Esposizione nazionale del 1861, dove il gruppo dei macchiaioli partecipò compatto, aveva rappresentato per tutti uno stimolo a orientare la propria ricerca verso un genere di rappresentazione che s'imponesse come documento dei tempi, favorendo in ognuno lo spirito di ricerca (Bietoletti). Per il L., tuttavia, questo momento coincise con l'inizio della stagione di maggiore felicità creativa anche in base a ragioni di ordine personale; la sensazione di nuova vita che gli aveva procurato la scoperta della pittura all'aperto, nella contemplazione della grazia campestre, coincise con l'incontro - risalente ai primi anni in cui aveva cominciato ad accompagnare i suoi compagni nelle loro escursioni per dipingere dal vero nella zona fuori porta Croce, fra "gli orti e le case coloniche di quella campagna umile e modesta che fiancheggiava l'Arno, detta Pargentina" (citazione tratta dal Ricordo di S. L. di Signorini, 1896, e riportata in Matteucci, I, p. 95) o Piagentina - con la famiglia Batelli, già titolare di una importante casa editrice in Firenze fino agli anni Quaranta e, in seguito a dissesti finanziari, costretta a trasferirsi in quelle contrade suburbane. Entrato in contatto con loro grazie ai Cecchini (famiglia fiorentina già residente a Modigliana e tornata a Samprugnano dopo la morte del capofamiglia, alla cui primogenita Isolina l'artista impartiva lezioni di pittura), il L. da semplice conoscente divenne intimo della famiglia, composta, nel 1861, dal padre, Spirito, di cinquant'anni, dalla madre, Paolina Cerreti e da due figlie: Virginia di ventisei e Maria Delfina, di undici. Abitava con loro anche la madre di Spirito, Annunziata, ritratta più tardi dal L. nei due quadri La nonna e Gli occhiali della nonna (collezione privata: Dini, pp. 15-34). Il pittore ben presto si legò sentimentalmente a Virginia, che abitava con i genitori dopo una sfortunata esperienza matrimoniale con tale Giuseppe Puccinelli, sposato dieci anni prima e da cui viveva separata. Il loro legame, che successivamente - col trasferimento del L. presso casa Batelli - approdò alla vera e propria convivenza, fu accettato in modo ufficiale e definitivo da tutta la famiglia, dando nuova serenità e vigore creativo al pittore.
La consapevolezza della validità della propria svolta artistica e la sicurezza dei mezzi espressivi e tecnici raggiunti gli avrebbero consentito di dedicarsi alla ricerca in modo più libero, con l'abbandono dei quadri di soggetto militare nel cui ambito narrativo tradizionalmente strutturato avevano mosso i primi passi le sue indagini sul vero. Nel 1862, infatti, l'artista - che partecipò alla Promotrice genovese e alle esposizioni di Torino e Firenze - inviò alle rassegne ufficiali soltanto un'opera di tema militare, mentre tutte le altre (La toletta, Lavandaie presso Firenze, entrambe di ubicazione ignota; Rose di primavera, Tra i fiori nel giardino e Motivo di grano, tutte in collezione privata) rappresentano momenti della nuova esistenza di sereni affetti che egli stava vivendo.
Dal 1863, anno della morte della madre di Virginia, la cui pena venne allegoricamente ritratta dal L. nel dipinto Primo dolore esposto a Genova (conservato nella stessa città nel palazzo della Provincia: Matteucci, II, p. 48 n. 45), si fece più costante la presenza del L. a casa Batelli e più stretta divenne anche l'amicizia fra loro e i Cecchini, tutti sempre più spesso ritratti nei quadri del pittore di Modigliana (La villetta Batelli lungo l'Affrico in collezione privata, Ritratto di Virginia Batelli nella Civica galleria d'arte moderna di Milano, Il bindolo a Roma, presso il ministero della Pubblica Istruzione, L'educazione al lavoro in collezione privata: ibid., rispettivamente nn. 35, 46, 47, 51).
Contemporaneamente l'artista completava le altre due lunette per la Madonna del Cantone di Modigliana, con Il terremoto e La guerra (ibid., nn. 43 e 44), che mostrano notevoli differenze stilistiche con le due precedenti non solo a causa del tempo trascorso dall'esecuzione delle prime, ma soprattutto per i decisivi cambiamenti nelle convinzioni artistiche del Lega. Se nella prima le figure sono ancora l'elemento determinante della composizione e il paesaggio, pur affettuosamente descritto, ha valore di complemento scenografico, nella seconda il paesaggio diventa l'elemento dominante e sono sorprendenti le analogie nelle soluzioni prospettiche e compositive rispetto alla concezione spaziale di opere come La villetta Batelli lungo l'Affrico, presentata alla Promotrice fiorentina nello stesso anno, primo quadro in cui la fisionomia del L. interprete della campagna toscana si manifesta con pienezza di lirismo poetico.
Gli anni fra il 1864 e il 1867 furono di fervida attività, con la realizzazione di L'elemosina, La nonna, L'indovina (tutte in collezione privata), La cucitrice di ubicazione ignota (ibid., nn. 57, 74 79, 88), oltre che di vari bozzetti e studi di paese, tutti ambientati in vari angoli della villetta Batelli o nelle immediate adiacenze, nel 1864; della prima versione delle Due bambine che fanno le signore (collezione privata) e di La lettrice (Bari, Pinacoteca provinciale), Gli sposi novelli, La curiosità, entrambi in collezione privata (ibid., nn. 85, 90, 91, 92). È fra il 1867 e il 1868, però, che l'artista tocca l'acme del suo vigore creativo con i capolavori assoluti rappresentati da Il canto dello stornello (1867), Firenze, Palazzo Pitti; La visita (1868), Roma, Galleria nazionale d'arte moderna; Il pergolato (1868), Firenze, Palazzo Pitti (ibid., nn. 94, 100, 104; si veda anche Mazzocca - Sisi, nn. 74 e 75).
Testimoni diretti di questa grande stagione del L., Signorini e Martelli ne hanno scritto pagine bellissime e imprescindibili al fine della conoscenza di questo straordinario momento creativo: "Fedele al suo programma di produrre un'arte dove la sincerità d'interpretazione del vero reale, dovesse, senza plagio preraffaellista, ritornare ai nostri quattrocentisti e continuare la sana tradizione, non più col sentimento divino di quel tempo, ma col sentimento umano dell'epoca nostra, dipinse il suo quadro più grande, Il canto dello stornello" (citazione tratta ancora dal Ricordo di Signorini e riportata in S. L., 2003, p. 19).
Il carattere peculiare dei capolavori realizzati in questi anni pare risiedere nella totale interiorizzazione delle immagini della realtà domestica e della natura rurale in cui l'artista si trovò immerso, attraverso un'unità d'ispirazione che conferisce alla sua opera la continuità melodica di uno stesso canto elegiaco (ibid., p. 20). Tale unità, d'altronde, si dissolse di lì a poco, quando circostanze tragiche avrebbero devastato l'incanto domestico della vita del L.: la morte del fratello Dante, la decimazione delle donne di casa Batelli causata dalla tisi e conclusasi con la morte dell'amata Virginia, nel giugno del 1870. L'artista lasciò casa Batelli per un nuovo periodo di ritiro a Modigliana, con brevi ritorni a Firenze; ma né la serie di buone vendite realizzate (fra cui La visita, al mercante Luigi Pisani), né la consacrazione ufficiale con la medaglia d'argento ottenuta all'Esposizione nazionale di Parma del 1870 (ripresentando, fra altre opere, Le bambine che fanno le signore, poi replicato con piccole varianti nel 1872), servirono a risollevarlo dalla profonda prostrazione succeduta alla morte di Virginia. Ma la stagione di Piagentina era esaurita oltre che per le vicende biografiche del L. anche e ancor prima per le sue intrinseche ragioni poetiche, assediate dai mutamenti culturali in corso e dal dilagare dei principî del naturalismo francese, cui non solo le nuove generazioni di artisti ma anche stretti sodali del L. (come Signorini, autore di dure, benché affettuose, sferzate critiche alla maniera del L. e ancor più a quella di Borrani della fine degli anni Sessanta) si rivelarono subito sensibili. Il L. tentò di accogliere le critiche di Signorini, orientandosi su soluzioni formali più libere e dirette, ma fino al 1878, nel periodo noto come "intermezzo verista", furono per lui anni di scarsa produttività in cui riproposizioni di soggetti piagentiniani vennero intervallate da lavori fortemente innovativi, come Gli ultimi momenti di Giuseppe Mazzini del 1873 (Providence, RI, Rhode Island School of Design Museum), opera nella quale nuovi orizzonti formali si fondono con antichi sentimenti di patriottismo idealista e repubblicano, definita da Martelli "una delle più viventi pagine e delle più commoventi della pittura italiana" (I macchiaioli…, n. 108). Si introduce in questi anni nella pittura del L. il soggetto tipologico della contadina, rappresentante di quel ceto rurale dal quale l'artista fu sempre più attratto negli ultimi anni della sua vita. Questo difficile momento, registrato da Martelli che "lo trovò un giorno così abbattuto di spirito, così stremato di forze, da tirarli fuori la confessione malinconica che stava pensando seriamente al suicidio" (in S. L., 2003, p. 24), era del resto aggravato dall'insorgere di una grave malattia agli occhi che sempre di più gli avrebbe impedito di dipingere, benché essa - come avrebbe detto Martelli più tardi, riferendosi a un momento di ritrovata felicità creativa - "non gli offende menomamente la visione delle masse, né lo splendore del colore" (ibid., p. 30).
Con il 1878, anno in cui assistette con interesse all'esposizione dei quadri di Camille Pissarro che Martelli aveva inviato da Parigi per far conoscere alla società artistica fiorentina la poetica degli impressionisti, il L. cominciò a trovar la forza di voltare pagina, aiutato dalle premure di molti amici, in particolare Martelli e Matilde Gioli, impegnati affettuosamente affinché l'artista ritrovasse la serenità interiore per lavorare. Insieme con Fattori, Adolfo Tommasi, Signorini, Cecioni e altri espose nel 1879 nello studio Gioli di via Orti Oricellari, riallacciando contestualmente vecchie amicizie e stringendone di nuove, come quella con il giovane scultore e mecenate trevigiano Rinaldo Carnielo del quale eseguì, forse su commissione, uno splendido ritratto (Firenze, Museo Carnielo: Matteucci, II, n. 161; S. L., 2003, p. 24). Conobbe in questi anni lo svizzero Arnold Böcklin, di cui pure eseguì un ritratto (ubicazione ignota: Matteucci, II, p. 149), e prese parte nella primavera del 1880 all'Esposizione internazionale della Società Donatello, dove la parte più aggiornata dell'ambiente artistico fiorentino presentò i risultati dei primi tentativi di apertura al dibattito internazionale. Furono gli anni in cui, grazie a una ritrovata intimità con la famiglia Cecchini, l'artista venne introdotto nell'ambiente dei fratelli Tommasi (Adolfo, Angelo, Ludovico), proprietari della villa La Casaccia a Bellariva, luogo nel quale si circoscrisse l'ispirazione leghiana negli anni che vanno dal 1880 al 1886; la ricostruzione di un tessuto di rapporti affettivi nell'amenità della natura permise al L. di ritrovare la sintonia con il mondo circostante e nuove, feconde ispirazioni.
Sono di questo momento La lezione (Peschiera del Garda, municipio), Una madre (collezione privata), Il pittore Tommasi che dipinge in giardino e Ritratto di Eleonora Tommasi, entrambi in collezione privata (S. L., 2003, nn. 16, 17, 19), opere in cui Martelli fu il primo a vedere "la serena gaiezza degli impressionisti francesi"; e in effetti opere come Le linge di É. Manet, esposta nell'ambito dell'Esposizione della Società Donatello, dovettero incidere molto nell'immaginazione creativa del L., nel senso di una maggiore vivacità tonale e di una luminosità senza ombre (ibid., p. 29). Nel cogliere l'essenza di quel rinnovamento formale genericamente indicato come "impressionismo internazionale" il L. si costituì come una sorta di padre spirituale per la generazione dei giovani artisti toscani infervorati per le nuove tendenze artistiche, come i Tommasi, Niccolò Cannicci e Luigi Gioli.
Fu ancora grazie alla consuetudine con i Tommasi, proprietari di una casa a Crespina, che nel 1886 il L. si recò al Gabbro, sui monti livornesi, dove "ebbe la fortuna di conoscere il Conte Roselmini Odoardo che con sua signora abitava, quasi costantemente, la bella villa di Poggiopiano; e fu questa occasione che gli permise, negli ultimi anni di fermarsi a lungo in questo paese, bellissimo e forte" (Martelli). La speciale simpatia fra l'artista e la padrona di casa, Clementina Fiorini, vedova di Giovanni Bandini, donna energica e fattiva che provò fin da subito un'istintiva simpatia per la figura "randagia e brontolona" del romagnolo, rese sempre più frequenti i soggiorni dell'artista nella villa di Poggiopiano, da dove si spostava di tanto in tanto per Livorno o per Firenze, ma nella quale tornava sempre come a un rifugio, vivendo in quel luogo con la relativa serenità che l'età e le condizioni fisiche gli consentivano. La presenza di Martelli nella vicina Castiglioncello, la prossimità dei Gioli a Fauglia, le lunghe permanenze dei Tommasi a Crespina davano all'anziano maestro la sicurezza di non essere dimenticato e solo.
L'interesse del pittore, che in questi anni si dedicò soprattutto a ritrarre le donne gabbrigiane osservandone i volti in primo piano senza preconcetti morali o estetici, fu quasi esclusivamente rivolto all'antropologia dei tipi, al soggetto capace di sviluppare effetti cromatici originali, scegliendo una materia magra e asciutta quasi prossima a sfaldarsi che è stata giustamente accostata alla pittura di Antonio Mancini e di Francesco Paolo Michetti (Sisi). Si vedano i dipinti: Gabbrigiana in collezione privata; Pagliai al sole a Piacenza, Galleria d'arte moderna Ricci Oddi; Presso il Gabbro in collezione privata; Lo scialle bianco a Livorno, Bottega d'arte Enrico Angiolini; La scellerata in collezione privata; La fienaiola in collezione privata (S. L., 2003, nn. 34, 37, 38, 50, 54, 56).
Il L. morì il 21 sett. 1895 nell'ospedale fiorentino di S. Giovanni di Dio. "Chi è quest'oscuro? domanderanno" - così scrisse Martelli nel lungo necrologio dedicato all'amico nel Corriere italiano - "Egli è di quelli che vissero di pensiero, che al pensiero accoppiarono l'azione ed a questa congiunsero la coscienza intemerata e l'affetto costante; che vissero poveri e che morirono all'ospedale" (Matteucci, I, p. 386).
Fonti e Bibl.: D. Martelli, S. L., in La commedia umana, Milano 1885, p. 10; A. Cecioni Scritti e ricordi, Firenze 1905, pp. 345-348; P. Dini, S. L.: gli anni di Piagentina, Torino 1984, pp. 15-34; G. Matteucci, S. L.: l'opera completa, I-II, Firenze 1987 (con bibl.); F. Mazzocca, Arte e rivoluzione. Nuove frontiere espressive negli anni Quaranta, in Milano. Dalla Rivoluzione alle Cinque giornate (catal.), a cura di F. Della Peruta - F. Mazzocca, Milano 1998, pp. 165-169; S. L.: da Bellariva al Gabbro (catal.), a cura di F. Dini, Firenze 2003, in partic. pp. 19 s., 24, 29 s., 197-199, con i contributi di C. Ceccuti, S. L. mazziniano del Risorgimento a pp. 43-49, e di C. Sisi, Terra promessa a pp. 37-42; S. Bietoletti, La pittura di paese. Una via alla modernità dell'arte, in La pittura di paesaggio in Italia. L'Ottocento, a cura di C. Sisi, Milano 2003, pp. 33-45; F. Mazzocca - C. Sisi, I macchiaioli prima dell'impressionismo (catal.), Venezia 2003, nn. 74, 75, 108; U. Thieme - F. Becker, Künstlerlexikon, XXII, p. 561.