PICCOLOMINI, Silvia
PICCOLOMINI, Silvia. – Nacque a Siena intorno al 1520, da Pier Francesco e Francesca Savelli.
Suo padre era figlio di Andrea, uno dei fratelli di papa Pio III e fu capitano del Popolo della Repubblica di Siena. La madre apparteneva a uno dei lignaggi della più antica nobiltà romana, imparentato con i Farnese e gli Orsini.
Figlia unica della coppia, Silvia era anche l’unica erede sia dei Piccolomini, all’epoca tra le famiglie più ricche di Siena con un patrimonio che comprendeva le signorie dell’isola del Giglio e di Castiglione della Pescaia, sia della dote materna, costituita dalla metà del palazzo Piccolomini, in piazza di Siena a Roma, vari feudi e possedimenti terrieri nello Stato pontificio, oltre che da un lussuoso corredo di biancheria, porcellane e argenti di pregevolissima fattura.
Trascorse l’infanzia e l’adolescenza tra Siena e Roma, circondata dal lusso e dalla raffinatezza assicuratole dalla famiglia di origine e fruendo di un’educazione che ebbe per molti aspetti dell’eccezionalità. Il palazzo Piccolomini di Siena era, infatti, un centro assai vivo delle pratiche culturali umanistiche. In esso si raccoglievano i libri e i manoscritti frutto dell’eredità dei due pontefici del casato, che per volontà di Pio III avrebbero dovuto costituire la Biblioteca Piccolomini della città, e vi circolavano numerosi studiosi e letterati. Accanto a loro Piccolomini coltivò gli studi letterari segnalandosi come autrice di rime di soggetto amoroso.
Il 18 ottobre 1538 il padre firmò il suo contratto matrimoniale con un esponente della linea napoletana della famiglia, ovverosia Innico Piccolomini d’Aragona, figlio del duca d’Amalfi Alfonso II, il quale allora si trovava a Siena con la carica di capitano generale delle armi della Repubblica e il cui patrimonio era già fortemente indebitato a causa delle spese militari cui si era esposto. Il matrimonio, effettivamente celebrato nel 1541, fu stipulato secondo una logica strettamente endogamica, perseguita per assicurare a entrambi i rami del casato non solo la continuità, ma anche il ricongiungimento di beni e titoli feudali accumulati nell’ultimo secolo dalla famiglia tra Roma, la Toscana e il Regno di Napoli. Dal matrimonio nacque, nel 1553, un’unica figlia, Costanza, che avrebbe ereditato, insieme con il titolo ducale, gli stati feudali di Amalfi e di Celano.
Nei primi anni di matrimonio Silvia visse tra le residenze che i Piccolomini d’Aragona avevano sparse tra Amalfi, Ischia, Celano e, dal 1559, l’isola di Nisida, acquistata dal suocero pochi anni prima per erigervi un castello che avrebbe dovuto emulare quello del clan aragonese di Ischia, e i cui lavori assorbirono una gran quantità delle risorse familiari. Proprio per far fronte al crescente indebitamento dei Piccolomini d’Aragona, oltre che per opportunità politiche, nel 1559 i due coniugi vendettero a Eleonora di Toledo, moglie del duca Cosimo I de’ Medici, i feudi di Castiglione della Pescaia e dell’isola del Giglio, portati in dote da Silvia. Con il denaro ricavato acquistarono parte dei diritti e dei possedimenti del ducato di Amalfi, che erano stati costretti precedentemente ad alienare. Quando, poi, nel 1566, il marito Innico morì a Roma, inseguito dai creditori e dalle pendenze con la giustizia dei tribunali napoletani, dove era accusato dell’omicidio di un suo servitore, Silvia cominciò a occuparsi personalmente della gestione del patrimonio familiare.
In qualità di tutrice della figlia Costanza seguì attivamente le varie controversie e pendenze giudiziarie che gravavano sulle dissestate finanze familiari, provvedendo al riordino dei conti e del bilancio patrimoniale. Per difendersi dalle pretese dei creditori e mettere in sicurezza almeno una parte di tali beni, chiuse il palazzo Massaino a Siena, alienò una parte dei propri beni ai nipoti senesi e si trasferì con la figlia prima a Tivoli e poi in Abruzzo, nello stato feudale di Celano. Contemporaneamente, cercò di scorporare i beni che erano confluiti nel patrimonio dei Piccolomini d’Aragona attraverso la sua dote, da quelli che le erano pervenute in dono dalla madre, dei quali poteva sperare di continuare a disporre liberamente. A tale scopo mise in moto tutta una serie di trame e relazioni epistolari. Recuperò testamenti, documenti notarili e quant’altro poté sembrarle utile a definire una strategia di salvaguardia e conservazione, seppure parziale, delle fortune ereditate attraverso papi e cardinali del ramo senese della famiglia. Fece inventariare quanto era ancora nella sua disponibilità nel palazzo di Siena per trasferirlo nel castello di Celano. Tra quegli oggetti riuscì a includere diversi strumenti musicali, bussole e altri strumenti scientifici, una piccola collezione di pietre dure, presepi della tradizione napoletana, argenteria, mobili e armi da caccia. La parte più ricca della collezione, quella di cui si occupò di più anche dal punto di vista affettivo, era costituita dalla sua biblioteca personale.
Come risulta dall’inventario fatto da lei appositamente redigere, la biblioteca della Piccolomini era costituita da 181 libri a stampa e 46 manoscritti, per un totale di 227 pezzi. Come pure si evince dall’inventario, essa era connotata da una forte componente di matrice classico-umanistica per l’ampia presenza di autori latini e greci in versione latina e di testi di umanisti, acquisiti probabilmente come eredità dei due pontefici di casa Piccolomini, che erano stati letterati e collezionisti di antichità. Accanto a questa vi era una sezione, frutto dell’iniziativa personale di Silvia e di sua madre, costituita da libri di autori contemporanei, aperta oltre che alla storia e alla filologia anche alla cosmografia e alla filosofia naturale, secondo il canone della complementarietà tra scienze e humanae litterae che pure fu proprio degli umanisti.
Quella biblioteca, che accompagnò la Piccolomini ovunque nel corso dei suoi molti trasferimenti, fu nella pratica della sua vita quotidiana un laboratorio di studio e operosa attività da affiancare alle altre forme del vivere aristocratico, come la caccia e la musica, oltre che al riordino dei conti e del bilancio familiare. Come molte altre dame del Rinascimento italiano, ella si ritagliò così margini di presenza attiva nell’organizzazione del mecenatismo culturale: commissionò e scambiò oggetti e manufatti artistici, si procurò strumenti e spartiti con cui accrescere le proprie competenze musicali e soprattutto, in continuità e contiguità con i comportamenti culturali della propria famiglia di origine, preservò dalla dispersione e accrebbe ulteriormente la prestigiosa raccolta di libri e manoscritti grazie alla quale coltivare i propri specifici interessi di studio e di ricerca.
Morì a Roma, nella tarda primavera del 1581.
Nel testamento redatto il 15 novembre 1571 e nei successivi codicilli del maggio 1581, in cui nominò erede universale la figlia Costanza e istituì numerosi lasciti pii per chiese di Roma, Napoli e Siena, la Piccolomini dispose che una parte della sua biblioteca fosse assegnata al convento di S. Silvestro di Roma. Il lascito comprendeva i manoscritti autografi del prozio Enea Silvio in suo possesso, che andarono poi a ricongiungersi con la biblioteca raccolta da Pio III nel palazzo Piccolomini di Roma, da dove nel Settecento, per altri rivoli, giunsero alla Biblioteca apostolica Vaticana, dove costituiscono oggi uno dei fondi più antichi e prestigiosi.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Napoli, Corporazioni religiose soppresse, S. Maria della Sapienza, 1121, cc. 334r-345v; 3196; 3206-3207: 3208 bis: L. Bergalli, Componimenti poetici delle più illustri rimatrici d’ogni secolo. Parte prima che contiene le Rimatrici antiche fino all’anno 1575, Venezia 1726, p. 268; G.M. Monti, Ancora sui Piccolomini di Amalfi. Un quadro di Raffaello e la biblioteca di papa Pio II, in Id., Dagli Aragonesi agli Austriaci. Studi di storia meridionale, Trani 1936, pp. 287-310; A. Strnad, Pio II e suo nipote Francesco Todeschini Piccolomini, in Enea Silvio Piccolomini, Atti del Convegno storico piccolominiano (Ancona, 9 maggio 1965), in Atti e memorie della Deputazione di storia patria per le Marche, IV (1966), 2, pp. 35-84; E. Novi Chavarria, Monache e gentildonne. Un labile confine. Poteri politici e identità religiose nei monasteri napoletani. Secoli XVI-XVII, Milano 2004, pp. 106-108; I. Puglia, I Piccolomini d’Aragona duchi d’Amalfi 1461-1610. Storia di un patrimonio immobiliare, Napoli 2005, pp. 78-81, 87 s., 110-114; E. Novi Chavarria, Sacro, pubblico e privato. Donne nei secoli XV-XVIII, Napoli 2009, pp. 167-185, 218-232.