d'AMICO, Silvio
Nacque a Roma il 3 febbr. 1887 da Fedele e Filomena Viola.
Il padre, originario di Torricella Peligna (Chieti), era stato chiamato a Roma dallo zio paterno Domenico, noto stuccatore e decoratore, che gli lasciò i suoi beni; la madre, invece, romana, proveniva da una famiglia di intellettuali più o meno liberaleggianti; cattolica osservante, diede una profonda educazione religiosa ai figli.
Il d'Amico. andrà così a scuola dai gesuiti: Arnaldo Frateili, suo compagno all'istituto "M. Massimo" di Roma, ricorda la sua critica partecipazione alle recite scolastiche (in A. Frateili, Dall'Aragno al Rosati, Milano 1964, pp. 269-73). Iscritto quindi all'università, il d'Amico si laureò in giurisprudenza, ma frequentò anche la facoltà di lettere e filosofia, spintovi sia dai suoi interessi artistici e teatrali sia dagli amici che contava in quell'ambiente. Nel 1911, anno in cui sposò Elsa Minù (dalla quale ebbe tre figli: Fedele, Marcello e Alessandro), venne assunto per concorso al ministero della Pubblica Istruzione dove lavorò per dodici anni, con una interruzione tra il 1915 e il 1917, quando partecipò volontario alla prima guerra mondiale.
In questi anni prese forma definitiva il suo impegno teatrale: dal 1914 collaborò al quotidiano romano L'Idea nazionale come vice del critico drammatico Domenico Oliva, al quale succedette, dopo la fine della guerra, come titolare della rubrica, assumendo anche la direzione della terza pagina del giornale.
L'inizio della sua attività come critico militante coincise col suo debutto come autore teatrale, che però, dopo la messa in scena, il 17 genn. 1913 al teatro Argentina, di un poema tragico in versi, scritto in collaborazione con Alessandro Rosso, Savonarola, non ebbe seguito, se si eccettua un testo di tutt'altra natura, tratto da laudi sacre del XIII e XIV secolo, Mistero della Natività, Passione e Resurrezione di Nostro Signore, la cui regia fu curata dalla Pavlova per le celebrazioni giottesche del 1937 a Padova. Esempio raro e filologico di drammaturgia religiosa, il lavoro fu poi riproposto da Orazio Costa nel 1965, a dieci anni dalla morte del d'Amico, al Piccolo di Milano, primo esem pio nel secondo dopoguerra di un teatro stabile come egli lo andava definendo da tempo. In quegli stessi anni uscirono an che i suoi due primi libri: Il teatro deifantocci, del 1920, e Maschere, del 1921, che certo lo aiutarono a ottenere la nomina di professore di storia del teatro alla scuola di recitazione presso l'Accademia di S. Cecilia di Roma nel 1923.
Già nel primo volume, che pure fu in seguito, sembra, ripudiato e che raccoglie saggi su autori drammatici italiani e stranieri del primo dopoguerra, c'è sin dal titolo un polemico rifiuto "dell'ormai stanca routine ottocentesca", come dirà poi e del suo teatro realista "borghese", sul quale polemizzò con Marco Praga, tra il novembre e il dicembre del 1921, con vari articoli. Più organici saranno gli scritti del suo libro più noto, Il tramonto del grande attore del 1929, che fece molto rumore.
Partendo più dal titolo che dal contenuto, molti vi videro un ideologico rifiuto del grande attore, mentre il d'Amico invece ne indagava solo i motivi di decadenza, traendone conclusioni per un rinnovamento del teatro, secondo esigenze che aveva percepito durante i suoi viaggi un po' in tutta Europa, legate a una moderna scelta e a una rispettosa interpretazione dei testi. La sua battaglia contro "i Marci Praga d'Italia", come li chiamava Adriano Tilgher, ravvisabile anche nell'interesse per un'anima inquieta e sensibile come H. Ibsen, cui nel 1928 aveva dedicato un saggio, trovò un punto di forza e quindi un alleato in L. Pirandello, che proprio allora, anche se tra molte polemiche, stava diventando la figura principale del nostro teatro e una delle più interessanti della moderna scena internazionale: "poeta tragico dell'ora europea", come il d'Amico stesso lo definì interessandosene con acume e preveggenza fin dai primissimi anni della sua attività critica. Attori che non considerino il testo solo un pretesto per esprimere se stessi e coinvolgere artificiosamente lo spettatore; autori nuovi sganciati dalle pastoie del provincialismo piccolo borghese; e poi una nuova figura che coordini e interpreti, magari con sapienza "francescana" come il suo amato Jacques Copeau, e che al contrario del vecchio direttore elabori una concezione organica dello spettacolo, un "regista", secondo una parola che lo stesso d'Amico propose su Scenario per la prima volta nel 1932: sono questi i punti principali, gli obiettivi della difficile battaglia che il critico combatté tutta la vita, anche eccessiva sino a definirla calvinista.
Perché questa sua visione dell'arte potesse realizzarsi, perché il testo tornasse a vivere e il grande attore a servirlo e non a servirsene (e a questa precoce scoperta della profanazione della parola sono legate tante pagine anche di memoria del d'Amico, da quelle sulla Famiglia dell'antiquario con E. Novelli contenute in Le finestre di piazza Navona, a quelle sul Cyrano con A. Maggi ne Il teatro non deve morire, dove è riferita un'esperienza che risale ai suoi quattordici anni, alla famosa stroncatura degli Spettri con E. Zacconi in Maschere, condotta senza mezzi termini: "L'attore ostentava di non aver capito assolutamente nulla", ponendo in primo piano la figura del figlio, Osvaldo, invece che quella della madre), per il d'Amico era necessaria innanzitutto un'adeguata preparazione di attori e registi, culturale e tecnica, da portarsi a termine in una scuola; sottrarre poi questi al nomadismo delle compagnie di giro, che ora qua e là non possono mai conoscere un momento di riflessione, di studio, creando dei teatri stabili delle strutture che necessitavano dell'aiuto dello Stato, avvertendo poi che l'interesse di questo per il teatro "non deve essere di natura politica, ma culturale", perché, come dice il titolo del libro da cui è tolta questa frase, Il teatro non deve morire.
Già il critico napoletano Edoardo Boutet aveva portato avanti alcune di queste idee alla fine dei secolo scorso, fondando poi nel 1905 con Ferruccio Garavaglia la Compagnia stabile romana che doveva realizzare il suo desiderio di un teatro nuovo, m'a che era durata solo tre anni: "In apparenza, fallì tutta la sua vita... Eppure Boutet non è stato uno sconfitto. Perché ha gettato un seme che non potrà andare disperso", scrisse il d'Amico nel necrologio del 1915, raccolto in uno dei suoi volumi più interessanti, Invito al teatro. Del resto anche l'amatissimo Copeau aveva patito insuccessi e sconfitte, ma aveva tentato esperienze sulle quali era nato il teatro francese moderno, anzi un po' di quel teatro europeo, per stare ai termini del pensiero del d'Amico, che al maestro del "Vieux Colombier" era arrivato attraverso la tanto stimata E. Duse.
I mille motivi polemici, nati dalla quotidiana analisi della realtà del teatro di prosa, non fini a se stessi, ma legati a una nuova concezione e alla convinzione della necessità di intervenire in modi precisi, non potevano restare lettera morta sulle pagine di giornali e libri e la situazione, che aveva fatto del Boutet un isolato e uno sconfitto sul piano pratico, era cambiata. Così il d'Amico arrivò a lavorare fattivamente per quell'istituzione che avrebbe dovuto formare attori e registi diversi, culturalmente e tecnicamente preparati: "ci vuole l'adozione (vedi i russi, vedi Copeau) d'una specie di regola monastica in cui i giovani diano, asceticamente, tutte le ore della propria esistenza all'arte".
Dopo aver studiato e visitato scuole italiane e straniere, le sue idee trovarono una sistematizzazione concreta nelle proposte per un rinnovamento del teatro e la nascita della Corporazione dello spettacolo, stese nel 193 1 e incluse nel vol. La crisi del teatro. L'attore - il cui stile, come per ogni artista, sia un fatto intimo e personale che "nasce dal di dentro", non meccanizzando un'interpretazione secondo formule predeterminate, che non recita come se parlasse in nome del verismo, né va all'eccesso opposto tutto estetizzando estremamente, l'attore che nel suo parto sarà giusto sia assistito da quell'"ostetrico", come lo definì Dancenko, che è il regista, "colui che dirige e intona una schiera di interpreti a trasportar la parola d'un autore, dalla vita ideale della pagina, a quella concreta della scena", servando il "verbo sovrano", che il d'Amico perorava con tanta fede -, comincerà a uscire così da quella Accademia nazionale d'arte dranunatica, la cui costituzione e struttura il d'Amico stesso formulerà nel 1935, quando la scuola venne costituita. Egli ne fu il primo presidente, dopo che dall'alto fu rifiutata la nomina di Pirandello, che il d'Amico stesso aveva proposto, e vi occupò allo stesso tempo la cattedra di storia del teatro.
Per aiutare i primi diplomati e difendere il ruolo del regista, che era certo la novità vista con più diffidenza, lo stesso d'Amico non esitò a mettersi a capo, per la stagione 1939-40, di un gruppo di suoi allievi, nell'ambiente battezzato Compagnia dell'Accademia, che permise a molti giovani di iniziare a lavorare e affermarsi.
L'Accademia non distolse comunque mai il d'Amico dal suo quotidiano contatto col teatro, che venne meno solo durante l'occupazione tedesca, quando, più che per un preciso impegno politico, per una incapacità di destreggiarsi e di sottomettere la propria libertà intellettuale a motivi opportunistici, fu costretto a nascondersi in casa di amici. a palazzo Lancellotti in piazza Navona, e fu anche imprigionato tra i "politici" nel sesto braccio di Regina Coeli. Luigi Squarzina ha ricordato come il d'Amico non solo permettesse, ma incoraggiasse in Accademia, anche negli anni tra il 1939 e il 1943, la satira politica di molti allievi, e che subito prima e subito dopo l'8 settembre vennero presentati come saggi una "sferzante parodia antifascista tratta dalla Beggar's Opera e Uomini e topi, portando la polemica sociale a toni fino allora inconcepibili sulle scene italiane". Nel 1945 il d'Amico pubblicò poi Il teatro non deve morire, in cui si analizzano anche realtà e storture della scena negli anni del fascismo e se ne indicano ancora una volta le vie per una rinascita, legata a quella del paese.
Per tutto il resto della vita il d'Amico non tralasciò mai il proprio mestiere di critico drammatico militante, per usare una espressione che gli si adatta particolarmente. quando L'Idea nazionale confluì nella Tribuna (1925), è su questa che egli continuò a lavorare, per passare poi, dal 1941 al 1943, al Giornale d'Italia. Nel 1945, dopo la Liberazione, riprese la propria attività e firmò le cronache drammatiche per altri dieci anni sul Tempo di Roma. Critica che esercitò allo stesso tempo su vari - periodici: dal 1923 al 1928 sulla Festa di Milano, dal 1934 al 1946 sulla Nuova Antologia, dal 1952 sull'Approdo e sull'Illustrazione italiana, mentre sempre nel 1945 fu pure titolare della rubrica, teatrale di Radio Roma.
Il suo fervore, intellettuale, mai sganciato da una volontà di realizzazione pratica, loi portò anche a fondare nel 1932,e a dirigere sino al 1936 insieme con N. De Pirro, la rivista Scenario, e a dirigere, dal 1937 al 1941 la Rivistq italiana del dramma (poi Rivista italiana del teatro), edita dalla Società italiana autori ed editori. Innumerevoli furono le sue collaborazioni occasionali, in Italia e all'estero, e i corsi e lezioni tenuti un, po' in tutto il mondo. Ricordiamo ancora che diresse la sezione teatro della Enciclopedia Italiana e collaborò alla Encyclopaedia Britannica; che diresse la collana di critica edita da Treves Il teatro del Novecento e quella di testi teatrali, Repertorio, per le edizioni Roma. Delegato italiano a vari congressi internazionali del teatro, fu anche segretario del Convegno Volta per il teatro, presieduto da Pirandello presso l'Accademia d'Italia nel 1934 e presidente del Congresso dell'Institut international du théâtre nel 1952 a Venezia.
Con il passare del tempo, il d'Amico sentì poi sempre più l'esigenza di dare una sistemazione critica e storica alle sue ricerche drammaturgiche. Oltre a scrivere un "sommario storico" della regia attraverso il tempo, intitolato Mettere in scena (1954),utile anche ai fini didattici, dopo aver inaugurato nel 1932 la collana da lui diretta sul Teatro del Novecento con un volume sul Teatro italiano, in cui nel panorama drammatico contemporaneo individuava quei nuovi caratteri che contribuivano a ridare originalità, qualità e autonomia al nostro teatro, il d'Amico iniziò a lavorare alla sua opera più importante, i quattro, volumi della Storia del teatro drammatico di tutto il mondo (1939-40).
Questa storia, aggiornata nel 1968 con una appendice firmata da Raul Radice e di cui esiste un'edizione ridotta a cura del figlio del d'Amico, Alessandro, quando apparve era la prima a non tener conto solo della letteratura drammatica, má a prestare attenzione alla "storia del dramma rappresentato, spessissimo tradotto, forse non meno spesso tradito, e tuttavia vivente in un suo modo particolarissimo appunto in grazia di un tale tradimento", come Pautore stesso precisava nella introduzione all'ultima edizione da lui curata, in polemica con "le nostre università, dove la, storia del dramma, è saltuariamente affidata ai maestri delle rispettive letterature". Implicita era in ciò anche l'intenzione anticrociana: "Vero è che l'estetica moderna, dal Croce al Pirandello dei Sei personaggi, nega la possibilità di artisti che interpretino altri artisti e dichiara che la cosiddetta interpretazione scenica è un'illusione.... Ma si tratti pure di un'illusione, d'un equivoco, di un gioco: è l'illusione di cui da ventiquattro secoli, il teatro drammatico vive. E il presente libro non ha altro scopo che esporre brevemente la storia di quest'equivoco". Un equivoco, se si vuole, che nasce dalla complessità della messinscena e dei vari elementi che concorrono alla vita del teatro e che il d'Amico non ha mai. inteso. in modo disgiunto. Eppure ha suscitato polemiche. -la sua difesa della parola, anzi del "verbo", per i termini di fede in cui venne espressa, non minori di quelle sorte un tempo per la difesa della regia o di quelle che seguirono i suoi attacchi all'attore mattatore. Così la grande storia del teatro universale del d'Amico nasce da un mondo nel suo complesso, che si scalda "al fiato del pubblico" e, nella sua incredibile ricchezza di riferimenti e citazioni sistematizzate, è ancora un termine essenziale d'ogni discorso sul teatro.
In una curiosità e apertura riconosciutegli anche da chi in molte cose aveva idee diverse, in una capacità di far interagire informazioni ed esperienze ricchissime è la.spinta che, dopo la Storia del teatro drammatico lo indurrà nel 1944 a stendere il piano per un'altra opera unica al mondo, quella Enciclopedia dello Spettacolo di cui il d'Amico vide uscire solo il primo volume e che fu terminata da coloro che aveva chiamato per aiutarlo a elaborarne criteri e struttura. L'enciclopedia era dedicata non solo al teatro drammatico, ma a tutte le forme di spettacolo di tutte le epoche e di tutti i paesi e di tutte le persone che ne furono protagoniste anche se con particolare attenzione all'Italia.
Se lo stesso d'Amico nel 1953 aveva dato alle stampe una piccola parte delle sue ultimo cronache drammatiche col titolo Palcoscenico del dopoguerra, soltanto nel 1963 e 1964 Laterza pubblicò, a cura di Ferdinando Palmieri e Alessandro D'Amico, una scelta più indicativa delle sue recensioni e scritti d'occasione che va dal 1914 al 1955.
Cattolico, osservante, il d'Amico, nei suoi scritti, specioe in quelli più storici e di sistemazione, non si lasciò guidare dalla fede nei suoi giudizi estetici, che pure della sua religiosità talvolta risentivano, per l'intensità con cui era capace di avvertire un discorso piuttosto di un altro. Le sue pagine più attente al valore specialmente morale del teatro moderno, pacate nell'esposizione di idee e documenti anche quando nascevano da spinte- polemiche, le raccolse nel volume Dramma sacro e profano. Ma il suo più esplicito impegno di cattolico lo si trova negli scritti non dedicati al teatro, spesso dimenticati, testimonianza di una fede sentita e sempre presente, a cominciare da Le strade che portano a Roma, edito nel 1924, che si apre con un capitolo di devozione verso il papa, a cui si era dimostrato fedele e obbediente sin dagli anni seguenti l'enciclica Pascendi e la condanna del movimento "modernista" alle cui riviste erano legati i suoi scritti letterari giovanili. Di eguale interesse sono i libri di viaggio, da Pellegrini di Terra Santa (1925) a Scoperta dell'America cattolica (1928); riflessioni nate da visite a luoghi sacri o da letture particolari sono invece raccolte nel 1932 sotto l'esemplare titolo di Certezze. La sua fede si fuse sempre con l'amore per la città eterna, come testimoniano gli scritti contenuti in Bocca della verità, riguardanti vari personaggi, dal Belli a Petrolini all'amato Trilussa. Il suo libro più interessante, al di là di quelli sul teatro, è però il romanzo Le finestre di piazza Navona, uscito postumo (Milano 1961).
La sua stesura risale agli anni della, guerra, quando il d'Amico concepì il progetto di una narrazione ciclica in quattro parti, il "ritratto di una famiglia" tra il 1898 e il 1939, attraverso cui comporre la storia di una generazione, la sua. Convivono così nelle pagine di invenzione di questo libro, definito "prologo" di un seguito che non ci fu, il cronista di un'epoca, di una Roma borghese che s'agita tra le nuove idee, liberali e una stretta osservanza cattolica, il memorialista di tradizione francese e l'attento osservatore culturale, ironico e curioso. Personaggio principale del romanzo, che sul finale si ammanta di mistero e acquista tinte drammatiche col suicidio del padre e la morte della madre, è la giovane Attilia, anima inquieta della famiglia Alessandri, vivace e sensibile, attraverso la quale ci giungono ricordi e giudizi dello stesso autore, politici, teatrali e letterari. Tra questi, uno particolarmente è interessante, quello sulla scoperta di Fogazzaro, cui queste pagine sembrano per certi versi tendere col loro sereno recupero di un tempo passato, in cui sono echi di tutto il nostro verismo minore, fino alle sue propaggini scapigliate, per esempio di un Faldella.
Lo spirito, la vitalità e l'impegno quotidiano del d'Amico, all'Accademia e come critico, non vennero mai meno, sino alla breve malattia che in pochi giorni lo condusse alla morte, avvenuta a Roma il 1° apr. 1955.
"Sembrava fossimo noi la sua giovinezza, e invece era lui la nostra", scriverà subito dopo Luigi Squarzina, mentre Vittorio Gassman, sapendo come il d'Amico tornasse tre o quattro volte a vedere uno stesso spettacolo, ogni volta realmente assistendovi, lo ricorderà "fedele a motivi e ideali che erano evidentemente le stesse native urgenze della sua vita spirituale".
Il giorno della sua morte tutti i teatri di Roma rimasero chiusi in segno di lutto, mentre a Torino, Milano e Bologna venne commemorato durante l'intervallo dello spettacolo. I suoi funerali furono celebrati a spese della presidenza del Consiglio dei ministri, del Comune di Roma, del quotidiano Il Tempo e dell'Accademia nazionale d'arte drammatica che venne intitolata al suo nome.
Opere: Il teatro dei fantocci (Firenze 1920), Maschere (Milano, 1921), Le strade che portano a Roma (Firenze 1924), Pellegrini in Terra Santa (Milano 1925), Ibsen (ibid. 1928), Scoperta dell'America cattolica (Firenze 1928), Tramonto del grande attore (Milano 1929; nuova ediz. a cura di A. Mancini, con prefazione di L. Squarzina, Firenze 1985), La crisi del teatro (Roma 1931), Certezze (Milano 1932), Il teatro italiano del '900 (ibid. 1932), Invito al teatro (Brescia 1935), Il teatro e lo Stato (Roma 1935), Storia del teatro drammatico (I-IV,Milano 1939-40), Documenti di una falsificazione (Roma 1941), Dramma sacro e profano (ibid. 1942), Bocca della verità (Brescia 1943), Il teatro drammatico italiano (in Questioni e correnti di storia letteraria, Milano 1949, pp. 901-54), Il teatro non deve morire (Roma 1945), Palcoscenico del dopoguerra (I-II, Torino 1953), La situazione spirituale del dramma contemporaneo (Roma 1953), Epoche del teatro italiano (Firenze 1954), Mettere in scorta (ibid. 1954), Rinascita dal capocomico al regista in cinquanta anni di teatro in Italia (Roma 1954), Rinascita del dramma sacro (a cura di A. Fiocco, San Miniato 1955), Le finestre di piazza Navona (Milano 1961), Cronache del teatro 1914-1955 (I-II, Bari 1963-64). A queste sono da aggiungere i due lavori drammatici: Savonarola (Roma 1913) e Mistero della Natività, Passione e Resurrezione di Nostro Signore (ibid. 1937), e, tra le tante opere curate dal d'Amico, le dieci conferenze per una Storia del teatro italiano (Milano 1936), La regia teatrale (Roma 1947), conferenze organizzate per gli studenti dell'Accademia l'anno precedente e l'antologia di testi da Cielo d'Alcamo a P. Ferrari, redatta in collaborazione con N. Gallo, intitolata Teatro italiano (I-III, Milano 1955-56).
Fonti e Bibl.: Per un'ampia bibliografia sul d'Amico e sulle sue opere e per un elenco completo dei necrologi su quotidiani, periodici e riviste, sino al 1955, si veda quella curata da A. Camilleri per il primo dei "Quaderni del piccolo teatro della città di Torino", dedicato a S. d'Amico, Torino 1957, con interventi di N. Pepe, R. Radice, A. Camilleri, G. Colli, G. R. Morteo, G. Calendoli, L. Squarzina e inediti dello stesso d'Amico. Qui si ricordano solo i numeri unici de Il Libro italiano, 1° luglio 1929, con scritti, tra gli altri, di G. Gherardi, C. V. Lodovici e C. Pavolini; Sipario, maggio 1955, con interventi, tra gli altri, di V. Gassman, L. Squarzina e R. Rebora; La Fiera letteraria, 8 apr. 1956, con ricordi e testimonianze di S. Angeli, E. Anton, G. Antonelli, L. Chancerel, G. Colien, A. Fiocco, V. Gassman, G. Gigliozzi e R. Radice. Per gli anni successivi: O. Costa, I colloqui di S. D., in L'Illustrazione ital., gennaio 1959; L. Meneghelli, Non si vede la storia dalle finestre di piazza Navona, in Paese Sera, 10 dic. 1961; G. Ravegnani, Le finestre di Piazza Navona, in IlGiornale d'Italia, 13 dic. 1961; E. Cecchi, S. D. narratore, in Corriere della sera, 12 genn. 1962; A. Fiocco, Teatro universale, III, Bologna 1963, pp. 424-28; Id., Le cronache di D., in Concretezza, 6 dic. 1964; S. De Feo, In poche righe svuotò i mattatori, in L'Espresso, 17 genn. 1965; R. Radice, Dieci anni dopo, in Corr. della sera, 30 marzo 1965; G. Guerrieri, Storia di una battaglia, in Sipario, marzo 1965; R. Tian, La sua poltrona, in Il Messaggero, 1° apr. 1965; G. Prosperi, Scomparsa di un maestro, in Il Tempo, 1° apr. 1965; L. De Libero, Cronache del teatro, in Paese Sera, 1° apr. 1965; F. Callari, Tutta una vita per il teatro, in Giornale di Sicilia, 1° aprile 1965; Coerenza di D., in Sipario, aprile 1965; E. Capriolo, Una lunga dichiarazione d'amore al palcoscenico, in Vie nuove, 8 luglio 1965; A. Pitta, S. D., in Corr. del giorno, 15 luglio 1965; C. Bo, Teatro fra storia e ironia, in Corr. della sera, 27 genn. 1969; G. Marchi, Libri di teatro, in Nuova Antologia, febbraio 1969; A. Blandi, Vent'anni di teatro, in La Stampa, 9 marzo 1969; D. Loizzi, D. e la sorte del teatro italiano, in La Gazz. del Mezzogiorno, 3 genn. 1970; G. Pullini, Teatro ital. del'900, Bologna 1971, pp. 171 ss.; G. Bassani, Quaderno: un romanzo di D., in Corriere della sera, 24 luglio 1971; F. Callari, Sono passati vent'anni dalla morte di S. D., in Concretezza, 1° apr. 1975; Id., Nel XX annivers. della morte, in Ridotto, aprile 1975; E. Capriolo, Il teatro italiano negli anni della ricostruzione, Schede del Centro teatrale bresciano, Brescia 1980, ad Ind.; Q. Galli, La regia teatrale italiana, in Teatro contemporaneo, a cura di M. Verdone, I, Roma 1981, pp. 531-35. Si vedano poi le voci in Encicl. Ital., XII, p. 275; Appendice, III, 1, pp. 464; Encicl. d. Spettacolo, IV, coll. 42-44.