ZAMBALDI, Silvio
– Nacque a Palazzolo sull’Oglio (Brescia), il 17 settembre 1870, figlio di Emilio, avvocato, e di Lucia Cicogna.
Di nobile origine veneta – il nonno Carlo fu presidente del Comitato per l’ordine pubblico di Daniele Manin nel 1849; il padre lasciò Venezia austriaca per andare in Piemonte, dove nel 1866 militò nell’esercito, quindi si trasferì a Milano, dove fu critico teatrale del periodico liberale La Perseveranza, e poi a Palazzolo; lo zio Francesco, classicista, fu educatore del futuro Vittorio Emanuele III –, Zambaldi condivise con la Milano postunitaria il bilinguismo lombardo-veneto (a un milanese in piazza San Marco fa esclamare: «par de vess a Milan, no se sent parlà che venezian»; Il teatro milanese, 1927, p. 16) e un realismo bonario («nel gran testone e anche nel corpo fatto greve aveva qualcosa di Balzac: occhialuto, scapigliato, camminatore»; Lopez, 1942).
Dopo aver studiato al ginnasio liceo del collegio San Pedrino a Varese, si iscrisse a giurisprudenza presso l’Università di Pisa; vivace e irregolare, migrò a Bologna e a Siena, riuscendo comunque a laurearsi nel 1892, a 22 anni. Nello stesso anno tornò a Milano, dove subito fu attratto dal teatro dialettale milanese, «questo dialetto duro, gutturale, imbastardito di spagnolismi, di gallicismi e di tedeschismi [che] non si credeva potesse godere di un credito scenico» (Il teatro milanese, cit., p. 12). Dopo gli esordi nell’atto unico La fine (1893, compagnia Ermete Novelli) e nei tre atti, in collaborazione con Camillo Antona Traversi, La balia (1893; poi tradotta in fiorentino) – unici editi di questa sua prima fase – nella polemica fra macchiettismo (Edoardo Ferravilla, per il quale pure scrisse L’è me fradell, 1893) e naturalismo sentimentale ovvero ‘verismo somatico’ (Carlo Bertolazzi) fu più vicino al secondo: per la compagnia Sbodio-Carnaghi scrisse Qualitaa del legn e Tosann de marì (1893), El giudizi de Salomon (1894), Rotaj e Marca di fabbrica (1896); la Compagnia Nazionale lo insignì per questo di una medaglia d’oro (1897).
Nel frattempo intraprese la carriera del giornalismo, «al quale dedicò il tempo più felice della sua vita» (g.r. [G. Rocca], 1932, p. 58): pioniere del ciclismo, fondò il periodico Il ciclo (1894-1897) e poi, con Anton Giulio Bianchi, La bicicletta (passione che lo accompagnò per la vita: concorse alla fondazione del Touring Club e nel 1920 seguì il Giro d’Italia per La Gazzetta dello sport). Ma in seguito a un primo matrimonio (con Elisa Maglie il 31 marzo 1900), cercò un più solido esordio professionale al Piccolo (1900-1903), in una Trieste ancora austriaca, dove passò rapidamente da corrispondente a redattore capo (con la rubrica La vita del giorno; nel 1902 intervistò Gabriele D’Annunzio) e infine a direttore; bruciando le tappe, fu quindi corrispondente da Belgrado per Il Giornale d’Italia, passò per poco alla Gazzetta di Venezia e infine tornò a Milano, alla redazione del Corriere della sera. Fu in seguito redattore per Il Resto del Carlino e L’Illustrazione italiana e collaboratore della Gazzetta dell’Oglio; questa sua lunga militanza, nonché il carattere mediatore, lo fecero eleggere consigliere delegato dell’Associazione lombarda dei giornalisti (1919-28).
Dopo una pausa di sei anni (nella quale comunque scrisse in lingua L’arcobaleno, 1897, e Un dovere di umanità, 1900, compagnia Alfredo De Sanctis), si riavvicinò al teatro dialettale, questa volta veneto, e ancora il più significativo: per la Serenissima di Emilio Zago scrisse I pecai de Pantalon e Pandora ed El cuco (1904), e Calle del Paradiso 669 (1905); per Ferruccio Benini, El nemigo de le done (1907), cavallo di battaglia che ancora nel 1924 era nel repertorio della compagnia siciliana di Angelo Musco, a testimonianza della nota interscambiabilità fra drammaturgie dialettali.
Ciononostante, sebbene queste compagnie fossero a tutti gli effetti (e talvolta si chiamassero ossimoricamente) nazionali, Zambaldi non pubblicò quasi nulla; trovò invece identità di scrittura, successo e dunque stimolo alla pubblicazione con il suo repertorio in italiano. Dopo Noi uomini (1904, compagnia Caimmi-Zoncada), La voragine (1906, compagnia Mariani- Zampieri) sollevò interesse per la trama à la Giacosa: un ingegnere viene accusato di avere gettato nel burrone del titolo l’amata moglie Leonora, ma si scopre poi trattarsi di suicidio cui la sorella l’ha forse spinta essendo stata testimone del di lei adulterio. La grande popolarità arrivò poco dopo con La moglie del dottore (Milano, Teatro Lirico, 10 gennaio 1908; compagnia Flavio Andò, con la rivelazione di Maria Melato che all’ultimo sostituì Irma Gramatica): in uno sperduto paese di montagna – anche qui lontano dalla città – il medico Carlo Conti ha sposato Luisa dopo averla salvata da un aborto frutto di uno stupro – altro tema ricorrente nell’opera in lingua di Zambaldi – di cui però lui non sa nulla; quando si trova a salvare una forestiera partoriente, scopre nel marito di lei l’antico stupratore. Dopo un debutto incerto, il dramma restò in cartellone per 35 repliche: la critica ne esaltò l’abilità nel tenere desta l’attenzione, in sostanza quella maestria che l’autore probabilmente aveva sedimentato in anni di corpo a corpo con i pubblici più popolari; il severo Renato Simoni parlò apertamente di trionfo (e in effetti il testo fu edito con la sua prefazione, e più volte; fu a lungo in repertorio di diverse compagnie – a Milano si diede perfino in quattro teatri contemporaneamente – tradotto in tedesco e spagnolo; e nel 1956 ispirò il film L’intrusa di Raffaello Matarazzo, con Amedeo Nazzari, Lea Padovani e Amalia Pellegrini).
Seguirono ancora, negli anni precedenti la guerra, scritture meno importanti per importanti attori, come Virgilio Talli (Il nostro amore, 1908), Flavio Andò e Antonio Gandusio (Il matrimonio di Rirì, 1909; Fiori d’arancio, 1911; Tardi al treno, 1918: il treno dovrebbe portare Ernesto e Annetta in viaggio di nozze; la sua perdita procura loro una movimentata prima notte); e due direzioni di compagnia: la Compagnia degli Autori, in alternanza con il vecchio amico Antona Traversi (1911-14; per un decennio Zambaldi fu anche membro del consiglio direttivo della Società degli autori italiani); e la Palmarini-Grassi (1913), per la quale scrisse anche L’amico di Ninì (1910) e Due che si amano (1913).
Sempre padrone della sua vita, nel 1915, a ben 45 anni, si arruolò volontario nelle squadriglie antiaeree, in forza al battaglione Negrotto; e il suo attivismo non si fermò con la guerra, perché «al tempo degli scioperi post-bellici, egli scese in piazza con gli studenti, non per contestare, ma a scopare» (Boselli, 1970, p. 21). Del resto, forse la stessa guerra fu complice di una sua nuova tentazione teatrale: nonostante i tempi duri (o proprio per questo), scrisse ben sette riviste per la Taverna Rossa di Alberto Colantuoni: Dall’Aja alla Baja, 1914; Da... a..., 1915; Die Natalische fuiedamm Rivisten, 1916; Il rondone, 1918; I casi sono due, 1919; Si dice che..., 1919; Partenza per..., 1920.
Dopo un secondo matrimonio a Milano (Angela Campara, 23 dicembre 1921), il dopoguerra gli riservò ancora un’alternanza di successi e routine artigianale: fra i primi sono da annoverare La macchinetta del caffè (1916; tradotta in tedesco, ungherese, danese, olandese, boemo) e La fidanzata di Cesare, «commedia in tre atti e un sogno» (1923; trasmessa poi dal secondo programma della radio il 18 luglio 1960).
Significativi e sempre paralleli furono i suoi ritorni al teatro dialettale, soprattutto veneto, con El rebegolo, commedia in tre atti sempre per Zago (1919; ripresa in milanese con il titolo La ciribiciaccola, 1921, ed edita in italiano con il titolo Argento vivo); con El barba se diverte (1925) per l’astro nascente Gianfranco Giachetti; e con El nobilomo Caligo (1927), per Cesco Baseggio; ma d’altro canto anche milanese, con El lascit de la veduvin (1920) e, soprattutto, con La ciaccera che gh’ee in gir (1921); tanto che la Libreria Milanese di corso Vittorio Emanuele gli commissionò un assennato libretto, Il teatro milanese (1927), dove senza faziosità ricostruì gli anni appassionati dell’epopea di cui era stato partecipe, da Cletto Arrighi a Gaetano Sbodio, da Carlo Bertolazzi a Davide Carnaghi, tenendosi modestamente defilato.
La stima di cui godeva, anche caratterialmente, lo portò a importanti collaborazioni: con Sabatino Lopez (Per il suo bene, 1918; compagnia Virgilio Talli); Armando Falconi, anche interprete direttore di compagnia (La canzone di Rolando, dramma in tre atti, 1918); Innocenzo Cappa (L’onorevole Nino, 1922); Gino Rocca (America!, commedia in tre atti, 1927; ripresa e pubblicata con il titolo Jack emigra); Enzo Geminiani (L’orgia, 1931; che fu forse il suo ultimo testo rappresentato, mentre un altro atto unico, Il conto della sarta, uscì a stampa nel 1932).
Non si negò alla narrativa: pubblicò romanzi (Serena e La dattilografa, 1921; La donna dagli occhi di cielo, 1923; La moglie giovine, 1929), raccolte di novelle (L’occhio del re, 1912; Le ombre del cuore, 1919; La ballerina incantata, 1920), anche per l’infanzia (Pascià, Cecco, Cicco, Ciacco, 1927).
Morì a Milano il 12 aprile 1932: «un attacco di commozione cerebrale» lo costrinse a letto per due mesi (dei quali gli ultimi venti giorni all’ospedale San Giuseppe di via San Vittore); finché si spense «per sopraggiunta emorragia cerebrale, con miocardite e nefrite e infine paralisi cardiaca» (Boselli, 1970, p. 23). Venne sepolto nel cimitero Monumentale, accompagnato da Rocca (che ne fece l’elogio funebre), Lopez, Simoni, Eligio Possenti, Giovanni Cenzato, Falconi. L’affetto di cui godeva venne testimoniato da necrologi in Germania, Iugoslavia, Francia, Libia, Egitto, Rodi, e in seguito dalle vie che gli vennero dedicate a Milano, Brescia e Palazzolo, dove nel 1970 venne commemorato il centenario della nascita e gli venne intitolata una compagnia teatrale.
Ultimo con Gerolamo Rovetta e Marco Praga di una scapigliatura milanese (per la chioma si disse che assomigliava a Ludwig van Beethoven) passata indenne dal dannunzianesimo, «andava a zonzo con le saccocce colme e con il capo scoperto, felice e orgoglioso della sua povertà di artigiano della penna, di bravo galantuomo» (ibid., p. 12). Ne vennero tramandati, seppure un po’ aneddoticamente, l’attaccamento alla famiglia (da entrambi i matrimoni ebbe sette figli) e gli atti di beneficenza: verso i martinitt, cui dedicò un poemetto, o verso il collega giornalista Virgilio Ramperti, cieco, che assistette fino all’ultimo. Ma senz’altro più ‘veristiche’ possono essere considerate le parole di quella generazione di giornalisti drammaturghi, di cui egli stesso aveva fatto parte, che avevano ‘inventato’ il teatro dei dialetti come nuovo teatro dell’Unità d’Italia: «aveva la saggezza nel cuore» (Cenzato, 1958, p. 46); era «profondamente, saggiamente, inimitabilmente buono» (g.r. [G. Rocca], 1932, p. 58).
Opere. Teatrali: La fine, Milano 1894; La balia, Milano 1894 (con C. Antona Traversi); La moglie del dottore, La voragine, prefazione di R. Simoni, Milano 1908; La canzone di Rolando, in Comoedia, 1920, n. 2 (con A. Falconi); La macchinetta del caffè, ibid., 1921, n. 2; La chiacchiera che gira, ibid., 1921, n. 7; L’argento vivo, ibid., 1921, n. 21; La fidanzata di Cesare, Milano 1923; Il nemico delle donne, suppl. a Comoedia, 1927, n. 9; America!, in Comoedia, 1930, n. 5 (con G. Rocca); il saggio Il teatro milanese, piccola cronistoria, Milano 1927.
Narrativa: L’occhio del re, Milano 1912; Le ombre del cuore, Milano 1919; La ballerina incantata, Milano 1920; La piccola vita, racconti, commedie e storie, Firenze 1920; La dattilografa, Milano 1921; Serena, Milano 1921; Su il sipario..., dodici quadretti, Milano 1921; La donna dagli occhi di cielo, Milano 1923; Pascià, Cecco, Cicco, Ciacco, Milano 1927; La moglie giovine, Milano 1929; Oh, le donne (dal diario di un uomo posato), Milano 1929.
Fonti e Bibl.: R. Simoni, Prefazione a S. Zambaldi, La moglie del dottore, Milano 1908; g.r. [G. Rocca], S. Z., in La Rivista illustrata del popolo d’Italia, X (1932), 5, pp. 58 s.; S. Lopez, In memoria di S. Z., in L’Illustrazione italiana, 12 aprile 1942, n. 15; C.M. Pensa, Schiettezza di Z., in Corriere lombardo, 19-20 ottobre 1957; E. Possenti, Ricordo di S. Z., in La Domenica del corriere, 3 novembre 1957; R. Simoni, Trent’anni di cronaca drammatica, I-III, Torino 1951-1960; G. Cenzato, Venticinque anni dalla morte di S. Z., in Il dramma, gennaio 1958, n. 256, pp. 46 s.; C. Boselli, S. Z. nel centenario della nascita, s.l. 1970; E.Ca. [E. Capriolo], Z., S., in Enciclopedia dello spettacolo, Roma 1975, coll. 2082-2083.