Simboli politici
La politica è, al suo livello più fondamentale, un processo simbolico. In quanto espressione della cultura, essa è formata da una varietà di attività simboliche, che vanno dalla costruzione della realtà politica mediante simboli al tentativo di far aderire gli individui a particolari gruppi o schieramenti. Considerare l'attività politica da questa prospettiva ha importanti conseguenze sia per la nostra interpretazione della politica che per i modelli di analisi politica.La definizione della politica in termini di processo simbolico contrasta per molti aspetti con una concezione affermatasi con l'illuminismo e tuttora piuttosto diffusa sia nelle scienze sociali che nell'opinione comune. Secondo tale seconda concezione, occorre operare una distinzione tra il contenuto reale della vita politica - generalmente identificato con il conflitto tra gruppi che difendono differenti interessi materiali - e i suoi orpelli - tutti i simboli, le cerimonie, lo sventolio di bandiere, le uniformi, ecc. Secondo la versione moderna attualmente più influente di questa prospettiva alternativa, agli osservatori abbastanza perspicaci da vedere al di là della superficie della vita politica - rivestita di allettamenti di natura puramente simbolica destinati agli ingenui - non sarà difficile rendersi conto che alla base dell'azione politica vi sono fatti concreti come gli interessi economici e la lotta per il profitto personale. In sintesi, contrapposta all'idea che i simboli abbiano un ruolo centrale nella vita politica vi è quella secondo cui essa sarebbe governata dai ferrei principî della scelta razionale.
E tuttavia, alle sue radici, la politica è essenzialmente simbolica, in quanto sia la formazione dei gruppi politici, sia le gerarchie che ne derivano dipendono da un'attività simbolica. La realtà politica deve essere sempre costruita a partire da simboli, e questi simboli non solo veicolano contenuti cognitivi, ma suscitano anche risposte emotive. In altre parole, oltre a definire il profilo del mondo politico, i simboli determinano anche la nostra valutazione dei vari elementi che compongono tale mondo. Le unità fondamentali della vita politica - nazioni, gruppi etnici, partiti, le cariche di primo ministro, di presidente e di sovrano - sono tutti prodotti simbolici. Analogamente, 'presidente del Consiglio' è una complessa costruzione simbolica ben distinta dalla persona fisica che di volta in volta ricopre tale ruolo. L'elemento centrale della politica mondiale - l'idea che il mondo sia nettamente diviso in una serie di Stati mutuamente esclusivi, e che ogni individuo possa essere considerato come appartenente a questo o a quello Stato - è parte integrante di questa costruzione simbolica della realtà. Come osserva il filosofo della politica Michael Walzer (v., 1967, p. 194), "lo Stato è invisibile; deve essere personificato per poter acquistare visibilità, simbolizzato per poter essere amato, immaginato prima di poter essere concepito".
Per quanto poi riguarda le parti più remote del mondo politico - gli Afghani, i Palestinesi, i Tutsi - esse sono conosciute solo attraverso la loro costruzione simbolica, che riduce un mondo di esperienze incredibilmente complesso in un numero relativamente esiguo di categorie comprensibili, affinché il mondo politico possa essere anche solo concepito.Un'obiezione mossa di frequente a questa interpretazione è che gran parte della realtà politica non si manifesta nel simbolismo bensì semplicemente in rapporti di forza, nei casi estremi di bruta forza fisica. Senza dubbio, un cittadino iracheno richiamato alle armi dall'esercito di Saddam Hussein potrebbe arruolarsi a prescindere da qualunque valore simbolico egli attribuisca ai suoi doveri di cittadino iracheno, allo stesso modo in cui un individuo che prova la tentazione di rubare evita di farlo semplicemente per paura di essere arrestato. Tuttavia queste forme di potere coercitivo non sono interpretabili semplicemente, e nemmeno essenzialmente, in termini di potere puramente fisico, in quanto presuppongono sempre un potere simbolico. Il potere di un governo di imporre a un individuo di agire in un certo modo si basa sulla sua capacità di indurre i cittadini (nonché la polizia) a obbedire ai suoi ordini. Ciò a sua volta presuppone inevitabilmente un'attività simbolica, che consiste nel definire chi siano i cittadini, quali siano i loro doveri nei confronti del governo, e innanzitutto chi rappresenti 'il governo'.
Anche la proprietà e il possesso di beni sono al fondo processi simbolici: i beni materiali e i diritti di usufruire di determinati servizi possono essere assegnati agli individui solo attraverso sistemi di simboli. Il rapporto tra gli individui e la 'loro' proprietà è puramente simbolico.Nessuna organizzazione - sia essa un partito politico, uno Stato o qualsivoglia altra entità creata dall'uomo - può esistere senza una rappresentazione simbolica, nonostante tali organizzazioni vengano considerate in genere alla stregua di entità del mondo fisico. Tuttavia tali organizzazioni possono essere viste solo attraverso i simboli a esse associati. Al fine di reclutare membri o anche solo simpatizzanti, un'organizzazione deve in qualche modo rappresentare se stessa, e può farlo attraverso la creazione di miti (il mito della fondazione, dei padri fondatori, delle battaglie combattute in passato) e di simboli distintivi. Minacciare il monopolio di un'organizzazione sui propri simboli significa minacciare la sua stessa identità. Ad esempio quando, nel 1991, il vecchio Partito Comunista Italiano si trasformò nel Partito Democratico della Sinistra, intraprese un'azione legale al fine di impedire a un gruppo secessionista di usare i simboli tradizionali del PCI, anche se il nuovo PDS cercava di costruirsi una nuova identità.
Questa transizione costituisce in effetti un caso esemplare, in quanto mette in evidenza come i leaders del PDS avessero bisogno da un lato di dimostrare la continuità con il vecchio partito e, dall'altro, di provare che era avvenuto effettivamente un radicale mutamento. Tutto ciò poté essere fatto solo attraverso il simbolismo, un simbolismo che combinasse elementi del vecchio e del nuovo (v. Kertzer, 1996).I simboli sono importanti nella politica in quanto definiscono non solo l'identità di gruppo, ma anche l'identità personale degli individui. Possiamo citare in proposito un episodio avvenuto a Perugia non molti anni fa. Allorché un anziano militante del Partito comunista morì, parenti e amici non vollero che il funerale fosse celebrato in chiesa, ma organizzarono un 'funerale comunista': la salma venne adagiata nel feretro vestita con la divisa che identificava il defunto come partigiano, veterano della brigata Garibaldi, e quanti si recavano a rendergli l'estremo saluto venivano accolti dalle note dell'Internazionale. Per l'ex partigiano la sua identità attuale - e persino quella postuma - era legata a un mondo di simboli che lo associavano a entità politiche più ampie (il Partito comunista, l'Internazionale) nonché a una particolare costruzione del passato e del suo rapporto con esso. Tutti noi costruiamo in questo modo le nostre identità: raccontiamo storie su di noi sia a noi stessi che agli altri. Le minacce a queste costruzioni simboliche rappresentano una minaccia al nostro Io più profondo, e provocano quindi forti reazioni di difesa.
Poiché le organizzazioni possono essere rappresentate solo attraverso i simboli a esse associate, l'adesione di un individuo a una qualsiasi organizzazione può esprimersi solo attraverso un'appropriata attività simbolica. Indossando determinati capi di abbigliamento, pronunciando un dato giuramento o cantando un certo inno, usando particolari appellativi (ad esempio 'compagno'), ci consideriamo, e veniamo considerati dagli altri, parte di una determinata organizzazione, sia essa la Chiesa cattolica romana, un partito o un movimento politico. Il fatto di usare gli stessi simboli consente a un individuo di identificarsi con altre persone con cui non ha mai avuto contatti e che non conoscerà mai, e nello stesso tempo di schierarsi contro altri, percepiti come nemici o antagonisti, che hanno simboli diversi.
L'approccio ai simboli politici proposto qui è in netto contrasto con l'idea ampiamente diffusa secondo cui la politica deve essere concepita fondamentalmente in termini di attori razionali che agiscono conformemente a un complesso stabile di interessi. A questa tesi si possono muovere due obiezioni: in primo luogo, le percezioni politiche degli individui e di conseguenza la definizione che essi danno della situazione politica in cui si trovano sono esse stesse necessariamente costruzioni simboliche; in secondo luogo, l'uomo è mosso anche dalle emozioni, e non esclusivamente da un freddo calcolo dell'interesse personale.Se questo approccio che privilegia la dimensione simbolica della politica è in contrasto con alcuni influenti orientamenti della scienza politica e della sociologia politica, è peraltro in accordo con importanti correnti dell'antropologia culturale e della psicologia politica.
Lo psicologo David Sears, ad esempio, ha di recente contrapposto l'approccio della 'politica simbolica' a quello della scelta razionale, affermando che gli individui non valutano cognitivamente "l'informazione a disposizione in modo realistico e sensato", ma si dimostrano in genere restii al cambiamento. "L'elaborazione simbolica - scrive Sears (v., 1993, pp. 136 e 144) - è in ultima istanza funzionale agli scopi razionali dell'individuo e della società, ma è tale non in virtù di un processo di deliberazione attenta e razionale, né di una valutazione dei costi e dei benefici". Di fatto, egli conclude, "tutto dimostra che l'interesse personale ha un'influenza relativamente marginale sugli orientamenti politici". È opportuno rilevare, inoltre, che lo stesso interesse personale non è un dato di fatto, qualcosa che possa essere determinato a priori da un osservatore esterno, ma è anch'esso un prodotto culturale, basato su un processo simbolico.
L'idea che i simboli abbiano un ruolo determinante nella politica e nel mutamento politico ha goduto recentemente una notevole popolarità tra gli storici, tanto che nell'ambito storiografico vi è stato un vero e proprio boom di studi dedicati al simbolismo e alla dimensione rituale della politica.Questa nuova corrente storiografica si è affermata soprattutto in Francia. Se gli storici francesi - come nella maggior parte delle altre nazioni - tendevano in passato a focalizzare l'attenzione sui grandi personaggi, sulle imprese militari, e sullo sviluppo di ideologie e di istituzioni, recentemente si è verificato un radicale mutamento di prospettiva, che ha portato a mettere l'accento sui mezzi simbolici attraverso i quali le masse partecipano alle rivoluzioni o ad altri profondi rivolgimenti politici.Uno degli esponenti più influenti di questa corrente storiografica può essere considerato George Mosse, il quale ha sostenuto che le idee politiche non vengono formulate e trasmesse attraverso un calcolo razionale, bensì attraverso un processo simbolico.
Pur senza mettere in discussione la credenza illuministica in una realtà fissa e oggettiva, Mosse (v., 1974) affermava che gli individui possono percepire tale realtà solo guidati da miti e simboli.Mosse e altri storici della sua generazione furono fortemente influenzati dall'esperienza del nazismo. L'isteria di massa che travolse i Tedeschi, considerati in passato un popolo all'avanguardia della società occidentale moderna e razionale, indusse molti storici e filosofi della politica a porre l'accento sulla dimensione irrazionale della vita politica. Il loro approccio alla storia e all'analisi sociale, tuttavia, restava ancorato a una sorta di realismo ontologico che postula l'esistenza di 'fatti' reali e oggettivi.Adottare un approccio alternativo, riconoscendo che tutta la vita politica si svolge attraverso simboli, non significa peraltro negare la distinzione tra realtà fattuale e realtà simbolica. Ad esempio, è innegabile che milioni di Ebrei morirono effettivamente per mano dei nazisti e dei loro seguaci durante la seconda guerra mondiale. Ciò che si vuole affermare è che anche la realtà fattuale, nella misura in cui vi abbiamo accesso, deve essere concettualizzata e comunicata nei termini simbolici che ci sono propri.L'approccio al simbolismo politico qui proposto, dunque, muove fondamentalmente due obiezioni alla teoria dell'azione razionale (o della scelta razionale, nel linguaggio della scienza politica). In primo luogo, se la visione che gli individui si formano del mondo politico è costruita simbolicamente e se i simboli sono manipolati dai detentori del potere per i loro scopi, non ha senso parlare di un processo di decisione razionale quando si tratta di decisioni politiche, perché il processo cognitivo è filtrato attraverso lenti sostanzialmente non razionali. In secondo luogo il modello dell'azione razionale trascura o ignora del tutto il ruolo delle emozioni nell'influenzare la percezione della realtà o le decisioni di intraprendere un'azione politica. Nel nostro modello della politica, invece, alla dimensione emozionale viene attribuito un ruolo centrale.
L'idea che i simboli abbiano un ruolo determinante nella politica ha radici antiche, ma nella sua forma moderna può essere fatta risalire allo sviluppo di un concetto di cultura che mette l'accento sul processo attraverso il quale gli individui si servono di simboli per interpretare e conferire senso all'esperienza. Nasce da qui una tradizione del pensiero sociologico che va da Giambattista Vico a Max Weber e a Talcott Parsons. Secondo questa concezione, è attraverso i sistemi simbolici che gli individui possono conferire senso al mondo e rapportarsi ai propri simili. Una interpretazione per certi versi differente dello stesso approccio fu sviluppata dai filosofi Ernst Cassirer e Suzanne Lange, secondo i quali l'uomo vive in un mondo simbolico da lui stesso creato, che funge da intermediario tra il mondo esterno e il mondo interiore.
L'idea della natura simbolica della politica era sostanzialmente estranea alla tradizione marxista, e il materialismo dialettico può anzi esserne considerato l'antitesi. In effetti, Marx criticò aspramente i filosofi tedeschi precedenti per essersi fatti dominare dai fantasmi creati dalla loro mente, propugnando nella Ideologia tedesca una "rivolta contro il dominio delle idee". Tuttavia Gramsci sviluppò il materialismo marxista in una direzione alquanto diversa, mettendo in risalto la centralità del sistema di credenze degli individui e affermando che queste non corrispondono necessariamente ai loro interessi materiali. Le masse, scrive Gramsci nei Quaderni del carcere, possono vivere la filosofia solo come fede. Esse non costruiscono le proprie convinzioni politiche mediante un esame critico delle diverse idee politiche, ma le acquisiscono piuttosto attraverso la società in cui vivono; il sistema di idee che tende a prevalere è quello creato dalle élites che controllano i mezzi della produzione ideologica (scuole, chiese, ecc.).
Gli stessi anni in cui Gramsci scriveva, chiuso in una cella del carcere, videro il rapido sviluppo dell'antropologia sociale britannica, soprattutto attraverso gli studi condotti nelle colonie africane. Nel 1940 due degli esponenti più illustri dell'antropologia britannica, Meyer Fortes ed E.E. Evans-Pritchard, nell'introduzione al loro influente African political systems gettarono le basi dello studio antropologico della politica (tema ampiamente trascurato dagli antropologi precedenti). Al centro della loro opera vi è il legame tra simboli e politica. "L'uomo africano - scrivono i due autori - non vede al di là dei simboli; si potrebbe sostenere che se egli ne comprendesse il significato oggettivo, essi perderebbero ogni potere su di lui. Tale potere risiede nel loro contenuto simbolico e nella loro associazione con le istituzioni nodali della struttura sociale, come ad esempio la monarchia" (v. Fortes ed Evans-Pritchard, 1940).
Fortes ed Evans-Pritchard distinsero le società africane oggetto del loro studio in sistemi centralizzati, governati da un capo o da un re, e sistemi privi di un'autorità centrale. Nel primo caso il capo rappresenterebbe "il simbolo della loro unità ed esclusività, l'incarnazione dei loro valori essenziali". Nelle società acefale, per contro, i segmenti (basati sui gruppi di discendenza) della società "sono legittimati dalla tradizione e dal mito, e le loro interrelazioni sono guidate da valori espressi in simboli mistici" (ibid., pp. 17-18). L'approccio dei due antropologi era chiaramente influenzato dall'opera di Émile Durkheim (v., 1912), la cui interpretazione delle cerimonie religiose tra gli Aborigeni australiani metteva in evidenza il nesso tra sacro e politica: il totem oggetto di adorazione rappresenterebbe secondo Durkheim non solo una forza sovrannaturale, ma il gruppo sociale stesso.Le idee di Durkheim influenzarono anche i sociologi, e negli Stati Uniti ebbe un notevole impatto un articolo pubblicato da Robert Bellah (v., 1967), in cui le concezioni durkheimiane venivano applicate alla società industriale contemporanea. Bellah sosteneva che accanto alle varie Chiese in America esisterebbe una forma distinta di religione, che egli definì "religione civile", consistente in un "complesso di credenze, simboli e rituali attinenti a cose sacre e istituzionalizzati in una collettività".
Tale religione sarebbe caratterizzata da un sistema simbolico compiutamente elaborato, con una mitologia (in cui la fondazione della nazione è equiparata alla Genesi biblica, e George Washington a un Mosé nazionale) e un complesso sistema rituale (con giorni festivi come il 4 luglio, giorno dell'indipendenza). Grazie a questa religione civile i diversi popoli che formano gli Stati Uniti possono sentirsi un unico popolo. L'idea del ruolo cruciale del simbolismo nella politica formulata da Fortes ed Evans-Pritchard veniva estesa da Bellah dalle società preletterate di piccole dimensioni dell'Africa alle moderne società industriali.Negli ultimi trent'anni diverse correnti teoriche hanno focalizzato l'attenzione sull'interpretazione dei simboli politici. La più importante di tali correnti nel campo dell'antropologia fa capo all'opera di Clifford Geertz, che analizza il modo in cui l'uomo conferisce senso al mondo e crea significati. Tale processo viene identificato da Geertz con l'uso di modelli simbolici e con i mezzi attraverso cui gli individui li adattano "agli stati e ai processi del mondo più ampio" (v. Geertz, 1973, p. 15). Mentre gli antropologi britannici, come ad esempio Abner Cohen, andavano operando una distinzione tra simbolismo e politica, Geertz sostenne che è impossibile attuare una netta distinzione tra le due sfere. A proposito dei simboli e dei riti legati alla figura del sovrano e ai capi politici, Geertz (v., 1985, p. 15) osserva: "La distinzione apparentemente ovvia tra il cerimoniale del potere e la sua sostanza diventa meno netta, persino meno reale; ciò che conta è il modo in cui vengono trasformati l'uno nell'altro, un po' come accade tra massa ed energia [...]. Al centro politico di ogni società complessa vi sono sia un'élite che governa sia un insieme di forme simboliche le quali esprimono il fatto che essa detiene realmente il potere". Le élites giustificano il loro potere attraverso l'uso di simboli che ereditano dal passato o creano ex novo. "Sono proprio questi simboli - corone e cerimonie di insediamento, limousines e conferenze - che contrassegnano il centro come tale e fanno apparire tali cerimonie non solo importanti, ma anche connesse in qualche maniera imperscrutabile al modo in cui è costruito il mondo. La serietà dell'alta politica e la solennità del culto derivano da impulsi più simili di quanto possa apparire a prima vista".
In Francia negli ultimi decenni le analisi più approfondite e influenti del legame tra politica e ordine simbolico si devono a Pierre Bourdieu, il quale ha sviluppato il concetto di capitale simbolico e la nozione correlata di dominio simbolico. Secondo Bourdieu, la lotta per il potere è condotta mediante una competizione simbolica attraverso la quale i cittadini sono indotti a credere che il leader sia il loro portavoce. Nell'esperienza europea della monarchia, questo sentimento è incarnato nella celebre frase "L'État, c'est moi". Come osserva Bourdieu (v., 1991, p. 166), "il potere simbolico è il potere di costruire la realtà".
Una delle armi più efficaci di cui dispone il leader politico o aspirante tale, secondo lo studioso francese (ibid., pp. 105-106), è il potere di designazione, in quanto "l'atto di designare contribuisce a definire la struttura di questo mondo". La designazione può consistere in una metafora, come quella della 'cortina di ferro', che ha creato, una volta adottata, una determinata immagine del mondo come diviso in due campi, l'uno libero, l'altro no. L'uso di simboli tradizionali nell'atto della designazione implica non solo valori cognitivi, ma anche valori emozionali: è quanto hanno sperimentato ad esempio i leaders del Partito Comunista Italiano, la cui decisione di cambiare nome al partito ha suscitato lo scontento di una parte degli iscritti che non potevano più definirsi come 'comunisti'.
Al fine di comprendere perché e in che modo i simboli abbiano un ruolo importante nel processo politico, è necessario esaminarne la natura. Il simbolo è qualcosa - un oggetto materiale, un suono, un disegno - che per un processo di associazione richiama qualcos'altro. Come scrive l'antropologo Abner Cohen (v., 1974, p. 23): "I simboli sono oggetti, atti, relazioni o formazioni linguistiche che designano ambiguamente una pluralità di significati, suscitano emozioni e spingono gli uomini all'azione". Tuttavia a differenza dei segni, che hanno un referente esterno specifico, i simboli non sono caratterizzati da associazioni altrettanto semplici e univoche. Esiste una vasta letteratura sulla natura dei simboli, ma ai fini del nostro discorso prenderemo in considerazione solo alcune caratteristiche molto importanti per comprendere la loro relazione con la sfera politica.L'antropologo britannico Victor Turner (v., 1967) studiando il modo in cui i simboli vengono impiegati in contesti rituali ha distinto una serie di caratteristiche del simbolismo. In primo luogo, i simboli realizzano una condensazione di significato, vale a dire che un unico simbolo unisce in un'associazione complessa una varietà di referenti. In secondo luogo, essi rappresentano una polarizzazione di significato.
Con ciò Turner si riferisce al fatto che nei simboli esistono due poli semantici, uno ideologico e l'altro sensoriale: un simbolo evoca determinate visioni del mondo, certe idee relative alle entità sociali, alla storia e ai sistemi normativi, ma nello stesso tempo suscita anche particolari stati emotivi. Influenzato da Durkheim, Turner (ibid., p. 30) afferma che attraverso i simboli dominanti "le norme etiche e giuridiche di una società entrano in stretto contatto con forti stimoli emozionali". Tali simboli possono essere di tipo 'religioso' - come nel caso del crocefisso che evoca un dato evento storico e determinati valori, e nello stesso tempo suscita una reazione emotiva - oppure di tipo 'politico' - come nel caso delle bandiere sventolate dopo la vittoria di una squadra di calcio ai campionati mondiali. Una distinzione può essere operata tra le forme assunte dai simboli e le funzioni che essi assolvono. Abner Cohen osserva in proposito che una stessa funzione può essere assolta da differenti forme simboliche.
Ogni gruppo politico ha bisogno di un mezzo simbolico per dimostrare la propria identità, al fine di delimitare i propri confini e di istituire una separazione tra i propri membri e gli estranei, tra 'noi' e 'gli altri', ma è evidente che per assolvere questa funzione può essere impiegata una grande varietà di forme simboliche (insegne speciali, luoghi sacri, un abbigliamento o un linguaggio distintivi, ecc.).In anni più recenti un altro antropologo britannico, Simon Harrison (v., 1995), partendo dalla constatazione che la lotta per il potere, la ricchezza, la legittimazione e altre risorse politiche è inevitabilmente accompagnata da conflitti sull'uso di simboli, ha analizzato le diverse forme assunte da tale conflitto simbolico, distinguendone quattro in particolare. La prima è costituita dai conflitti di proprietà, derivanti dal fatto che i gruppi politici spesso rivendicano il possesso esclusivo dei propri simboli distintivi e fanno il possibile per impedire ad altri gruppi di appropriarsene. L'opposizione della Grecia all'uso del simbolo della Macedonia da parte degli Stati confinanti del nord può essere letta in questa chiave. Vi sono poi i conflitti di valutazione, che hanno per oggetto il prestigio o il valore di un particolare simbolo o insieme di simboli rispetto a quelli degli avversari. Lo scopo in questo caso è quello di svalutare i simboli del nemico, come nel caso della demonizzazione del simbolo della falce e martello da parte dei fascisti (o, viceversa, della denigrazione della camicia nera da parte dei comunisti).
A differenza dei conflitti di proprietà e di valutazione, le altre due forme di conflitto simbolico comportano una reale modifica del corpus di simboli esistenti. Nel terzo tipo di conflitti, quelli innovativi, vengono creati simboli politici con cui gli individui possano identificarsi. Gran parte dello strumentario simbolico del nazionalismo moderno - dalle bandiere agli inni nazionali - rientra in questa categoria. Analogamente (come vedremo meglio in seguito), i cambiamenti di regime all'interno di uno Stato-nazione esistente implicano inevitabilmente la creazione di nuovi simboli. I conflitti simbolici del quarto tipo, che Harrison definisce conflitti espansionistici, consistono nel tentativo di un gruppo di imporre i propri simboli di identità a un altro gruppo, e di conseguenza di incorporarlo politicamente. La fedeltà dei cittadini a un dato regime politico o a un particolare gruppo di élites anziché a un altro viene in questo modo segnalata. Nello stesso tempo si proclama pubblicamente il cambiamento di sede del potere. Così ad esempio San Pietroburgo venne ribattezzata Leningrado, e la nuova bandiera rossa sovietica con il simbolo della falce e martello venne issata sugli edifici pubblici di tutte le Repubbliche sovietiche, dall'Ucraina a quelle dell'Asia centrale sino al Pacifico.In tutti questi casi abbiamo a che fare con processi mediante i quali un determinato valore simbolico è legato alla particolare identità politica di un gruppo e, di conseguenza, dei singoli individui che si identificano con quel gruppo. Questi simboli assumono un carattere sacro, e tale sacralità viene costantemente affermata attraverso vari riti (che analizzeremo in seguito). L'identificazione con i simboli sacri del gruppo contribuisce a dare legittimità e prestigio ai suoi leaders, mentre per i membri i simboli sono un importante mezzo attraverso il quale costruire la propria identità personale e darle pubblica espressione.
Nella letteratura sul simbolismo politico una particolare attenzione viene dedicata agli usi politici del rituale, e ciò per varie ragioni. È nel rituale, infatti, che ai simboli viene data pubblica espressione nel modo più solenne, ed è attraverso il rituale che i vincoli emozionali degli individui con il simbolismo vengono consolidati e resi più profondi.Questa prospettiva è associata a una concezione del rituale eminentemente laica. È rituale ogni azione che ha un carattere formale, che si svolge secondo sequenze altamente standardizzate e strutturate e che generalmente si celebra in particolari luoghi o momenti dotati di rilevanza simbolica. L'azione rituale è ripetitiva e, di conseguenza, ridondante; lega il passato al presente e il presente al futuro; è ricca di significati simbolici e comporta una complessa stimolazione fisiologica, creata spesso attraverso movimenti, gesti, canti, rumori, colori, odori. La manipolazione dei simboli nel rituale suscita emozioni che vengono associate a particolari idee e visioni del mondo.
Gli antropologi hanno da tempo riconosciuto l'intima connessione esistente tra rito e mito. Ogni società ha i propri miti che ne raccontano le origini e ne santificano le norme. Alcuni sono imperniati su figure d'eccezione (Cesare, Garibaldi), altri su eventi importanti (grandi battaglie o grandi discorsi) che, qualunque sia la loro attendibilità storica, sono definiti attraverso una rete di significati costruiti simbolicamente. La visione che gli individui hanno della propria società è basata in larga misura su tali miti. Secondo alcuni studiosi, i politici esercitano la propria influenza sul pubblico manipolando simboli politici attinti dai miti fondamentali della società. Come osserva ad esempio Bennet, "quando il discorso politico viene spogliato dei temi mitici e del linguaggio legato al mito, resta ben poco. Al centro della maggior parte dei conflitti politici vi è il disaccordo sui miti da applicare a un particolare problema" (v. Bennet, 1980, p. 168).Il rituale si dimostra il mezzo più efficace per creare questi miti politici, e ciò per vari motivi. Ma la ragione più importante è che la natura pubblica e sociale dei rituali politici tende a suscitare emozioni e risveglia un senso di solidarietà sociale che finisce per essere associato esso stesso ai simboli politici che sono al centro del rituale. Basti pensare a questo proposito alla differenza tra l'impatto che la bandiera rossa può avere sul singolo operaio nella solitudine della sua casa, e quello che ha invece quando festeggia assieme a migliaia di altre persone la ricorrenza del 1° maggio, tra lo sventolio di innumerevoli bandiere rosse e gli inni sacri del socialismo intonati da una moltitudine di voci orgogliose in un coro entusiasta.
Lo studio del rituale nella politica deriva in larga misura dall'opera di Émile Durkheim. Il suo lavoro più importante sul rito è incentrato sugli Aborigeni australiani, una società semplice che proprio per questo, nella concezione del sociologo francese, poteva rivelare nel modo più chiaro i meccanismi fondamentali dei processi culturali. Il rituale, secondo Durkheim, esprimerebbe il sentimento di dipendenza del singolo nei confronti della società, conferendo a quest'ultima un'aura di sacralità agli occhi dei suoi membri. Successivamente, di conseguenza, gli esponenti della scuola durkheimiana hanno focalizzato l'attenzione sui modi in cui il rituale viene utilizzato per preservare la coesione sociale, nonché per rafforzare il sistema di norme e rapporti di potere all'interno della società. Si è sviluppata così un'imponente letteratura con numerosi studi dedicati, ad esempio, ai rituali legati alla figura del sovrano o ai modi in cui i capi si servono dei riti per consolidare il proprio potere e rafforzare la propria legittimità agli occhi dei governati e per delegittimare gli avversari (v. Shils e Young, 1953; v. Kantorowicz, 1957; v. Cannadine e Price, 1987).Tuttavia i processi simbolici all'opera nel rituale sono importanti non solo per i detentori del potere, ma anche per i loro avversari, e se la stabilità politica dipende dalla capacità di creare e di mantenere in vita una particolare combinazione di simboli, miti e riti, lo stesso vale per il successo delle rivolte o delle rivoluzioni. Ne consegue che nelle società in cui la legittimità del potere è fortemente contestata, il rito può essere parte integrante di tale processo di opposizione.
Nell'Irlanda del Nord, ad esempio, ogni anno la ricorrenza del 12 luglio crea notevoli tensioni, e costituisce anzi una vera e propria minaccia all'ordine pubblico e alla stabilità politica. Il 12 luglio del 1690 infatti Guglielmo III d'Orange conseguì una grande vittoria sul Boyne e tale data è celebrata dagli orangisti come anniversario di quella fondamentale battaglia con cui i protestanti stabilirono il loro dominio sull'Irlanda. Niente aizza l'odio della popolazione cattolica più della vista degli orangisti che sfilano nelle vie delle principali città indossando la bombetta nera e i collari arancioni (v. Lukes, 1975). Il potere dei simboli è talmente grande che talvolta può provocare morti e feriti.
Dalle considerazioni svolte nei capitoli precedenti si può trarre la conclusione che i simboli sono uno strumento essenziale nella lotta per cambiare l'ordine politico, o per creare un nuovo regime. Gran parte della recente letteratura sui cambiamenti di regime è dedicata proprio al ruolo dei simboli.Ad aprire la strada a questo orientamento della ricerca sono stati gli storici della Rivoluzione francese, non solo per le particolari propensioni teoriche della storiografia francese - influenzata dall'antropologia - ma anche in ragione dell'estrema consapevolezza dell'importanza del simbolismo dimostrata dai leaders della Rivoluzione francese. Uno degli esponenti più influenti di questa corrente storiografica è Maurice Agulhon (v., 1979), il quale ha messo in rilievo l'influenza della Rivoluzione francese sull'affermarsi degli elementi simbolici centrali dello Stato-nazione moderno.
Lo Stato moderno, osserva Agulhon, deve avere una bandiera che lo rappresenti, e deve altresì essere personificato in qualche modo o da un capo di Stato (un sovrano, un presidente, ecc.) o da una figura storica allegorica - ruolo assunto in Francia da Marianne. Oltre a una vasta gamma di simboli che rappresentano il governo - sigilli, blasoni e simili - ogni Stato moderno ha il proprio pantheon di notabili, le cui statue compaiono nelle pubbliche piazze.
Vista in questa prospettiva, la Rivoluzione francese appare caratterizzata da un'attività simbolica addirittura frenetica (v. Ozouf, 1976; v. Hunt, 1984). Il giorno successivo alla presa della Bastiglia (impresa dotata anch'essa di un alto valore simbolico, rispetto al quale il suo esito pratico - la liberazione di un manipolo di prigionieri - fu del tutto trascurabile) venne inventato il tricolore, che simboleggiava una rottura nella continuità politica. Alla caduta di Napoleone nel 1814 il nuovo governo bandì il tricolore, sostituendolo con la bandiera bianca, che fu a sua volta rimpiazzata dal tricolore nel marzo del 1815, quando Napoleone tornò dall'esilio elbano. Subito dopo la sua sconfitta a Waterloo, il tricolore venne ancora una volta messo al bando e sostituito dalla bandiera bianca. Quindici anni dopo, con la Rivoluzione di luglio del 1830, si ebbe un ulteriore capovolgimento, e il tricolore si impose definitivamente. Come osserva Agulhon, questi cambiamenti di bandiera non erano semplicemente il risultato di una lotta politica condotta su un altro terreno, ma avevano implicazioni emotive di enorme rilevanza, che costituivano una componente essenziale della lotta politica stessa. "Gli oscuri militanti che il 28 luglio 1830 issarono il tricolore in cima alle torri di Notre-Dame e all'Hotel-de-Ville, quando l'esito della battaglia era ancora incerto, contribuirono a risospingere il popolo nella lotta con rinnovato ardore (la vista della bandiera, si disse, produsse un effet électrique)" (v. Agulhon, 1985, p. 190). Il lettore italiano può pensare a questo riguardo ai racconti leggendari sugli operai che durante il fascismo, per la ricorrenza del 1° maggio, approfittavano delle tenebre per issare in cima alle torri e agli edifici delle città le loro bandiere rosse, simbolo dell'opposizione al regime.
Una volta insediato, il governo rivoluzionario francese varò un vasto progetto di innovazione dell'apparato simbolico, che andava dall'introduzione di determinati capi di abbigliamento, come ad esempio la coccarda tricolore, all'organizzazione di imponenti riti di massa dalla meticolosa coreografia, come ad esempio la festa della Libertà. A Parigi, in occasione di quest'ultima, venivano esibiti tutti i simboli del nuovo regime. Quattro uomini portavano enormi tavole in cui era incisa la Dichiarazione dei diritti dell'uomo; busti di Rousseau, Voltaire e Benjamin Franklin venivano portati in corteo nelle strade; nei pressi della Bastiglia veniva reso omaggio a una statua raffigurante la Libertà, mentre alla statua di Luigi XV veniva posto un berretto rosso sul capo e una benda sugli occhi. Analogamente, durante la festa dell'Essere Supremo che si tenne a Parigi nel 1794, il regime intensificò i suoi sforzi per sostituire ai riti della Chiesa quelli dello Stato. Mezzo milione di persone (metà della popolazione di Parigi) partecipò alla parata o la osservò sfilare tra gli edifici debitamente addobbati e gli imponenti monumenti costruiti per l'occasione, tra cui il più grandioso era un'enorme montagna artificiale eretta al centro della città. Qui, Robespierre dette fuoco a una statua in cartapesta raffigurante l'Ateismo, scoprendo sotto il suo involucro un'immagine della Saggezza, mentre alle sue spalle la folla intonava inni rivoluzionari.
La cerimonia raggiunse l'acme emotivo quando la folla, accompagnata dal rullio di duecento tamburi, intonò la Marsigliese recentemente composta, che terminò tra i colpi assordanti sparati dall'artiglieria militare.Anche le rivoluzioni totalitarie del XX secolo in Europa hanno attirato l'attenzione degli studiosi sul ruolo del simbolismo politico nei cambiamenti di regime. Emblematica a questo riguardo fu la presa di potere dei bolscevichi in Russia nel 1917. Costituito da un piccolo gruppo di rivoluzionari concentrato principalmente in poche aree urbane, il movimento bolscevico doveva trovare il modo di diffondere la propria influenza su un vasto territorio euroasiatico. Occorreva conferire un'identità al nuovo regime agli occhi della popolazione, dotarlo di legittimità e assicurargli la fedeltà di una varietà di popoli diversi. Tutto ciò poteva essere realizzato solo inventando un vasto repertorio di simboli e di riti associati. Alcuni autori hanno analizzato questo sistema simbolico (v. Binns, 1980; v. Lane, 1981; v. von Geldern, 1993), formato da una varietà di miti (l'assalto al Palazzo d'Inverno), di simboli (la tomba di Lenin) e di rituali. Relativamente a questi ultimi, oltre ai riti legati a ricorrenze annuali quali le celebrazioni del 7 novembre o del 1° maggio, è da tener presente anche il tentativo dello Stato di sottrarre al controllo della Chiesa dei riti di passaggio - nascita, matrimonio e morte.
Quando le forze comuniste presero il potere in altri paesi, vennero prontamente create appropriate varianti di questo sistema simbolico con lo scopo di identificare il nuovo regime con il movimento comunista internazionale.Tanto per Mussolini, che in passato aveva militato tra i socialisti, quanto per Hitler, che in Mein Kampf parla con toni ammirati della potenza delle dimostrazioni socialiste, i riti, i miti e i simboli del socialismo costituirono una lezione. Come dimostra Emilio Gentile nel suo studio Il culto del littorio (1993), Mussolini dedicò grande attenzione alla creazione di un ricco sistema simbolico per rafforzare il suo potere e consolidare il sostegno popolare al suo regime. Di fatto egli seppe approfittare dell'incapacità dimostrata dai suoi predecessori di elaborare un soddisfacente sistema simbolico per lo Stato italiano laico: i riti pubblici suscitavano scarsa partecipazione o entusiasmo popolare, e spesso erano considerati poco più che esercizi militari. Il fatto che la Chiesa avesse per lungo tempo contestato la legittimità dello Stato rifiutandone il simbolismo contribuì in modo significativo a creare la situazione in cui si trovava il paese nel primo dopoguerra.
Mussolini fece ciò che fecero altri leaders di nuovi regimi, inventando un sistema simbolico in grado di dare un'identità al regime, di legittimarlo e di costituire per i cittadini un mezzo attraverso cui sentirsi parte di esso. Come scrive Gentile (v., 1993, pp. 45-46): "A differenza degli altri partiti [...] i fascisti assegnarono al simbolismo politico una funzione predominante nell'azione e nell'organizzazione, attribuendogli, nel linguaggio e nei gesti, espressione e significato esplicitamente religiosi. Anche nell'elaborazione della sua liturgia, come per la mitologia, il fascismo si comportò come una religione sincretica, assimilando i materiali che riteneva utili per sviluppare il proprio corredo di riti e simboli".
Molti di questi simboli e riti si svilupparono, più o meno spontaneamente, nei primi anni del fascismo. Tra questi possiamo menzionare il saluto romano, il giuramento delle squadre, la venerazione dei simboli della nazione e della guerra, la benedizione dei gagliardetti, il culto della patria e dei caduti, la glorificazione dei 'martiri fascisti', le cerimonie di massa.Il movimento fascista arrivò a essere definito attraverso il suo simbolismo, e anche nelle azioni più violente ciò che forniva il potere di indurre all'obbedienza erano i simboli. L'offensiva fascista fu condotta all'inizio come "guerra di simboli per imporre agli avversari la venerazione della bandiera e la celebrazione del culto della patria" (ibid., p. 48). Il simbolo centrale delle spedizioni fasciste era il fuoco, e tutte si concludevano con il rogo pubblico dei simboli del nemico. Sebbene le forze fasciste fossero spesso armate, la battaglia fu condotta prevalentemente attraverso i simboli. E negli anni del fascismo Mussolini e i suoi uomini erano ben consapevoli dell'importanza di creare un sistema soddisfacente di simboli, miti e riti. Come affermava Camillo Pellizzi a proposito del fascismo nel 1924, "un bel simbolo" ha un maggior impatto sull'animo umano "che non una mediocre realtà di fatto" (ibid., pp. 163-164).
Anche Hitler si servì del potere dei simboli nel creare il movimento nazista e successivamente nel costruire il regime. La svastica e il saluto nazista furono al centro del movimento, istituendo una demarcazione tra i fedeli e i nemici e aizzando odi e passioni. Hitler affermava di aver imparato la lezione del potere dei simboli e dei rituali politici da una dimostrazione marxista di massa svoltasi a Berlino nell'imminenza della prima guerra mondiale: "Un oceano di bandiere rosse, di sciarpe e di fiori rossi conferiva a tale dimostrazione [...] un aspetto imponente - scrive Hitler in Mein Kampf, e prosegue - Potei sentire e capire personalmente quanto facilmente l'uomo del popolo soccombe al fascino suggestivo di uno spettacolo tanto grandioso e impressionante". Senza i simboli chiave del nazismo - come ad esempio la bandiera rossa con la svastica - un'adunata non poteva dirsi nazista. E tra le più efficaci esibizioni della potenza nazista vi erano le dimostrazioni di massa che il regime organizzava regolarmente, in particolare le adunate che avevano luogo ogni anno a Norimberga per celebrare l'anniversario del Reich. Oltre che a risvegliare potenti emozioni tra i fedeli, queste adunate servivano anche a conferire un'aura di invincibilità al regime nazista (v. Mosse, 1974; v. Taylor, 1981).
Il carattere drammatico e l'uso consapevole del simbolismo politico da parte dei bolscevichi in Russia, dei fascisti in Italia e dei nazisti in Germania hanno indotto alcuni osservatori a considerare l'uso del simbolismo nella politica come parte integrante della sua componente più irrazionale - e antidemocratica - che come tale sarà e dovrà essere eliminata e sostituita con strumenti più razionali della vita politica. In questo modo però si ignora il fatto fondamentale che non può esservi politica senza simbolismo, o senza i rituali e i miti attraverso cui esso si esprime.Al centro della politica di massa nelle società moderne vi è la capacità delle élites di creare gruppi, ossia di indurre un numero significativo di persone a considerarsi parte di un gruppo rappresentato dal leader. Nei termini di Foucault, per comprendere l'esercizio del potere occorre capire in che modo gli individui giungono a selezionare determinate identità personali. Tali identità si formano e vengono mantenute in vita attraverso un costante processo di lotta simbolica per sostenere un universo simbolico esistente o per cambiarlo.
Tuttavia resta un dubbio inquietante: la creazione dei simboli da parte delle élites è del tutto arbitraria, o non vi è forse qualcosa nel 'mondo reale' da cui dipende il loro successo nel creare tali rappresentazioni? Bourdieu, che si è occupato così diffusamente dei rapporti tra simbolismo e politica, non dà una risposta soddisfacente a tale questione. Dopo aver asserito che la forma più esemplare di potere simbolico è "il potere di creare gruppi", egli individua le due variabili che influenzano il successo del leader politico in questo processo: il possesso di un "capitale simbolico", ossia di una "autorità sociale acquisita in lotte precedenti", e il "grado in cui la visione proposta ha un fondamento nella realtà". Più specificamente, "il potere simbolico è il potere di creare realtà con le parole. Solo se è vera, ossia adeguata alla realtà, una descrizione può creare realtà" (v. Bourdieu, 1990, pp. 137-139). Ma ciò significa ritornare all'idea del senso comune che esiste una 'realtà' oggettiva e indipendente cui i nostri simboli debbono riferirsi. Resta peraltro da spiegare come si possa giungere direttamente a questo livello di realtà oggettiva.Né le tesi di Bourdieu né quelle di Foucault sembrano interamente soddisfacenti a questo riguardo. Vi è senza dubbio un mondo fattuale che esiste indipendentemente dalle reti di simboli che intessiamo per rappresentarlo. Tuttavia il nostro mondo politico, il più delle volte, fa riferimento solo indirettamente a questo mondo materiale, cosicché nella maggior parte dei casi le nostre costruzioni simboliche non sono direttamente verificabili o falsificabili attraverso un confronto con la realtà fattuale.
Per quanto riguarda l'idea che la dimensione simbolico-rituale della politica dovrebbe essere distinta da quella 'reale', che i simboli siano un mero orpello esteriore, mentre le politiche e la 'pratica' costituiscono la realtà, la principale obiezione che si può muovere a tale dicotomia tra dimensione simbolica e dimensione reale è che quest'ultima di fatto implica la manipolazione di simboli altrettanto quanto la prima, e che la prima non è essa stessa priva di conseguenze concrete, fattuali. La distinzione tra ciò che un gruppo politico 'dice' e ciò che 'fa' può avere una certa validità se intesa come rilievo polemico contro l'ipocrisia nella politica, ma come teoria della politica, o della cultura, si rivela del tutto inadeguata.
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