simbolo
Dal lat. symbolus e symbolum, gr. σύμβολον «accostamento», «segno di riconoscimento», «simbolo», der. di συμβάλλω «mettere insieme, far coincidere» (comp. di σύν «insieme» e βάλλω «gettare»). Nell’antico uso greco il termine designava un mezzo di controllo o di riconoscimento ottenuto spezzando irregolarmente in due parti un oggetto (per es., una medaglia), in modo che chi ne avesse una potesse farsi riconoscere facendola coincidere con l’altra. Nell’uso moderno il termine designa qualsiasi cosa (segno, gesto, oggetto, animale, persona), la cui percezione susciti un’idea diversa dal suo immediato aspetto sensibile. L’originaria funzione pratica, prevalente ma non esclusiva (anche la già ricordata medaglia spezzata «sta in luogo di»), è sostituita dalla funzione rappresentativa e s. si identifica con segno. Ma in certi usi (come in quello comune) s. tende a significare qualcosa di non tanto facilmente interpretabile come un segno, qualcosa di più vago e ambiguo, ricco di una pluralità di riferimenti indeterminati ed eterogenei, e anche come qualcosa di più complesso che rinvia a realtà importanti o remote.
Il s. ha a lungo coinciso con il segno, ed è stata tale identità a prevalere nella filosofia del Sei-Settecento soprattutto anglosassone, da Hobbes alla «logica simbolica» dei neopositivisti e alla semiotica (➔) di tradizione anglofona. Fu Kant a proporre la distinzione tra s. e segno, opponendosi all’uso all’epoca prevalente (in partic. in Leibniz e in Wolff, per i quali i s. in senso proprio sono i segni univoci dei linguaggi formalizzati della logica e delle matematiche) e aprendo la via al suo uso estetico (nel Rinascimento e nel Barocco è raro il suo impiego in rapporto alle arti e frequente quello di s. come segno astratto). Il s. è inteso da Kant come una rappresentazione intuitiva e analogica: il s. non ha del segno l’immotivazione del rapporto tra significante e significato (la volpe è s. dell’astuzia, nel senso che nel suo agire manifesta le qualità che sono caratteristiche dell’astuzia). Ma tale relazione analogica è imperfetta: l’espressione simbolica, pur dotata di proprietà simili a quelle del contenuto, ha in sé determinazioni ulteriori e indefinite, e di qui nasce la vaghezza del senso del s., la sua allusività e inesauribilità. La teoria kantiana favorisce l’accezione estetica che del s. propone Goethe, che l’identifica con l’opera d’arte come totalità organica e lo distingue dall’allegoria: nel s. si realizza la piena identità tra simboleggiante e simboleggiato; è un’immagine in cui l’universale è colto nell’individuale, che l’incarna in sé in modo inseparabile, in un mutuo gioco di rinvii reciproci, offrendosi a un processo continuo di interpretazione. L’allegoria (➔) è invece contingente e subordinata ad altro, in quanto incapace di significare solo per sé stessa; è ciò che trasforma «l’esperienza in un concetto e il concetto in un’immagine, ma in modo che nell’immagine il concetto sia sempre definito, contenuto ed esprimibile». Con Goethe nasce la linea «classica» del s.: vi si riconosceranno Schelling, Solger e poi le estetiche classicistiche, come quella di Lukács; le si opporranno invece, con motivazioni differenti, la tradizione romantica del simbolismo mistico e l’estetica anticlassicistica, né vi si riconoscerà Hegel. Se il s. è per Goethe la perfetta adeguazione della forma sensibile al contenuto, per Hegel, come già per Kant, quella relazione è inadeguata, dato che c’è nel simbolico una tensione irrisolta, qualcosa di allusivo ed enigmatico, la capacità di accennare, ma di accennare soltanto, a più ampi significati. Il s. di Goethe è il «classico» di Hegel: l’autentica arte simbolica è la scultura greca, mentre Hegel, influenzato da Creuzer, identifica il simbolico con il mondo pregreco e con l’arte della Persia, dell’India, dell’Egitto, né lo fa coincidere con l’artistico (il simbolico è l’inizio dell’arte o la prearte). Alla linea goethiana si oppongono anche le estetiche di derivazione romantica che insistono non più sul s. ma sull’allegoria, espressione della disarmonia tra arte e realtà, tra ricerca del senso e impossibilità di istituirlo come senso pieno e compiuto. Sono linee di tendenza che nascono dalla dissoluzione dei classicismi, dense di contatti con la cultura del Barocco, e che porteranno a quella Rehabilitierung der Allegorie che si affermerà con alcune avanguardie dell’Otto-Novecento e con Benjamin. Ma nella lunga storia del s. non va dimenticato Vico, la cui scoperta del simbolismo primitivo ha trovato echi, anche se spesso molto indiretti, nello studio romantico e ottocentesco del mito (Creuzer, J.J. Görres, Bachofen) e nell’antropologia simbolica di M. Douglas, nella psicoanalisi di Freud e nella teoria degli archetipi di Jung. Né va dimenticato Cassirer, la cui Philosophie der symbolischen Formen (3 voll., 1923-29; trad. it. Filosofia delle forme simboliche) trasforma la kantiana «critica della ragione» in una «critica della civiltà» e propone una teoria delle funzioni simboliche (mito e linguaggio, arte e conoscenza scientifica), intese come espressioni della capacità umana di attribuire senso all’esperienza e dar forma al molteplice sensibile. Bisogna accennare infine agli studi sul mito e le religioni, alle analisi ermeneutiche e fenomenologiche (Eliade, Corbin, Gadamer), dove il s. è ciò che allude a verità che tuttavia restano non garantite (Ricoeur), fino alla teoria semantico-pragmatica del s. proposta da U. Eco.
Nel senso più vicino a quello originario (ed etimologico), il s. religioso è «segno di riconoscimento», una cosa semplice che indichi o ricordi qualcosa di più complesso e sottinteso (per es., il cantaro s. del dio Dioniso o del suo culto, il liṅga s. di Śiva o della sua venerazione, ecc.). Presto, sotto l’influsso dei s. delle religioni misteriche, nella cui terminologia il s. è la formula usata come motto di riconoscimento degli iniziati, esso assume significati diversi: quelli di un’allusione o di un’espressione cifrata che rinvia a qualcosa che non deve esprimersi direttamente. Di qui l’origine della sovrapposizione di senso tra s. e allegoria: se il s. è inteso come ciò che rappresenta in linguaggio velato un senso riposto, ma interpretabile in forma più o meno convenzionale e codificata, non c’è differenza dall’allegoria. Un elemento di diversità tuttavia si delinea, se si pensa che l’allegoria non si riferisce necessariamente a cose segrete o inesprimibili, mentre in un s. è presente, oltre all’idea che il suo senso sia racchiuso nella sua pura immediatezza sensibile, il rinvio a uno sfondo metafisico che presuppone la mutua compenetrazione tra mondo umano e divino, tra sensibile e sovrasensibile. L’esegesi allegoristica della religione, nata nell’antica Grecia, sosteneva invece che una divinità o un mito fossero l’allegoria di qualcosa di preciso: Efesto del fuoco, e la sua caduta dal cielo del fulmine. Decisiva comunque fu la distinzione che metteva in rilievo come, a differenza dell’allegoria, il s. fosse qualcosa d’immediato che avesse un rapporto motivato con l’oggetto, espressione insostituibile, non segno convenzionale. In questo senso, per es., non è s. un triangolo con dentro un occhio, che allude al concetto, esprimibile in parole chiare, del Dio onniveggente e trino, non essendo certo l’espressione spontanea dell’esperienza che di questo Dio ha il soggetto religioso; ma la spiga matura, mostrata agli iniziati a Eleusi, poteva essere s. di Demetra, s. irriducibile a concetti razionali. Anche questa concezione più raffinata del s. si presta a malintesi, come l’idea che il s. abbia validità universale. A questo si è giunti accentuando il rapporto di ‘naturale’ corrispondenza tra il s. e il suo oggetto; ma la validità di tale rapporto è limitata da precise condizioni storiche (la spiga di grano non può essere s. di qualcosa nelle civiltà non agricole; diverso è il valore simbolico dell’acqua per un popolo che vive presso il mare e per gli abitanti di un deserto, ecc.). Gli ultimi sviluppi della generalizzazione del valore dei s. sono rappresentati dagli «archetipi» dello psicologismo storico-religioso. Ma a parte l’estensione illecita della validità dei s., c’è da chiedersi se ogni s. sia tale fin dalle sue origini, oppure lo diventi purché perda la sua funzione originaria. Quando si distingue tra s. «realistici» e s. «idealistici», intendendo con i primi quelli che per una civiltà religiosa sono identici con quanto «rappresentano», il significato di s. tende ad annullarsi: tenendo conto della «legge di partecipazione», è chiaro, per es., che quando gli esecutori di un rito di popoli a organizzazione totemistica vestono pelli di animali o si mettono maschere, non mirano tanto a «rappresentare», quanto a «essere» gli antenati totemici; in tal caso non si servono più di s., bensì di mezzi atti a trasformarli in ciò che il s. soltanto esprimerebbe (simile è la funzione di tanti altri cosiddetti s.: l’acqua lustrale non è s., ma mezzo della purificazione effettiva; lo spegnimento e la riaccensione dei fuochi non ‘simboleggia’, ma realmente inaugura l’inizio dell’anno). D’altra parte, i s. «idealistici» si confondono facilmente con segni convenzionali privi di valore simbolico: se la svastica e la stella hanno certamente valore di s. in determinate civiltà arcaiche anche preistoriche, poiché esprimono idee religiose irriducibili a significati codificati, la croce nel cristianesimo e la mezzaluna islamica, pur di origine analoga, sono s. tutt’al più nel senso etimologico, cioè segni convenuti di riconoscimento. Va ricordata infine la reciprocità della relazione simbolica: se la raffigurazione di una donna triforme (Ecate) o con le corna (Hathor) può esser s. della Luna, la Luna, a sua volta, dati i suoi periodi, può essere s. della femminilità; in realtà donna e Luna, in determinate civiltà, sono s. reciproci e intercambiabili di esperienze irriducibili ad altri termini.