CANTONI (Cantone), Simone
È il rappresentante più noto di una famiglia di architetti, attiva da molte generazioni, che doveva concludere con lui e con il fratello Gaetano la sua discendenza. Nacque a Muggio nel 1739 da Pietro, architetto, e da Anna Maria Giannazzi; nel 1753 era a Genova a studiare sotto la direzione del padre e a "levargli qualche fatica". Giovanetto, si esercitava copiando le architetture del padre Pozzi, ma nel 1763 era a Roma per un soggiorno di studi. Un breve periodo alla scuola del Vanvitelli dovette servirgli soprattutto per allontanarlo definitivamente dalle fantasie rococò, ma la sua vera scuola di classicismo fu l'amicizia col napoletano Francesco Lavega.
Insieme i due erano certamente a Roma nell'anno 1764 a misurare e copiare monumenti della città antica, e mantennero poi, il C. da Milano e il Lavega da Pompei dove dirigeva gli scavi, un assiduo e vivace carteggio. Che l'architetto napoletano fosse stato più di un amico e che il C. gli fosse debitore di quella maggiore duttilità che caratterizzò poi il suo stile è confermato da una sua lettera ad A. Tagliafichi. Passato all'Accademia di Parma, il C. nel 1768 vi si diplomò e vinse il premio.
Non a caso a Parma in quegli anni il gusto neoclassico era precocissimo e importato direttamente dalla Francia dall'architetto lionese E. Petitot, chiamato a dirigere quell'Accademia. Il C. si legò di stretta amicizia con Innocenzo Frugoni, e partì da Parma ormai "partitante all'estremo dello stile antico" ed addottrinato quel che bastava per presumere di affermare con le sue opere lo stile neoclassico in Milano e di introdurlo in Genova attraverso l'allievo ed amico A. Tagliafichi, che nel '69 così ragguagliava il maestro: "Immaginatevi se io possa essere in stato a poter introdurre un miglior gusto d'architettura in questa città; e far abattere il cattivo di Barocchi e Roncaglie e confusioni che con profusione di denaro questi Signori studiano d'abelire. Fa bisogno miglior sogetti che a me di riuscirvi". Ma il C. si stabilì a Milano e si apprestò ad offrire la propria opera a quei signori che, fino a quel momento avevano amato "barocchi e roncaglie" al pari dei genovesi, ma apparivano più colti, più pronti ad assimilare il gusto nuovo, più generosi.
L'esordio milanese non fu, però, così brillante come egli aveva sperato. Nel 1769 il Vanvitelli era chiamato a Milano per la trasformazione del palazzo reale e portava con sé l'allievo e aiuto Giuseppe Piermarini, al quale lasciò poi completamente l'incarico che lo avrebbe allontanato per troppo tempo dalle opere intraprese nell'Italia meridionale. Il C. si trovò immischiato nella storia della Regia Fabbrica più per la giovanile illusione di affermarsi subito in Milano quale rappresentante ufficiale del "buon gusto" che per le effettive possibilità mai avute di essere preso in considerazione dalla corte di Vienna. Da questo momento, e fino all'arrivo di Napoleone, il Piermarini sarà l'architetto ufficiale dell'arciduca Ferdinando e il C. dovrà faticare per conquistare gli incarichi delle dimore sia pur regali della nobiltà lombarda.
La tenzone artistica, fomentata più dai sostenitori che dai due protagonisti che ostentavano il più completo disinteresse l'uno per l'altro, si svolse a colpi di purezza di stile, ma alla prima prova il C. sembrò mancare lo scopo. Nel 1772 gli venne commissionata la ristrutturazione del palazzo Mellerio; progettò un corpo centrale ribassato rispetto alle ali con una piccola loggia a due ordini di colonne sottili che introduceva un motivo di grazia settecentesca nel lungo prospetto. Ma questo particolare retrodatato apparve inconcepibile ai contemporanei e l'autore fu rimproverato anche dagli estimatori di aver accondisceso troppo al cattivo gusto del committente. I nobili lombardi non volevano ormai essere secondi a nessuno in fatto di buon gusto; s'eran eruditi sul Palladio e, oltre a criticare la minima scorrettezza, presentavano essi stessi il progetto al quale l'architetto doveva dare attuazione pratica nei modi rigorosamente stabiliti. Dopo una villa a Gernetto per lo stesso conte Mellerio, il C. trovò nel conte Serbelloni un cliente esigentissimo. Nel 1775 gli consegnava i disegni per il palazzo a Porta Orientale che nel 1780 era terminato.
Oltre che la stima del cliente non facile - "un dì si accorgeranno i milanesi di non aver conosciuto e di non essersi prevalsi di più della vostra abilità" -, quest'opera doveva conquistargli l'approvazione ammirata dei contemporanei e dei posteri. La facciata dal lungo svolgimento a tre ordini di finestre ha una loggia rientrante con un timpano. Due archi, del portale e della loggia-lunetta nel timpano, concentrano l'attenzione nella parte centrale, esaltando la semplice nobiltà della facciata che non ha nulla di gelido né di troppo razionale. D'altra parte le conoscenze archeologiche sono qui lezione di misura e non di maniera.
Il Serbelloni stesso del resto dà prova di gusto aristocratico e sobrio nelle minuziose disposizioni inviate al C. per un villino, di campagna di forma ellittica da costruirsi a Gastione Lodigiano: "nel giardino non vi devono essere né tempi, né tempietti, né tempiuccoli", ma vi si doveva poter passeggiare all'ombra a tutte le ore del giorno. Sempre il Serbelloni richiese il disegno per un casino di campagna a Gorgonzola di sei piani, uno diverso dall'altro, "cosa facile da dirsi ma difficile da disegnarsi ed eseguirsi" commenta il Cantoni. E a Gorgonzola, sotto l'occhio del protettore, sorsero alcune fra le sue opere più monumentali di stile rigorosamente neoclassico: mercato, dogana, cimitero nel 1775, e infine la chiesa, la cui costruzione si prolungò dal 1804 oltre la sua morte e fu terminata dal nipote Pier Luigi Fontana.
Il C., che era stato uno dei primi soci onorari dell'Accademia ligustica per la scuola di architettura, veniva informato dal fratello Gaetano sulle possibilità di lavoro a Genova, dove nel 1778 gli si presentò l'occasione per quel grosso incarico pubblico che gli era sfuggito a Milano. Non invitato, presentò un progetto al concorso per la ricostruzione del palazzo ducale, che era andato rovinato in un incendio. Il suo progetto, dalla tecnica ambiziosa, fu approvato e preferito a quello del Tagliafichi e di altri. Così miseramente finiva quella che, almeno per l'architettura genovese, aveva avuto ben più valore di una semplice amicizia.
Il prospetto maestoso del palazzo genovese e ben lontano dalla nobile semplicità del palazzo Serbelloni. Poiché le dimensioni dell'edificio preesistente e della piazza gli precludevano lo sviluppo orizzontale a lui congeniale e tanto amato in terra di Lombardia, per valorizzare in qualche modo il volume il C. ne accentua la verticalità con due ordini di colonne abbinate con notevole effetto chiaroscurale. Il terz'ordine, completamente aggiunto, disperde la tensione plastica della facciata col motivo chiaramente figurativo di statue inserite fra due piatte lesene, culminanti ancora in gruppi marmorei, con un pesante fastigio centrale. Il tetto a spioventi - già molto criticato dai contemporanei - è visibile dietro alla cornice che, fastosa com'è, non avrebbe avuto bisogno di essere appesantita ulteriormente da uno sfondo. Allo stesso gusto sovrabbondante si adegua l'imponente salone del Gran Consiglio. Questa prova davvero non fa rimpiangere un C. architetto ufficiale, ché le opere pubbliche, per quel tanto di maestosità che comportano, sembrano invogliare a spropositare quest'onesto costruttore di architetture domestiche.
Negli anni successivi i nobili milanesi fecero a gara per accaparrarsi i progetti del C., schivo ormai di accademici onori, ma colto, abile affermatore del "buon gusto" senza pedanteria, che sapeva essere sobrio schivando la noia e fantasioso senza incappare in "romanzeschi ritrovati", per dirla con l'austero Serbelloni. E il buon C., oltre a restaurare facciate, simmetrizzare i corpi di fabbrica, introdurre scaloni d'onore e progettare saloni rotondi, ellittici e ottagonali, disegnò stucchi, mobili, argenterie e pezzi di porcellana, e provvide a quadri e damaschi. I clienti erano il marchese Castiglioni, il principe Resina, Giuseppe Pezzoli, per il quale disegnò la facciata interna del palazzo oggi Poldi-Pezzoli, il conte Pertusati per il quale restaurò (1789-91; cfr. ill. in Perogalli-Favole, p. 14) la facciata verso il Naviglio del palmo in contrada della Spiga, opera ammiratissima dai contemporanei e ormai perduta, e ancora il conte Masserati e Antonio Crivelli Visconti, suo caldissimo sostenitore, col quale si legò di vera amicizia. E fu un continuo scarrozzare su e giù per la Brianza a controllare le fabbriche dei casini di campagna, per il principe Belgioioso d'Este ad Albareda, Merate, Corte Sant'Andrea per la sistemazione dei giardini, a Locate per il marchese Trivulzio, a Besnate per il marchese Cigalini, a Oreno per il duca Francesco Scotti (1790-93), a Cremnago dove per Luigi Perego ampliò e restaurò (1794-96) una delle più belle ville della Brianza neoclassica. A Bergamo fu chiamato dal conte Vailetti Medolago a progettargli (1783-89) il palazzo demolito e ristrutturò la casa del marchese Terzi. La fama conquistata a Gorgonzola gli procurò incarichi per nuove chiese a Muggio (1789), a Morbio, Sagno e, la più imponente, a Valmadrera. Qualche volta i parroci gli chiedevano un progetto per l'ingrandimento del coro o per il campanile e il C. accontentava tutti. Quando i nobili clienti milanesi si fecero più scarsi e meno generosi, egli si trasferì a Como, dove lo volevano i Muggiasca, per la trasformazione della villa di Masino (1788-1804), i Porro e i Giovio, a restaurare e progettare palazzi di città e di ville. Dal 1804 l'impegnativo progetto per il liceo Volta e per il seminario lo consegneranno ai posteri come il Piermarini di Como, appellativo attribuitogli forse perché in questa città gli riuscì di coprire quel ruolo ufficiale che a Milano era stato del rivale. Comunque anche a Como il suo capolavoro doveva essere un palazzo privato: la villa dell'Olmo del principe Odescalchi, terminata nella decorazione dopo la sua morte.
L'edificio, dal consueto sviluppo longitudinale, ha un prospetto più animato e ricco del palazzo Serbelloni. Il corpo centrale a nove luci leggermente aggettante si eleva di un piano sui volumi delle ali. Nell'elegante bugnato dell'ordine inferiore si aprono i cinque arconi del portico e le colonne ioniche della loggia soprastante si elevano in ordine unico fino al cornicione lungo due piani di finestre, fra i quali dei tondi con busti classici sostituiscono il consueto fregio. Sul cornicione una balaustrata leggera di elegante disegno sostiene statue classiche e il fastigio dal disegno triangolare ad uso di timpano.
Nel 1805, insieme con C. Barabino, il C. innalzò un arco di trionfo provvisorio, a Genova, per la venuta di Napoleone (G. Hubert, La sculpture dans l'Italie napoléonienne, Paris 1964, p. 295). Negli ultimi suoi anni (1809) gli fu richiesto il progetto di un Pantheon per gli italiani illustri che il viceré Eugenio voleva costruire in Milano. Il C., che ormai risiedeva a Como, declinò l'incarico troppo gravoso per la sua età e la salute malferma, ma la sua passione del progettare doveva essere ancora giovane e felice se nell'Archivio cantonale di Bellinzona si conservano diversi disegni con varianti per questo famedio milanese (Mezzanotte, 1966, ill. 55-59).
Nel 1818 la morte colse il C. nella nativa Muggio, dove aveva restaurato la casa della sua famiglia e la chiesa parrocchiale. Fu sepolto nel cimitero di Gorgonzola.
Fonti e Bibl.: G. Caselli, Nuovo ritratto di Milano in riguardo alle Belle Arti, Milano 1827, pp. 37-39, 92, 243; G. Banchero, Genova e le due Riviere, Genova 1846, p. 190; P. A. Curti, S. C. architetto, in Giorn. dell'ingegnere,architetto e agronomo, III (1856), p. 654; F. Alizeri, Notizie dei professori del disegno in Liguria... Genova 1864-66, I, pp. 104, 176-79, 191; II, pp. 18, 39; O. Grosso, Le costruzioni del Palazzo ducale anteriori e posteriori all'opera del Vannone, in Genova, apr. 1935, p. 10; G. Martinoia, L'architetto S. C. (1739-1818), Bellinzona 1950; G. Chierici, Il palazzo ital., Milano 1957, III, pp. 458 s.; L. Grasso, Razionalismo settecentesco e architettura neoclassica milanese, in In onore di C. Chiodi, Milano 1957, pp. 287, 305; A. Ottino della Chiesa, L'età neoclassica in Lombardia, Como 1959, pp. 18-28; P. Mezzanotte, L'archit. a Milano nel Settecento, in Storia di Milano, XII, Milano 1959, pp. 659-709; Id., L'archit. dal 1796alla caduta del Regno,ibid., XIII, pp. 477-522; A. Merati, Monumenti neoclassici a Monza e nella Brianza, Monza 1965, pp. 161, 169-172; C.L.V. Meekx, Italian Architecture,1750-1914, New Haven-London, 1966, pp. 51-56, 78, 80; G. Mezzanotte, Architett. neoclassica in Lombardia, Napoli 1966, ad Indicem; C. Perogalli-P. Favole, Ville dei navigli lombardi, Milano 1967, ad Indicem; S. Langé, Ville delle provincie di Como,Sondrio e Varese, Milano 1968, ad Indicem; C. Maltese, Appunti per una storia del neoclassicismo a Genova, in Neoclassicismo (Atti del Convegno intern. promosso dal Comité internat. d'histoire de l'art, Londra, settembre 1971), Genova 1973, pp. 77-82.