DELLA TENCA, Simone (Simone d'Arezzo)
Nacque ad Arezzo, probabilmente intorno al 1280, da ser Benvenuto di Bonaventura. Fu certamente notaio (sebbene siano scarsissimi i documenti pervenutici da lui rogati) e forse anche giudice o avvocato; è incerta invece la sua attività di maestro in Arezzo, dove si trova per lo più citato unicamente come testimone e locatore in atti tra il 1315 ed il 1338 (in uno del 1322 è definito "sapiens et discretus vir").
Anche il padre, ser Benvenuto, era notaio, forse uno dei quattro che il 10 marzo 1256 nella cattedrale di Arezzo furono presenti alla stesura dell'atto con cui i ghibellini della città si impegnavano a far pace con i concittadini guelfi.
Nel primo periodo della sua vita il D. abitò una casa nella contrada detta Borgo dell'Orto, contrada in cui il 20 luglio 1304 nacque Francesco Petrarca. Come il Petrarca il D., avvezzo alla pratica della lingua latina ed educato agli esercizi retorici, lasciò presto la città natale e, come già un terzo insigne aretino, Convenevole di Acconcio da Prato, si trasferì ad Avignone per tentare l'esperienza della Curia pontificia.
Ad Avignone come già Convenevole, il D. divenne familiare del cardinale Niccolò da Prato, rimanendo nella sua famiglia anche dopo la partenza del Petrarca da Avignone per Montpellier e per Bologna.
Il cardinale gli ottenne dapprima un canonicato nella cattedrale di Arezzo ed in seguito, nell'agosto del 1316, dal neoeletto pontefice Giovanni XXII, la promessa di un altro canonicato, qualora se ne fosse reso vacante uno, nella cattedrale di quella Verona che, sotto la signoria di Cangrande della Scala, acquistava in questo periodo un posto di crescente centralità nel panorama del preumanesimo italiano: nella lettera, che aggiungeva a quella del suo protettore, al capitolo della Chiesa di Verona per comunicare la richiesta, il D. si definisce scrittore pontificio oltre che notaio del cardinale ostiense. Di quest'ultimo, il 1ºmarzo 1321 in Avignone, redasse il testamento con cui Niccolò da Prato, attraverso precise e minuziose disposizioni, lasciava tra l'altro gran parte dei suoi libri al convento dei domenicani della sua città. Il 5 marzo redigeva un codicillo che il cardinale volle aggiungere prima di morire e, dopo la morte di questo, il 13 maggio, venne nominato tra i procuratori dei suoi esecutori.
Fu senz'altro negli ambienti della Curia avignonese che il D. ebbe modo di riallacciare i contatti con il Petrarca e di conoscere Landolfo Colonna: fu probabilmente da questi incontri che si presentò al Petrarca la possibilità di ricomporre quanto era possibile conoscere degli Ab Urbe condita libri di Livio, anche grazie al fatto che proprio l'amicizia col D. gli offrì la possibilità di collazionare l'esemplare dell'opera in suo possesso con un altro proveniente dalla Biblioteca capitolare di Verona; gli era stato procurato dal notaio aretino, il quale forse è anche l'autore di alcune dotte postille al medesimo codice veronese. Che il D. si fosse impegnato precedentemente nello studio dell'opera liviana emerge anche da un altro episodio: nel 1314, infatti, egli era stato ispiratore, proprio perché entusiasta dell'opera dello storico repubblicano, della richiesta al teologo e commentatore domenicano inglese Nicholas Trevet (o Trivet), da parte del card. Niccolò da Prato, di un commento alle tragedie di Seneca, a seguito del quale ebbe in dono dal cardinale il codice di Seneca con il commento del Trevet, che insieme a commenti dello stesso autore a Boezio e, per l'appunto, a Livio, è elencato tra i libri della sua biblioteca.
Il D. ottenne l'augurato canonicato veronese solo nel 1322 e cominciò a riscuotere il beneficio da esso derivante a partire dal 1323. La sua effettiva residenza nella città scaligera è attestata però soltanto a partire dal 1326, poiché le fonti tacciono fino a questo anno, quando egli risulta presente, insieme con altri, alla concessione della licenza al canonico veronese Bartolomeo de Ervariis.
D'altronde, morto ormai il cardinale Niccolò da Prato, suo protettore, il D. non aveva più motivo di restare, ad Avignone e la scelta di un ritorno in Italia, e proprio a Verona piuttosto che nella natia Arezzo, fu forse determinata, oltre che dal godimento del beneficio, dalla crescente importanza culturale della città sull'Adige. A Verona egli partecipò, spesso in prima persona, alla normale attività del capitolo, per lo più alla stesura dei contratti riguardanti il patrimonio ed alla cura dei rapporti della cattedrale con il legato pontificio e con il patriarca di Aquileia. Non cessò però la sua attività di studio, stimolata dalla vicinanza della ricca Biblioteca capitolare; a tale attività si devono probabilmente anche le assenze dalla città, giustificate da diverse licentiae absentandi, due volte certamente per recarsi ad Avignone: una prima nel 1326 per portare al Petrarca, che vi era tornato da Bologna, la copia del Livio veronese (ora Laurenz. 63, 19) ed una seconda nel 1328 per avviare con lo stesso Petrarca e con Landolfo Colonna il "restauro" della I e della III deca di Tito Livio.
Di ritorno da Avignone il D. portò anche consigli ed informazioni per quanto riguardava la questione della successione nell'archipresbiterato veronese, vacante da alcuni anni per la morte di Pietro Colonna, e il problema, più ampio, della riforma della Chiesa locale, su cui insisteva il patriarca di Aquileia, Pagano Della Torre, per conto del quale il D. agiva in qualità di massario del capitolo, carica che ricoprì fino al 1330. In quest'anno, con una nuova autorizzazione del capitolo, si assentò da Verona per più di quattro mesi, durante i quali si recò tra l'altro a Siena e a Bologna; in quest'ultima città si incontrò con il legato pontificio, Bertrando del Poggetto, con il quale tentò di appianare la questione legata alla morte di Cangrande Della Scala, deceduto l'anno precedente in stato di scomunica, questione che provocava un grave disagio nella città scaligera, colpita dall'interdetto di Giovanni XXII.
Tra il 1335 ed il 1336, grazie anche all'opera del D., si risolsero diverse vicende relative alla Chiesa di Verona: evolsero positivamente i rapporti con il patriarcato di Aquileia, dove, nel frattempo, era morto Pagano Della Torre; la riforma della Chiesa, formalmente avviata nel 1331, ebbe reale impulso dopo l'intervento, nel giugno del 1335, di Giacomo da Carrara, visitatore e riformatore incaricato dal nuovo patriarca; il 29 febbr. 1336 fu accolto e ammesso nel capitolo il nuovo arciprete della cattedrale, Giovanni da Forlì. Con esso venne contemporaneamente ripristinata la carica di vicario ed il primo a ricoprirla fu per l'appunto il D., che l'assunse il 20 maggio seguente per tenerla però ben poco tempo: l'ultimo atto in cui egli compare è infatti del maggio 1337, dopo di che, vecchio e malato, agì sempre per mezzo del procuratore, Goro di Cecco d'Arezzo.
Da un documento del 30 nov. 1338 sappiamo che il D. era morto e che la prebenda da lui goduta veniva concessa ad altri.
Pochi mesi prima, il 12 agosto, egli aveva dettato testamento (di cui si conserva una copia del 1371, eseguita dal notaio Niccolò di Francesco Farolfi e ora nel fondo diplomatico di S. Domenico di Arezzo, conservato all'Archivio di Stato di Firenze), con il quale, oltre a lasciare diverse somme ad ospedali ed istituzioni di Arezzo e a disporre la fondazione, a sue spese, di una cappella nella chiesa di S. Domenico (ne rimane la lastra tombale con epigrafe), provvide a dividere la sua ricca ed erudita biblioteca in due lasciti - quello più cospicuo al convento dei domenicani e l'altro a quello dei francescani della sua città - mentre destinò i libri di grammatica e di arte notarile ad un suo giovane protetto. Da un documento più tardo, e cioè l'inventario redatto il 30 apr. 1340 di alcuni suoi beni rimasti in Verona, compaiono, tra le altre cose, due libri, la prima Pars della Summa di s. Tommaso ed un De arte amandi, lasciati in quella città forse a causa del loro scarso valore.
Fonti e Bibl.: N. Pasqui, La biblioteca di unnotaio aretino del sec. XIV, in Arch. stor. ital., s. 5, IV (1889), pp. 250-255; G.Billanovich, Dal Livio di Raterio (Laur. 63, 19) al Livio del Petrarca (B. H. Harl. 2493), in Italia medioevale e umanistica, II (1959), pp. 136-140, 147 s., 150, 153 s.; Id., Tra Dante e Petrarca, ibid., VIII (1965), pp. 4 s., 10-14, 18, 24 s., 28, 30, 35-38; G. Tristano, Le postille del Petrarca nel Vaticano lat. 2193 (Apuleio, Frontino, Vegezio, Palladio), ibid., XVII (1974), p. 368; R.Avesani, Il preumanesimo veronese, in Storia della cultura veneta, II, Il Trecento, Vicenza 1976, pp. 127 s.; L. Lazzarini, La cultura delle signorie venete e i poeti di corte, ibid., p. 487; L.Muttoni-C. Adami, Un alleato del Petrarca: Simone d'Arezzo, in Italia medioevale e umanistica, XXII (1979), pp. 171-222; G. Billanovich, La tradizione del testo di Livio e le origini dell'umanesimo, I, 1, Tradizione e fortuna di Livio tra medioevo e umanesimo, Padova 1981, pp. 97 ss.; Id., Disegni ital. del Trecento, in Italia medioevale e umanistica, XXV (1982), p. 374;U. Dotti, Vita di Petrarca, Bari 1987, pp. 13 s., 26 s.