DONATI, Simone
Figlio di Forese di Vinciguerra e di quella Gualdrada alla quale un'anonima cronaca (Pseudo Brunetto Latini) imputa la responsabilità occasionale della divisione tra guelfi e ghibellini avvenuta in Firenze, nacque verosimilmente a Firenze probabilmente nel terzo decennio del sec. XIII. La sua famiglia, tra le maggiori della città e forse la più in vista della fazione guelfa, fu costretta all'esilio dopo la sconfitta di Montaperti (1260), ed è appunto al periodo dell'esilio che risale la prima notizia biografica relativa al D., che lo qualifica fin da allora come uno dei massimi esponenti del guelfismo fiorentino. A lui e a Bonaccorso Adimari, infatti, spettò nel 1261 l'incarico di recarsi in Germania dal re fanciullo Corradino di Svevia, per impetrarne l'intervento contro lo zio Manfredi, principale artefice delle disgrazie dei guelfi toscani. L'ambasciata fu formalmente ben accolta, ma non sortì alcun esito concreto e l'esilio per i fuorusciti fiorentini. durò fino al 1266, quando sul campo di battaglia di Benevento Carlo d'Angiò pose fine al dominio svevo. È presumibile che in quello scontro campale anche il D., con il nutrito gruppo degli esuli guelfi, abbia contribuito al successo angioino.
Nel periodo della sua forzata assenza da Firenze i ghibellini avevano inferto ingenti danni ai beni posseduti dal D. per indiviso con i fratelli Buoso e Taddeo, distruggendo due torri con le annesse case che si ergevano nella parrocchia cittadina di S. Maria Alberighi e una torre, due palazzi, case e due mulini nel "popolo" rurale di San Pietro a Quintole nel Valdarno superiore, danno valutato complessivamente in 2.200 libre. L'alto ammontare della cifra e più ancora il genere delle proprietà ci rendono edotti del rilevante patrimonio immobiliare del Donati. Ma la situazione era ora rovesciata e il D. poteva far ritorno a Firenze come uno dei principali capi della fazione vincente. Nel tentativo di ottenere una pacificazione generale in città attraverso unioni matrimoniali tra giovani di famiglie avverse, venne deciso che sua figlia Ravenna andasse sposa a Neri Cozzo degli Uberti, un figlio di Farinata (1267). Come nella quasi totalità di iniziative del genere il risultato politico fu vano (e quello umano tragico), ma la vicenda a suo modo contribuisce a provare l'importanza del personaggio.
In una Firenze divenuta roccaforte del guelfismo il D. fu dunque per più di un ventennio uno dei protagonisti, anche se la sua fama sarebbe stata ampiamente superata negli ultimi anni di vita da quella del figlio Corso. Fra i maggiorenti della Parte guelfa presenziò nel maggio 1273alla donazione formale (in realtà si trattava di un affidamento in protezione) che il conte Alessandro Alberti fece alla Parte dei propri castelli di Mangona, Vernio e Montaguio. In quel medesimo anno fu podestà a Parma, ma le cronache locali lo ricordano per un poco edificante episodio. Pare abbia accusato un popolano di avergli rubato dei cavalli, sottoponendolo a tortura per estorcergli la confessione; il malcapitato sarebbe stato in realtà innocente, ma padre di un'avvenente fanciulla che il D. voleva piegare alle sue voglie. Il fatto, in sé peraltro probabile, rientra nell'alveo della cattiva fama morale che si attribuiva correntemente a molti membri dei Donati; nello stesso D. qualche commentatore dantesco volle ravvisare il personaggio che, con la complicità di Gianni Schicchi dei Cavalcanti, avrebbe contraffatto le volontà testamentarie dello zio Buoso, ed è certo che nel settembre 1277 il giudice del Capitano lo diffidò. insieme ad altri membri della sua consorteria, dal continuare a provocare molestie e a volersi intromettere negli affari dello spedale di Pinti.
Vicende di questo genere - o, meglio, la fama di tali vicende - non sembra comunque che inficiassero la sua carriera politica. Nel 1275 fu podestà di Arezzo e ricevette di nuovo quell'incarico nel dicembre 1277, a sanzionare la vittoria dei nobili aretini sulla parte popolare. Probabilmente fu proprio grazie alla temporanea presenza del D. a capo del Comune che Arezzo otteneva nell'aprile di quell'anno dalla Parte guelfa fiorentina un prestito di 12.000 libre. Nel 1280 alla grande iniziativa di pacificazione cittadina voluta da papa Niccolò III e celebrata dal cardinale Latino Malebranca il D. partecipò a più titoli, come fideiussore guelfo del sesto di Por S. Piero, come cavaliere aureato della massa di Parte guelfa e come garante della detta pace nei confronti di varie famiglie di fede ghibellina.
Negli anni seguenti, mentre il Comune di Firenze vide affermarsi progressivamente la parte popolare, frequentò assiduamente i Consigli cittadini, anche se gli erano preclusi, per la propria qualità di magnate non iscritto ad alcuna arte, incarichi governativi. Nonostante ciò la sua voce si fece sentire spesso nelle assemblee e nelle più ristrette commissioni consiliari, non aliena da accenti demagogici, come quando (29 giugno 1282) insieme a vari altri aristocratici guelfi sembrò appoggiare totocorde la nascente magistratura del'priorato delle arti a detrimento dei governo dei Quattordici, nel quale, secondo il dettato costituzionale stabilito dal cardinal Latino, i guelfi erano costretti a condividere l'accesso in maniera quasi paritetica con i ghibellini. In realtà il popolo fiorentino deteneva ormai potenza economica e conseguentemente capacità politiche tali da perseguire con successo la meta della gestione del potere cittadino in maniera autonoma. In questa situazione il D. dovette dunque rappresentare la parte della minoranza, sia pur ancora influente, temuta e per vari versi coinvolta nelle scelte e nelle iniziative del Comune, particolarmente di politica estera.
L'anziano cavaliere è infatti un ascoltato oratore soprattutto nelle questioni di carattere militare, portavoce di quella che possiamo definire la linea dura del guelfismo fiorentino, perennemente tesa a promuovere la politica dell'espansione territoriale e della lotta senza tregua ai ghibellini toscani. Così, ad esempio, nell'aprile del 1282il D. chiese un intervento contro quegli abitanti di Colle di Val d'Elsa che avevano osato disubbidire al podestà fiorentino Gherardo Sgrana degli Adimari; nel corso del primo semestre del 1285parlò più volte a proposito del conflitto pisano e dell'opportunità di allearsi con Genova e con Lucca. Nel 1290, infine, continuando lo stato di belligeranza nei confronti di Arezzo dopo la vittoria di Campaldino, intervenne spesso con proposte tendenti allo scontro aperto, fino a chiedere il 16giugno la distruzione di Arezzo e una spedizione militare contro la ribelle Anghiari e il Casentino, per radere al suolo i fortilizi dell'antico nemico di Firenze, il conte Guido Novello, mentre il conte Guido di Battifolle, nipote del primo e fino ad allora fedele alleato di Firenze e comproprietario del castello di Poppi, doveva essere tacitato con un indennizzo pecuniario. Ancora nel maggio 1291 volle che si stringessero i tempi per la decisione di una spedizione comune con Lucca contro Pisa; della necessità del prolungamento della guerra pisana parlò il 17 giugno 1292aggiungendo che a quei Fiorentini che non facevano parte dell'esercito fosse imposta una prestanza per finanziare l'impresa.
Fu questo l'ultimo intervento dei D. nel Consiglio di cui abbiamo notizia, ed è certo che nella democratica Firenze di Giano Della Bella ben pochi spazi pubblici saranno rimasti praticabili per un vecchio esponente del guelfismo magnatizio come il Donati. Sopravvisse alle fortune politiche di Giano, ma di poco. Morì a Firenze il 22 luglio 1296, pochi mesi prima che si riaccendesse un nuovo conflitto tra i magnati fiorentini nel quale, secondo una tradizione ormai quasi secolare, la sua famiglia avrebbe avuto un ruolo determinante.
Del D. si conoscono cinque figli: al notissimo Corso e alla già citata Ravenna vanno aggiunti Sinibaldo, Forese e Piccarda, gli ultimi due ricordati anche da Dante (cfr. Enc. Dantesca, II, pp. 560-563, 565-568).
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Firenze, Diplomatico, S. Apollonia, 1277 sett. 6; Firenze, Bibl. naz., Poligrafo Gargani, 725, nº 291; Delizie degli eruditi toscani, IX (1777), pp. 85, 93, 104; XI (1779), p. 236; G. Villani, Cronica, a cura di L. Magheri, Firenze 1823, VI, 83; VII, 15; R. Davidsohn, Forschungen zur Geschichte von Florenz, IV, Berlin 1908, pp. 187, 562; Pseudo Brunetto Latini, Cronica fiorentina, in Testi fiorentini del Dugento e dei primi del Trecento, a cura di A. Schiaffini, Firenze 1954, p. 118; Liber extimationum, a cura di O. Bratto, Güteborg 1956, pp. 72, 75; I. Lori Sanfilippo, La pace del cardinal Latino a Firenze nel 1280. Lasentenza e gli atti complementari, in Bull. dell'Ist. stor. ital. per il Medio Evo e Archivio muratoriano, LXXXIX (1980-81), p. 241; G. Salvemini, Magnati e popolani in Firenze dal 1280 al 1295, Milano 1966, pp. 84, 225; R. Davidsohn, Storia di Firenze, II, Firenze 1969, ad Indicem; IV, ibid. 1960, p. 40; R. Piattoli, Donati, in Enc. Dantesca, II, Roma 1970, pp. 555 ss.