DORIA, Simone
Nacque, presumibilmente a Genova, nella prima metà del sec. XIII e fu trovatore.
Della famiglia Doria nel sec. XIII compaione nei documenti a noi pervenuti tre personaggi che rispondono al nome di Simone, i cui dati spesso si sovrappongono rendendo difficile l'identificazione dei singoli individui. Secondo il Bertoni (Itrovatori d'Italia, p. 100) il trovatore è da riconoscersi in quel Simone Doria che fu negli anni 1265 e 1266 podestà di Savona (cfr. il documento LXXIV pubblicato dal Ferretto e l'attestazione del Canale, Storia di Genova, II, p. 416), mentre ne I trovatori minori di Genova lo riteneva fratello di un Percivalle Doria, trovatore guelfo al servizio di Carlo d'Angiò, intorno al quale rimane solo la discutibile testimonianza di Nostradamus (cfr. G. M. Crescimbeni, Le vite de' più celebri poeti provenzali, tradotti dalla lingua francese nella toscana, Venezia 1722, p. 95). Il D. in questione il 13 genn. 1265 inviò a Genova ambasciatori per designare Tommaso Malocello quale futuro podestà di Savona; l'8 luglio del 1267 figura in un documento stipulato a Genova con il quale fu ratificata la pace conclusa tra i Genovesi ed il maestro dei Templari, Tommaso Berardi, e nel 1293 venne nominato podestà d'Albenga (cfr. G. Rossi, Storia della città e diocesi di Albenga, Albenga 1870, pp. 164, 409). A questa l'ultima notizia sicura che abbiamo di lui, dal momento che in un documento del 1316, citato dallo Schultz (VII, p. 220), è ricordato come già morto. Si tratterebbe, dunque, "di un altro di quei podestà poeti, dati al giure e alle muse" (Bertoni, I trovatori d'Italia, p. 100), di cui il Duecento ci fornisce numerosi esempi, che cercavano e trovavano un diversivo alle solerti cure quotidiane nell'esercizio elegante della rima. Lo Schultz, sulla scorta di due documenti pubblicati dal Belgrano (p. 286), redatti a Genova l'11 marzo e il 30 maggio 1269, lo ritiene figlio di Martin Doria e padre di Ezzelino Doria, signore di Sanremo e di Ceriana e si serve di un altro elemento atto, a suo parere, a definirne ulteriormente la cronologia: la canzone sottilmente lasciva che il D. scambia con un certo Albert, che lo Schultz identifica con Albertet de Sisteron, in cui viene menzionato l'imperatore Federico e che quindi risalirebbe a prima del 1250, data della morte dell'imperatore. Tuttavia, non essendo infrequente nella poesia provenzale l'uso di riferirsi a famosi principi già morti, la citazione non possiede un valore probante. Da scartare decisamente, invece, l'ipotesi del Desimoni che il D. potesse essere figlio di Percivalle Doria, o suo fratello, supposizione sostenuta in parte anche dal Crema (p. 331).
L'opera del D. consta di tre tenso e tre partimen. Il genere della tenso è antico e si ricollega probabilmente alla tradizione dei giullari; struttura e metro sono quelli della canzone trobadorica e la conversazione tra gli interlocutori avviene secondo una regolare alternanza di strofe. I temi del dialogo sono generalmente esperienze d'amore, argomenti letterari, questioni politiche o problemi personali. Il partimen è un tipo particolare di tenso, nato negli anni intorno al 1180, in cui un trovatore sottopone una controversia al suo interlocutore, che può scegliere la tesi da sostenere, mentre il poeta che ha posto la questione deve sostenere la tesi opposta. La controversia viene infine proposta nella tornada ad un giudice per la risoluzione. Temi del partimen sono i numerosi problemi offerti dalla sorprendente razionalizzazione della vita amorosa compiuta dai trovatori, cosi da creare una minuta casistica amorosa che si manifesta in suddivisioni, differenziazioni, alternative decisionali. I temi sono posti spesso con esagerazione parodica. Il fatto, poi, che raramente i partimen discutano dello stesso problema dimostra la familiarità dei poeti e del pubblico con lo stile ed i contenuti di questo genere letterario.
Due partimen e due tenso sono scambiati con il trovatore Lanfranco Cicala (Cigala), una breve tenzone, mutila, con Giacomo Grillo, trovatore anch'egli, appartenente come Cicala a quellImportante cenacolo trobadorico di ambiente borghese che fu Genova nel XIII secolo. Un partimen, assai interessante, ha come interlocutore un certo Alberto. Si è già detto dell'identificazione di quest'ultimo, proposta dallo Schultz, con Albertet de Sisteron, che visse nel primo ventennio del XIII secolo e che frequentò la corte dei marchesi di Monferrato e quella dei Malaspina. Un componimento di questo trovatore parla di un lungo amore per una donna genovese e ha fatto supporre allo Schultz, ma senza troppa convinzione, una sua dimora in quella città. Ancora più debole appare l'ipotesi dei Bertoni (Trovatori d'Italia, p. 101) che si tratti di un altro trovatore genovese da identificare con un Alberto Fieschi che compare in un documento del 31 genn. 1253 insieme con Luca Grimaldi. Chi fosse l'interlocutore del D. resta dunque un problema.
Cinque dei componimenti del D. sono conservati nel ms. a1 (Modena, Bibl. Estense, Campori, gamma N. 8. 4, 11, 12, 13, pp. 572, 596, 598, 609, 614), la seconda parte di una preziosa silloge provenzale, copia del canzoniere di Bernart Amoros, collazionata per più della metà dallo studioso cinquecentesco Piero di Simon del Nero, cultore di studi provenzali e raccoglitore di manoscritti antichi. I componimenti furono pubblicati con uno studio sulla storia esterna del ms. dal Bertoni (Ilcanzoniere provenzale di Bernart Amoros, Fribourg 1911). Uno di essi, Car es tant conoissenz vos voil, è tradito anche dal ms. O della Bibl. ap. Vaticana, Vat. lat. 3208 (per la descrizione del quale si rinvia a C. De Lollis, Il canzoniere provenzale O, in Atti della R. Acc. de Lincei, cl. di scienze morali stor. e fil., s. 4, II [1886], pp. 1-111), mentre il solo ms. 7 (Bibl. naz. di Parigi, Fonds Franç. 15211), scritto in Italia, tramanda il partimen tra il D. e Ambert. La prima tenso, Segne'n Lafranc, tant m'a sobrat amors, prima secondo l'ordine di a1, ché un ordine cronologico preciso non è possibile ricostruire in mancanza di riferimenti storici, è quella tra il D. e Lanfranco Cicala, chiamato rispettosamente "Segne'n Lafranc", mentre questi lo ricambia più familiarmente con l'appellativo "Amics Symon", segno della maggiore giovinezza del D. rispetto a Cicala. Il testo è formato da sei coblas unissonans e due tornadas di decasillabi maschili e femminili secondo lo schema 10a 10b 10a 10b 10'c 10d 10d 10'c, di cui il Frank (I, p. 156) registra solo un altro esempio. Il D. confida al giudice trovatore la pena per l'amore non corrisposto e, secondo i modi del tradizionale paradosso dell'amore cortese, rivendica il diritto, rispetto a Lanfranco che sembra negarglielo, di ritrarre il suo stato d'animo nella consueta dialettica piacere-sofferenza. Nella seconda tenso, Segne'n Lafrane, car es sobresabenz, si dibattono ancora i temi costanti dell'amore cortese: il D. invoca nuovamente la "sapienza" amorosa di Lanfranco, o sobresabenz", e gli chiede consiglio in una specifica questione: è bene lodare apertamente la donna che si ama? Il D. è trattenuto dal farlo, per quanto ne senta l'impulso potente, dal timore che la lode della bellezza faccia nascere un eccessivo orgoglio nella donna, tale che possa diminuirne la benevolenza nei suoi confronti. Lanfranco risponde che se la donna gli togliesse benevolenza e cortesia in cambio del suo omaggio, il D. avrebbe rivolto il suo amore ed il suo pensiero ad una dama immeritevole; di conseguenza lo esorta a non avere timore, poiché in ella invece è certamente valore e conoscenza e la ricompensa sarà magnifica allorché verrà lodata. La tenso presenta uno schema rnetrico molto frequente nella lirica trobadorica di 8 strofe unissonanti e due tornadas: 10a 10b 10'c 10d 10d.
La contraddizione tra apparenza e realtà, tra onore e fama costituiscono il tema dell'importante partimen Amics Symon, si.us platz, vostra semblanza, che vede come protagonisti il D. e Lanfranco Cicala. Si discute se è da preferire chi è liberale per esigenza interiore o chi si dimostra tale per conseguire fama. Il D. nega a chi è avido e dissimula la sua vera natura il diritto di ottenere onore: ad un'etica coerente non può bastare la bella apparenza, anche se questa comporta risultati concretamente positivi. Di parere contrario è Lanfranco, il quale, invece, considera come un merito particolare la rimozione della cupidigia, la coercizione degli istinti finalizzata ad uno scopo determinato. Il partimen rivela in atto un processo di trasformazione di obblighi autenticamente morali in una convenzione, ugualmente vincolante, ma destituita ormai di qualsiasi motivazione etica, in nome della quale possono essere posti sullo stesso piano coloro che agiscono bene spontaneamente e coloro che si dimostrano liberali per pura brama di onori. A Giacomo Grillo, "en cui es conoissenza", viene inviata in giudizio la tenzone. Il componimento è composto di otto strofe e due tornadas di decasillabi alternativamente maschili e femminili: 10'a 10b 10'a 10b 10'a 10b 10'a 10b 10'a. Nel secondo partimen che il D. scambia con Lanfranco Cicala, Car es tant conossenz vos voil, il tema dibattuto è se debba essere preferibile conquistare il cuore di una "valen donma" per virtù di molto "saber", "sapienza" nella particolare accezione di valore mondano che il termine, proveniente dal lessico intellettuale, ha acquisito nel codice trobadorico, o per "proeza" (prodezza), che va intesa come il prestigio che merita l'amante nel comportarsi secondo la norma cortese. Lanfranco Cicala è del parere che troppo senno è nemico dell'amore e non può condurre al "Joi" (gioia), altro temine-chiave della lirica cortese, che finisce per identificarsi con l'amore stesso, ne esprime l'estremo grado sentimentale e diviene condizione essenziale e profonda del poetare stesso. Il D. teme, invece, che l'abbandono del "sen" porti alla "folia" (follia), che per i trovatori è sinonimo di trasgressione, perché può condurre all'oblio di "mezura" (misura), ossia dell'obbligo di comportarsi con moderazione e discrezione. Ancora una volta come giudice viene invocato Giacomo Grillo "q'es gais e pros" ("che è gaio d'amore e prode").
Di carattere erotico è il tema esposto nel partimen tra il D. e Albert, N'Albertet, chauçeç la cal mais vos plairia, così come in numerosi altri componimenti trobadorici, tenso o partimen che fossero, segno che la sensualità, come principio di immanenza, pur in conflitto con l'ideale di un comportamento sempre più spiritualizzato, mantenne sempre il suo valore all'intemo della civiltà cortese. È il D. a domandare al suo interlocutore se preferirebbe avere a propria disposizione la donna amata ogni giorno calzata e vestita in un palazzo o tutta nuda, come più gli piacesse, ogni notte in un ricco letto. Oggetto del contendere, pur adombrato nella tematica erotica, è in realtà l'eterno paradosso dell'amore cortese, continuamente oscillante tra desiderio e soddisfacimento, in una tensione verso un fine sempre sperato e mai raggiunto, che da sola può risvegliare e sviluppare le capacità dell'uomo. Il D. è sostenitore della tesi più "sensuale", mentre Albert è per una concezione dell'amore che separa istinto ed ideale. Il testo è a "coblas doblas", in cui ciascuna rima viene ripetuta a gruppi di due strofe, secondo lo schema 10'a 10b 10'a 10b 10'a 10b 10'a, di modesta frequenza nella lirica trobadorica.
L'ultima tensone, sempre nell'ordine di successione del ms. a1, Segne'n Iacme Grils, e.us deman, viene scambiata con Jacme Grils, la forma provenzale del nome di- Giacomo Grillo, qui interlocutore diretto del D., mentre in due altre occasioni era stato giudice nei partimen. Anche in questo componimento, comunque, il D. si rivolge a Giacomo Grillo con deferenza e rispetto, con il titolo di "Segne'n", perché è "larc e ben istan" ("liberale e pieno di qualità"), "per rie pretz sobeiran / e per saber ... mentaubutz" ("per ricco ed elevato pregio e per saggezza ... / in fama"). La tenso, di sole tre strofe, certamente incompleta in quanto manca di almeno una strofa, poiché il testo doveva essere a "coblas doblas", è composta in versi ottosillabi secondo lo schema 8a 8a 8a 8b 8b 8b. Il D. interroga Giacomo Grillo sui motivi della decadenza dei tempi attuali in cui ogni piacere mondano è perduto e trascurata ogni galanteria. La risposta del trovatore è che la radice e la causa di ogni male è "cobeitatz" (cupidigia), che si contrappone alla virtù cardine del codice cortese, quella "largueza" (liberalità) da cui dipende tutto il sistema di vita trobadorico, che dall'avidità del possesso potrebbe venire scardinato.
Il provenzale usato dal D., che resta per lui e per gli altri trovatori italiani una lingua di cultura, appresa dalla lettura dei testi poetici di Provenza, non presenta anomalie lessicali, né particolari caratteristiche grammaticali. Assai regolare è anche la metrica dei componimenti in cui le rime, tutte perfette, sono composte in "coblas unissonans", la combinazione strofica più comune, o in "coblas doblas". Significativo l'uso prevalente del decasillabo, che, raro alle origini, si diffonde soprattutto nei tardi trovatori.
L'edizione critica dei testi del D. è offerta, con traduzione e note, da G. Bertoni, Itrovatori minori di Genova, Dresden 1903, pp. 3-15, 38-43, 66-71 (in cui è l'indicazione delle edizioni precedenti), poi riveduta e corretta, in I trovatori d'Italia, Modena 1915, pp. 384-389, 392-408, 569-571, 573-577. Per i testi che hanno come interlocutore Lanfranco Cicala si veda l'edizione critica a cura di F. Branciforti, Il canzoniere di L. Cigala, Firenze 1954, pp. 136-140, 141-144, 159-169.
Fonti e Bibl.: Per la biografia, oltre al profilo storico tracciato dal Bertoni nell'Intr. a I trovatori minori, cit., pp. XXII-XXIX, e a I trovatori d'Italia, pp. 100 s., si rimanda agli interventi successivi di O. Schultz in Zeitschrift für romanische Philologie, VII (1883), pp. 220 s.; IX (1885), pp. 406-407; X (1886), p. 596; alle raccolte di documenti curate da G. Belgrano, Documenti inediti riguardanti le due crociate di s. Lodovico, Genova 1859, p. 286; da C. Desimoni, Il marchese di Monferrato Guglielmo il Vecchio e la sua famiglia, in Giornale ligustico di archeologia, storia e letteratura, XIII (1886), p. 348, n. 1; da A. Ferretto, Documenti intorno ai trovatori Percivalle e S. Doria, in Studi medievali, I (1904-5), pp. 126-151; II (1906-1907), pp. 113-283; altre notizie di carattere storico in L. Canale, Storia di Genova, II, Genova 1897, p. 316, e in L. Crema, Percivalle alla corte di Manfredi III di Saluzzo e Percivalle Doria poeta provenzale, in Archivum Romanicum, XII (1928), p. 331. Cfr. inoltre I. Frank, Répertoire métrique de la poésie des troubadours, I, Paris 1966, pp. 14, 40 s., 63, 116, 156; E. Kölher, Sociologia della fin'amor. Saggi trobadorici, a cura di M. Mancini, Padova 1976, pp. 67 ss.