ENGHELFREDI (de Engelfredis, Hengelfredis, Hengilfredis), Simone (Simeon, Symeon)
Secondo le unanimi attestazioni documentarie, l'E. era figlio di Enghelfredo, a sua volta figlio di Paduano, della contrada di S. Clemente di Padova, città dove l'E. verosimilmente nacque intorno alla metà del Duecento. Giurisperito e quasi certamente autore di una ricca collezione di testi e pareri dei rinascente diritto dei secoli XII-XIII, fu esponente di spicco di quella schiera di uomini di legge versati nell'amministrazione della cosa pubblica che nella matura età comunale furono chiamati in qualità di tecnici ad occupare le principali magistrature cittadine dell'Italia centrosettentrionale.
La cronachistica trecentesca annovera gli Enghelfredi tra le più cospicue famiglie della Padova di inizio secolo, pur sottolineandone la recente fortuna e l'origine popolare: Enghelfredo, padre dell'E., sarebbe stato un semplice sarto e straccivendolo, arricchitosi spartendosi con altri le sostanze del signore della Marca Trevigiana Ezzelino da Romano, di cui era tesoriere. In realtà vari atti privati indicano già nel nonno dell'E., Paduano, un sarto e un mercante (forse di panni) provvisto di discrete facoltà economiche e di un certo prestigio sociale, mentre lo stesso Enghelfredo già prima del 1281 risulta investito a titolo feudale dal vescovo di Padova di decime nei villaggi di Sant'Angelo e Sant'Agata, a qualche decina di chilometri dalla città. Certe indicazioni fanno pensare che entrambi abbiano contribuito all'affermazione della famiglia anche mediante l'usura, largamente diffusa presso molti uomini nuovi della classe di governo locale. Comunque sia, è vero che solo con la generazione dell'E. prese corpo un aggregato familiare di rilievo, conosciuto e designato a Padova con la formula cognominante "de Engelfredis".
Avviato agli studi, come numerosi membri della emergente borghesia che assunse le redini della "comunanza" padovana di fine Duecento, l'E. si addottorò m legge a Bologna, sede prestigiosa di formazione di altri intellettuali padovani di talento, come ad es. il cronista-notaio Rolandino. Nell'aprile del 1286 egli faceva il suo ingresso ufficiale nel Collegio dei dottori giuristi della città natale, un ristretto organismo corporativo raggruppante i laureati in giurisprudenza qui residenti, padovani e non. Da tale data egli appare normalmente designato a Padova come iudex ordinarius. La qualifica di doctor legum, che gli è pure di tanto in tanto attribuita, non consente di attribuirgli ipso facto ilruolo di professore nello Studio di Padova, come è stato proposto.
Al 1290risale il suo primo incarico documentato come podestà di professione fuori Padova, precisamente a Bergamo. Già durante questa esperienza egli sembra aver ispirato la sua azione a direttive destinate a emergere con nettezza nella posteriore vita pubblica. Nel suo testamento egli ricorda infatti la scomunica in cui era incorso facendo decapitare un converso, tale Giacomo da Lodi, proprio nel corso della podesteria bergamasca. Pur provenendo da una realtà comunale come quella padovana, che a cavallo dei secc. XIII-XIV si segnalò come un caposaldo del guelfismo dell'Italia settentrionale, egli sembra aver chiaramente abbracciato, in dottrina e nell'agire pratico, un atteggiamento di stampo "giurisdizionalista", comune in quell'ambito e in quel periodo ad altri intellettuali, fra i quali il più giovane Marsilio da Padova.
Nonostante le sue inclinazioni politiche, in senso lato ghibelline, non collimassero con i sentimenti prevalenti in seno al ceto dominante della città natale, questa gli tributò nondimeno sempre stima e considerazione e gli conferi incarichi di assoluta fiducia. Nel 1292 fu eletto fra i quattro sapientes incaricati di provvedere alle fortificazioni di Castelbaldo, un borgo franco fondato con evidenti finalità espansionistiche ai confini meridionali del contado padovano, lungo il corso dell'Adige. L'anno successivo non ebbe difficoltà ad essere designato quale podestà di Vicenza, il principale fra i centri sottoposti politicamente a Padova. Anche le fonti di parte vicentina, palesemente ostili al governo padovano, riconoscono che fece buona prova di sé e osservano compiaciute che "distrusse molti malfattori e conferi audacia e vigore ai ghibellini e depresse i guelfi, poiché era di parte imperiale" (cfr. Smereglo). Di certo favori l'invio di contingenti vicentini in una campagna militare contro gli Estensi ' campioni della pars Ecclesiae nel Veneto, ma non si rifiutò, in ossequio ai suoi doveri d'ufficio, di liquidare i beni di un eretico defunto, su assenso dell'inquisitore e "secundum formam papalium et imperialium constitutionum". Nel 1306, in occasione di una ulteriore podesteria a Vicenza, secondo i cronisti "combatté con accanimento i malfattori e ne fece impiccare parecchi". Ma una lettera inviatagli giusto in quell'anno dal vicario vescovile vicentino a tutela del privilegio di foro ecclesiastico mostra ancora una volta il particolare vigore e l'inflessibilità dell'E. nel colpire, dove c'erano, anche abusi e crimini della pars guelfa e delle stesse persone di Chiesa.
Se resta difficile chiarire le ragioni e il senso di alcune chiamate in sedi anche piuttosto lontane dalla madrepatria, sempre per assumervi ruoli di prestigio nell'esecutivo dei rispettivi governi (capitano del Popolo a Todi nel 1295; podestà ad Orvieto nel 1296; podestà a Trieste nel 1302), è più agevole attribuire un significato più o meno scopertamente politico ad altri spostamenti: tra questi il temporaneo approdo a Verona, dove nell'aprile del 1307 si trovò impegnato come podestà accanto al capitaneus generalis Alboino Della Scala nella formalizzazione di una lega raggruppante Signorie e Comuni della media Padania allineati su similari posizioni "ghibelline"; o ancora il capitaneato del Popolo tenuto a Modena tra il 1307 e il 1308, all'indomani dell'espulsione dalla città degli Estensi e dei loro sostenitori; o infine l'ufficio podestarile ricoperto durante l'anno 1300 a Pisa, in quello stesso scacchiere toscano che l'avrebbe visto promosso a vicario di Arrigo VII un decennio dopo.
Una conoscenza più approfondita della formazione culturale e degli orientamenti ideali dell'E. ha permesso di giungere negli ultimi tempi a una valutazione più appropriata del suo manifesto ghibellinismo; che non sembra riducibile a opzioni politiche spicciole e circoscritte o ad opportunismi familiari o di classe, ma si riattacca piuttosto a una convinta adesione alla forza del diritto contro il dilagare dell'illegalità e della violenza per opera di partiti e gruppi politici locali variamente denominati e nel concreto spesso agitanti la bandiera del guelfismo; convinzione che a sua volta si salda con una sincera fiducia nel ruolo dell'imperatore quale supremo moderatore della società e imparziale guardiano delle leggi. Maturate in sede teorica attraverso il costante contatto coi giuristi di scuola e le loro opere, tali idee furono alla base di un impegno professionale altamente qualificato e rigoroso, profuso in contesti e situazioni assai diverse: "borius et legalis rector" lo definisce il giudice e cronista padovano Giovanni Da Nono poco dopo la morte, mentre dallo stesso ambiente della Curia vescovile di Vicenza si lodava la sua "prudencia" e la "preclara iusticie fama".
Esemplare può ritenersi, sotto questo profilo, l'esperienza di podestà a Bologna tra il 1304 e il 1305. L'apparente incongruenza di un simile incarico in una città considerata all'epoca una roccaforte del guelfismo, padano va appunto spiegata solo in ragione di fattori umani e culturali che avevano contribuito a far conoscere e apprezzare l'E. in quell'ambiente forse fin dall'epoca degli studi universitari. Un atto del 1305 lo mostra infatti intento a far redigere l'inventario dei beni e dei libri del professore Tommaso Lamandini, priore di S.Antonio di Bologna, addottoratosi a sua volta nel 1295 a Padova, ove era morto insegnando diritto canonico. Per l'occasione l'E., in veste di podestà, accoglieva l'istanza della madre del defunto, volta ad ottenere dai governanti del Comune veneto il saldo dei residui di due anni d'insegnamento non corrisposti al figlio.
Erano da tempo noti i rapporti di amicizia intrattenuti a Padova dall'E. con giuristi e professori (i dottori delle leggi Pace Tadi, padovano, e Ruggero Bentaccordi, fiorentino; il magister gramatice Paganino, che apri scuola a Padova e fu poi a Venezia). Recentemente si è riconosciuto nell'E. l'ideatore di una silloge di materiali giuridici (quaestiones, distinctiones, additiones, ecc., oltre a cospicui frammenti di letture) che rinvia all'ambiente padovano e risulta composta tra il 1283 e il 1290. L'autore, che ha sparso in tutto il codice (il ms. CO 40 dell'Archivio di Stato di Olomouc) aggiunte e integrazioni siglate col nome di "Simone", è a conoscenza della più aggiornata cultura accademico-giuridica del tempo (Accursio da Reggio, Guido da Baisio e i loro maestri, Omobono e Guido da Suzzara) e si mostra anche capace di modificare e selezionare i testi, per finalità eminentemente "pratiche" nell'ambito comunale (processi, validità della consuetudo, competenze degli ufficiali comunali, applicabilità della normativa statutaria e suoi rapporti con lo ius commune, ecc.). La scoperta ribadisce l'originalità e l'efficacia dell'azione dell'E., basata sia sulla scienza sia sulla pratica, ed è prova della elaborazione di un nuovo diritto, funzionale alle esigenze del "buon governo" cittadino su cui si misurò la parte preponderante e più qualificata della cultura giuridica del secondo Duecento italiano. Si spiega cosi meglio una carriera brillante e per molti aspetti singolare, come quella dell'E., e, indirettamente, anche la fortuna di tutta una nutrita schiera di teorici e tecnici della legge padovani variamente collegati con l'università e i suoi studi (dai Buzzacarini ai Caligine, ai Campanati, ai Doto, agli Enselmini, ai da Prato, ai Tadi, ai da Teolo, e da Terradura, ai da Vigodarzere, fino a personaggi più noti segnalatisi anche per interessi letterari, quali Aldevrandino Mezzabati e Rolando da Piazzola), i quali sciamarono come podestà, vicari, capitani del Popolo, difensori delle arti, giudici e assessori in varie città italiane tra Due e Trecento, in un'epoca in cui sia la Toscana sia la Lombardia sollecitavano alla testa dei loro Comuni rettori padovani.
L'E. mori repentinamente, senza lasciare figli, il 27 nov. 1311 ad Arezzo, dove aveva da poco assunto l'incarico di vicario imperiale, pacificando guelfi e ghibellini.
Dal testamento, fatto redigere il 30 sett. 1310, e da altri atti di minore importanza, veniamo a conoscere alcuni tratti della personalità e della vita privata dell'Enghelfredi. La moglie, Mabilia Rafaldi, sopravvissutagli, apparteneva a una famiglia di milites del piccolo centro di Este. Dei numerosi familiari dell'E. conosciamo le sorelle Navilia, Paduana, Luca, Zilia, Francesca, più altre due naturali, Lucheta e Caterina. Fratelli dell'E. erano sicuramente Pietro Zoto e Antonio, mentre fratellastri erano probabilmente Enselmino e Giovanni Cane, cavaliere e forse pure giudice, i cui figli (Francesco detto Mucio, Paduano, Enghelfredo e Guecello) nel 1309 risultano residenti con numerosa servitù nel villaggio di Taggi di Sopra. Di essi e di un più folto aggregato parentale denominato egualmente "de Hengelfredis" sappiamo che furono diseredati dall'E. in quanto colpevoli di violente lotte fratricide che portarono alla rovina del casato. Nell'ambiente cittadino di Padova l'E. intrattenne speciali rapporti, giustificati forse anche da affinità di idee politiche, colle famiglie Paltanieri, Crosna, Manfredi e soprattutto Enselmini, con cui gli Enghelfredi erano probabilmente apparentati per via di matrimonio.
Si sa che il cospicuo patrimonio dell'E. comprendeva un palazzo merlato e una serie di adiacenti immobili posti tra le contrade di S. Andrea e S. Lucia; imprecisata resta l'entità dei possessi vantati nel contado, tra i quali ben 10 mansi nel villaggio di Sant'Angelo, che l'E. vendette nel 1310 per la notevole somma di 10.000 lire. Sul piano spirituale sono assodati gli stretti legami dell'E. con la comunità conventuale di S. Antonio di Padova, donde veniva il suo confessore e presso la cui chiesa egli volle essere sepolto, come gli antenati, in un'apposita arca.
Enselmino, fratello, o forse fratellastro dell'E., fu come lui giudice, ma ebbe una vita pubblica infinitamente più umbratile e di fatto circoscritta entro i confini della patria padovana. Da una serie di circostanze suggerite dalla documentazione si può arguire che il nome di battesimo gli derivò da un nonno materno appartenente alla famiglia Enselmini, che fu direttamente collegata con gli Enghelfredi e annoverò nello stesso periodo pure un Enselmino che si segnalò nella stessa attività di giurista e di podestà semiprofessionale. Nel 1281 Enselmino entrò a far parte del Collegio dei dottori di diritto di Padova insieme con un altro fratello di nome Giovanni (o Giovanni Cane). Di qui l'opinione, indimostrata, che egli sia stato anche professore. Degli incarichi politicoamministrativi ricoperti nel Comune d'origine è noto solo quello di anziano della Comunanza nel 1293, mentre le podesterie di Bassano e di Vicenza, affidategli rispettivamente nel 1292 e nel 1303-1304, vanno inserite nel normale cursus dei magistrati padovani del tempo. Una scarna notizia di cronaca ci informa che mori appunto mentre assolveva tale ultimo compito. Il pochissimo che si può desumere dalle fonti che lo riguardano conferma che, quantunque giudice, egli continuò a lucrare in settori economici che appartenevano alla tradizione familiare: fu proprietario di una serie di botteghe per il commercio dei panni vecchi e di una stazione di cambio, valutate poco dopo la morte circa 8.000 lire. Ebbe numerosa prole, che continuò a vivere nella medesima casa cittadina di S. Clemente che era stata degli antenati. Un atto del 1309 ci fa conoscere il nome della vedova, la nobildonna Inida di Clarello Lenguazzi e dei figli, Nicolò, Daniele, Clarello e Tavanello, tutti solidalmente intenti a liquidare parte delle sostanze comuni, tra cui un palazzo merlato: un episodio che va forse connesso con oscure difficoltà e tensioni subentrate nella stirpe degli Enghelfredi, al principio del Trecento, causandone rapidamente il declino.
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