VENTIMIGLIA, Simone I
– Nacque nel 1485 da Enrico III, marchese di Geraci, e da Eleonora de Luna e Cardona.
Successe al fratello primogenito Filippo nel marchesato di Geraci ufficialmente l’8 giugno 1502. Con lui – che il notaio calabrese redattore del suo testamento indicava come «persona literata» (Archivio di Stato di Palermo, Archivio privato Moncada, vol. 1415, c. 102r) − i Ventimiglia riuscirono, se non a riprendere l’antico ruolo, a segnare con il tempo una presenza assai più incisiva nella politica siciliana e a consolidare il marchesato, grazie al recupero delle baronie alienate in precedenza e all’acquisto della giurisdizione feudale sull’intero marchesato (1522), con un ulteriore indebitamento però, i cui costi saranno duramente pagati dalle generazioni successive (Cancila, 2016, pp. 239-278).
Il primo problema che il diciassettenne Simone dovette affrontare fu quello della restituzione di una parte della dote alla cognata Isabella Moncada, figlia di Guglielmo Raimondo Moncada, conte di Caltanissetta e di Adernò nonché maestro giustiziere del Regno di Sicilia. Fu risolto grazie al matrimonio nel 1502 con la ventunenne Isabella (1481-1553), dalla quale nacquero Giovanni II, Eleonora, Diana, Emilia, Margherita e il sacerdote Cesare. Continuava comunque a rimanere molto indebitato perché la rendita del marchesato non era sufficiente a far fronte alle spese che il ruolo comportava, tra cui quelle militari piuttosto rilevanti, e al peso delle rendite passive che vi gravavano. Una parte consistente degli oneri era dovuta al pesante prezzo (15.000 fiorini) pagato nel 1490 per il riscatto del marchesato che Ferdinando il Cattolico aveva fatto confiscare nel 1485 al padre Enrico.
A creargli problemi erano anche i vassalli di Geraci, di Tusa e di San Mauro. A Geraci nel 1503 Simone si oppose alla vendita di un territorio dell’Università per pagare il regio donativo. Quattro anni dopo, nel 1507, la popolazione di Geraci accusò di uso indebito del denaro e del patrimonio pubblico gli amministratori comunali, che nelle terre feudali erano scelti proprio dal feudatario tra le persone di sua fiducia. Chiedeva insistentemente di visionare i conti delle terre comuni, della cui cessione in affitto si erano occupati il marchese e i suoi ufficiali. E, poiché Simone fece condurre in carcere a Castelbuono numerosi abitanti, una delegazione di geracesi si recò a Palermo, dove nel 1514 ottenne dal viceré la regia salvaguardia per se stessi, per i detenuti, le loro famiglie e i loro beni.
Anche a Tusa, i rapporti con i vassalli erano deteriorati. Nel 1509 il marchese, sostenuto da una parte della popolazione, fece incarcerare e malmenare l’arciprete e un sacerdote, ai quali il viceré aveva ordinato di ingabellare le terre comuni allo scopo di reperire il denaro necessario a pagare il regio donativo. Ne seguì la denunzia contro di lui e nel 1510 si stipulò un accordo: il marchese autorizzava i giurati a potere ingabellare e persino a vendere, sia pure con patto di ricompra, i terreni comuni, al fine di soddisfare la Regia Corte; inoltre rinunziava per sé e i suoi eredi anche a qualsiasi pretesa sulle terre comuni e acconsentiva a nominare in futuro come giurati soltanto «persuni oriundi, zoè nati in dicta terra» (Filangeri, 2009, p. 265).
Con i vassalli di San Mauro nel 1515 si pervenne a un accordo che pose fine a una lunga serie di liti risalente agli anni Ottanta del Quattrocento. Simone aveva messo in discussione alcune concessioni del padre e rivendicato anche il possesso di alcuni feudi del territorio. Nel timore di una sentenza sfavorevole e per evitare ulteriori spese, la popolazione di San Mauro, riunita in consiglio civico, si convinceva dell’opportunità di ricontrattare le antiche concessioni e gli vendeva sei feudi con diritto di riscatto. Rimanevano in sospeso i conti con il fisco, che reclamava il pagamento dell’imposta sulla transazione, cosicché, nel novembre del 1516, il presidente del Regno − il conte di Caltabellotta Gian Vincenzo de Luna, che era succeduto proprio a Ventimiglia nella carica − inviò un commissario a Castelbuono e a San Mauro per recuperare il debito residuo, ricorrendo anche al sequestro di bestiame presente nei feudi e alla sua vendita all’asta.
Tra i Ventimiglia e i de Luna non correva buon sangue e l’inimicizia avrebbe coinvolto anche le generazioni successive. Simone Ventimiglia e Gian Vincenzo de Luna erano cognati e soprattutto cugini, l’uno figlio di Eleonora de Luna e l’altro figlio di Sigismondo de Luna, fratello di Eleonora nonché di Carlo, conte di Caltabellotta. Alla morte senza eredi diretti di Carlo, Eleonora era riuscita a ottenere la successione nella contea di Caltabellotta contro il nipote Gian Vincenzo (aprile 1497). Sembrava un bel colpo per i Ventimiglia, ma alla fine, nel 1511, dopo la morte di Eleonora, Gian Vincenzo riuscì a ottenere presso la Regia Corte una sentenza favorevole proprio contro il marchese di Geraci e riprese possesso della contea.
Due anni dopo, nel 1513, Simone registrò un nuovo insuccesso: a causa di un incredibile provvedimento di Ferdinando il Cattolico gli fu negato l’esercizio del riscatto a suo favore della baronia di Castelluzzo (Castel di Lucio) dagli Ansalone, fedeli alla Corona e difesi dal noto giurista Blasco Lanza. Nominato giudice della Regia Corte, Blasco infatti non lasciò, come avrebbe dovuto, la difesa degli Ansalone, ma ottenne – per intervento diretto del sovrano – una apposita deroga che gli consentì di essere parte e giudice nello stesso processo. Non è senza significato che la deroga riguardasse il solo caso in cui erano interessati come parte i Ventimiglia.
I Ventimiglia di Geraci non erano più riusciti a rientrare nelle simpatie del sovrano e a riappropriarsi dell’antico potere. Sin dalla sua ascesa al trono di Sicilia nel 1474 Ferdinando era stato ben deciso a ridimensionare sia lo strapotere che alcune famiglie nobiliari (Ventimiglia, Santapau) avevano acquisito, grazie anche alle numerose concessioni dei suoi predecessori, sia a ridurne il peso sulla scena politica siciliana a vantaggio di altre famiglie feudali, come appunto i de Luna, i Moncada, i Branciforti, nonché di esponenti di rilievo del patriziato urbano, più disponibili nei confronti della linea politica di accentramento che egli intendeva portare avanti. E che non perdesse occasione per mortificarli lo dimostra anche la decisione sfavorevole ai Ventimiglia di Geraci in una controversia che all’inizio del secolo li aveva opposti a Giovanni Artale Ventimiglia, barone di Sinagra. Costui aveva chiesto a Ferdinando il Cattolico di potere inserire nel proprio stemma le armi dei sovrani aragonesi di Sicilia, sulla base di un privilegio concesso da Alfonso il Magnanimo a Giovanni I Ventimiglia, suo prozio. La richiesta era stata contestata da Simone, ma nel luglio del 1502 il sovrano concesse al barone di Sinagra l’autorizzazione per sé e i suoi successori, con la motivazione che «inter dictum marchionem et vos nulla censeatur originis diversitas aut differencia» (Archivio di Stato di Palermo, Conservatoria, vol. 87, c. 86v). Non è vero invece che tra il marchese e il barone non si rilevasse alcuna diversità di origine: Giovanni Artale non discendeva da Giovanni I Ventimiglia e nella sua genealogia non contava nessuna ascendenza riferibile ai sovrani aragonesi di Sicilia. Ma l’equiparazione tra Simone e Giovanni Artale era funzionale al disegno di Ferdinando tendente a ridimensionare il ruolo del marchese di Geraci anche all’interno stesso della grande famiglia Ventimiglia. Vivente re Ferdinando l’unico incarico assegnato a Simone fu perciò quello di capitan d’armi della città di Cefalù nel marzo del 1512, con il compito soprattutto di difenderla da possibili incursioni ottomane.
Alla morte del sovrano nel 1516, di conseguenza, Simone appoggiò decisamente la tesi del cugino conte di Collesano Pietro Cardona, secondo il quale il viceré Ugo Moncada, odiato da molti baroni siciliani come uomo di Ferdinando, dovesse ormai ritenersi decaduto. Per loro spettava al Regno e al parlamento la scelta del nuovo regidor, che comunque identificavano nel principe don Carlos (il futuro Carlo V).
Un principe quindi non imposto, ma liberamente scelto dai siciliani – come era accaduto all’indomani del Vespro del 1282 con re Pietro d’Aragona – che avrebbe dovuto impegnarsi a non imporre gabelle, angherie e dazi sull’esportazione granaria, a liberare i siciliani dalla presenza del S. Uffizio e della crociata, ad affidare a italiani i benefici ecclesiastici e soltanto ai siciliani l’incarico di viceré. Insomma, come annotava Giuseppe Giarrizzo (1989, p. 130), una Sicilia più italiana contro la Sicilia castigliana, una Sicilia in cui il parlamento ritornasse ad avere un ruolo centrale come consilium principis, contro una Sicilia governata dagli officiales al servizio di Moncada.
Con il viceré rifugiatosi a Messina, il parlamento elesse presidenti del Regno proprio il marchese di Geraci e il marchese di Licodia Matteo Santapau, ossia i due titoli più elevati che avevano avuto parte attiva nella rivolta, ma anche gli esponenti di famiglie che più di altre avevano subito i rigori della politica repressiva di re Ferdinando. Un Ventimiglia ritornava così nuovamente ai vertici del potere, ma per qualche mese, perché Carlo – erede del nonno Ferdinando − non gradì e nel luglio del 1516 sostituì i due presidenti proprio con il conte di Caltabellotta Gian Vincenzo de Luna. Simone pensò allora di recarsi a corte per giustificarsi con il sovrano. Per motivi che ignoriamo il viaggio non si realizzò, ma, con l’arrivo a Palermo nel maggio del 1517 del duca di Monteleone Ettore Pignatelli, inizialmente con il titolo di luogotenente e poi di viceré, ai due marchesi fu ordinato di recarsi a Napoli presso il viceré Ramón de Cardona, che li trattenne in larvato esilio per circa due anni.
Il viceré Pignatelli (1517-34) riuscì a riportare la calma nell’isola, grazie però all’aiuto determinante del baronaggio, che alla fine risultò il reale vincitore del lungo conflitto.
In contraccambio il viceré fu infatti costretto ad abbandonare la politica di ridimensionamento nei suoi confronti voluta da re Ferdinando e a rivalutarlo appieno come strumento di potere, ma soprattutto ad adottare verso di esso una politica assai più morbida e permissiva che in passato. Si voleva così da un lato ricompensare coloro che erano rimasti fedeli alle istituzioni, dall’altro recuperare alla monarchia spagnola, con una politica di conciliazione avallata sicuramente dall’alto, quei baroni che talora avevano fatto la fronda, come Ventimiglia.
Simone – che ancora negli anni Venti sembra parteggiasse per la Francia di Francesco I – era così interamente recuperato e nei decenni successivi collaborò pienamente alla realizzazione della politica di Carlo V, assumendo per due volte consecutive (1522 e 1525) la carica di deputato del Regno e in due altre occasioni la carica di presidente del Regno: nel 1535 – quando accolse in Sicilia l’imperatore di ritorno dalla vittoriosa impresa di Tunisi – e nel 1541. Nel corso del suo breve secondo incarico (settembre-dicembre 1541), promulgò un’interessantissima prammatica per fronteggiare la grave recessione che aveva colpito il mercato finanziario siciliano e provocato il fallimento di parecchi banchi, con gravi danni per l’erario regio, per i mercanti e per l’intera popolazione siciliana: a ragione Antonino Giuffrida (2011, p. 33) l’ha ritenuta il primo testo organico sulla disciplina dei banchi pubblici.
L’anno successivo, nell’agosto del 1542, il viceré Ferrante I Gonzaga, avendo appreso che l’armata turca forte di duecento galee si accingeva a lasciare Costantinopoli per attaccare la Sicilia, lo nominò capitan d’arme a guerra per la città di Siracusa, con pienezza di poteri civili e militari, allo scopo di provvedere all’ordine e alla difesa della città e del suo territorio, con l’ausilio delle truppe feudali già convocate per il servizio militare. Ancora due anni dopo, nel maggio del 1544, alla vigilia della morte, il presidente del Regno Giovanni d’Aragona Tagliavia, marchese di Terranova, «confiando de la virtù prudencia e strenuità vostra e considerando quanto sete sempre stato e sete affectionato, dedito e pronto a li servitii di S. Maestà», gli affidò l’incarico di recarsi a Piazza (Armerina) per accogliere e mettersi alla testa delle truppe feudali del Val di Noto, «accioché accadendo il bisogno si possino da continente conferire dove la necessità recercasse e li fosse ordinato» (Archivio di Stato di Palermo, Archivio privato Belmonte, vol. 7, c. 359). Il pericolo turco era allora incombente, tanto che proprio quell’anno furono saccheggiate Lipari e parte della Calabria.
Probabilmente c’era anche dell’esagerazione nell’apprezzamento del comportamento del marchese di Geraci che il presidente del Regno esprimeva poco dopo in un rapporto al sovrano: «in questa occasion di guerra ha servito molto il marchese de Giraci continuamente con il carico di cavalli del servitio militare» (Simancas, Archivo general, Estado Sicilia, 1116, f. 26). Nei mesi immediatamente precedenti erano stati firmati a Palermo i capitoli matrimoniali tra Carlo d’Aragona, figlio di Giovanni, e Margherita Ventimiglia, figlia di Simone: i due, Giovanni e Simone, si apprestavano quindi a diventare consuoceri, ma è indubbio che Simone fosse un buon comandante, sulla scia dei suoi valorosi antenati. Nel 1538 le truppe spagnole di stanza a La Goletta, non pagate, si erano ammutinate e in parte erano state trasferite in Sicilia con la promessa di essere presto soddisfatte. Nell’attesa, si erano date a saccheggi e violenze lungo le coste orientali dell’isola, spingendo il marchese Simone a promettere al viceré Gonzaga di raccogliere oltre ventimila siciliani che – armati di «partigianelle [lance] lunghe tre braccia col ferro aguzze, e frombe col manico, con le quali scagliano sassi grossi come una mela col fondo di cuoio a’ guisa de’ Maiorchini» – si opponessero agli spagnoli. Ma Gonzaga, che conosceva il valore dei soldati, saggiamente temporeggiò e con l’inganno riuscì a catturarne i capi e a farli giustiziare a Messina.
L’umanista Paolo Giovio (1560), storico contemporaneo ai fatti, apprezzò comunque il comportamento del «Signor Simeon Vintimiglia, marchese di Gierazzo, [...] huomo veramente picciolo di corpo, ma dotato di generosa grandezza d’animo e potente di grandissime ricchezze, il quale desiderava molto di difendere l’antico onore di Sicilia contra gli stranieri» (p. 472).
In punto di morte, ormai pienamente integrato nel sistema di potere spagnolo, il marchese Simone ricordò nel testamento la sua fedeltà verso la Corona e ordinò al suo successore Giovanni II «ut semper sit fidelis et habeat servire fidelitate dicte Cesaree Maiestati» (Archivio di Stato di Palermo, Archivio privato Moncada, vol. 1415, c. 102r) e i suoi successori. Ma non era forse necessario, perché anche il figlio Giovanni era pienamente inserito nel sistema di potere, se già per due volte (1533-34 e 1540-41) aveva tenuto a Messina la prestigiosissima carica di stratigoto della città.
La morte ex pestifera febre lo colse nel castello di Aiello in Calabria, nell’estate del 1544, mentre era in visita alla figlia Diana, che aveva sposato il conte di Aiello Antonio Siscar.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Palermo, Archivio privato Belmonte, vol. 7, c. 359, Archivio privato Moncada, vol. 1415, cc. 102r-110r (copia del testamento di Simone I Ventimiglia); Conservatoria, vol. 87, c. 86v; Simancas, Archivo general, Estado Sicilia, leg. 1116, c. 26.
P. Giovio, Istorie del suo tempo, la seconda parte, Venezia 1560, p. 472; F. San Martino De Spucches, La Storia dei feudi e dei titoli nobiliari di Sicilia, IX, Palermo 1940, p. 240; G. Giarrizzo, La Sicilia dal Cinquecento all’Unità d’Italia, in V. D’Alessandro - G. Giarrizzo, La Sicilia dal Vespro all’Unità d’Italia, Torino 1989, p. 130; C. Filangeri, Venti secoli fra Alesa e Tusa, Palermo 2009, p. 265; A. Giuffrida, Le reti del credito nella Sicilia moderna, Palermo 2011, p. 33 (on-line sul sito www.mediterranearicerchestoriche.it); O. Cancila, I Ventimiglia di Geraci (1258-1619), Palermo 2016, pp. 239-278 (on-line sul citato sito).