PIGNONI, Simone Lorenzo
PIGNONI, Simone Lorenzo. – Nacque a Firenze, nel popolo di S. Apollinare, il 17 aprile 1611 da Pasquino d’Antonio, libraio e stampatore in via Condotta, e da Giovanna di Donato Saliti (Ewald, 1964, p. 218 nota 5).
Filippo Baldinucci, pur non dedicando alcuna specifica Notizia a Pignoni, lo nomina in più occasioni, tracciandone gli esordi della carriera artistica, definendolo «eccellente artefice» ed esaltandone l’assidua applicazione agli studi che lo rese «quel valent’uomo che ognuno sa» (1846, II, pp. 176 s., III, pp. 451, 649, 652, IV, p. 643). Si deve attendere il Settecento per avere più dettagliati dati biografici sul conto dell’artista, cui il medico e poeta fiorentino Lorenzo Bellini (1729, p. 107) appose l’appellativo di «arcipittorissimo de’ buoni». Tra coloro che scrissero su Pignoni, infatti, vi furono il suo scolaro Giovan Camillo Sagrestani (post 1716-1731, 1980), Francesco Maria Niccolò Gabburri (1730 circa-1742, c. 276v), Francesco Moücke (1756, pp. 88 s.), Marco Lastri (II, 1795, tav. CIX) e Luigi Lanzi, che lo definì «il miglior allievo di Francesco [Furini]; delicatissimo nel color delle carni» (1795-1796, I, 1974, p. 176).
«Dopo aver atteso per qualche tempo alle lettere umane con Zanobi Pignoni, suo stretto congiunto» (Moücke, 1756, p. 88), Simone iniziò a lavorare con il padre, dove rimase a lungo prima di essere notato da Domenico Passignano, frequentatore della bottega di via Condotta, per il proprio talento nel disegnare i frontespizi dei volumi. Egli ne caldeggiò l’entrata nell’atelier del suo allievo Fabrizio Boschi, prima di accoglierlo nella propria bottega, da cui Pignoni passò in quella di colui che sarebbe divenuto il suo più importante maestro, Francesco Furini. Simone, che dunque fu avviato alla carriera di pittore in età abbastanza avanzata per l’epoca, compare per la prima volta nei registri dell’Accademia del disegno il primo gennaio 1648 (Zangheri, 2000, p. 257).
Al 1642 risale la sua prima opera datata, il S. Tommaso (Firenze, Depositi delle Gallerie fiorentine), eseguita per la confraternita di S. Sebastiano, per la quale aveva dipinto, nel 1637, anche un S. Gherardo e un Beato Filippo Benizzi oggi non rintracciati (Sebregondi, 1994, pp. 497 s.). Agli anni appena precedenti all’esecuzione del S. Tommaso è stata riferita una serie di figure femminili variamente ammantate di attributi religiosi, storici o allegorico-profani, tra cui la Vergine addolorata già nella collezione di Luigi Baldacci e la Sofonisba di ubicazione ignota (Baldassari, 2008, pp. 83-86, cat. nn. 1-7).
In questa prima fase Pignoni dimostrò un linguaggio in cui l’evidente impronta furiniana appare mediata dall’influenza di Fabrizio Boschi, cui si devono certe venature di acceso naturalismo ancora ravvisabili nella prova di esordio pubblica del pittore, la Crocifissione con s. Francesco e s. Antonio Abate della pieve di S. Maria all’Antella, datata attorno al 1647 (Proto Pisani, 1985, pp. 139-144, fig. 70). A ciò si aggiunga la costante attenzione per il dato coloristico, tratto distintivo della sua pittura, probabilmente da imputare al giovanile viaggio in Italia settentrionale, in seguito al quale egli «variò alquanto la macchia del suo colorito, riducendo le tinte più vivaci e gagliarde, mescolando in ciascheduna di esse l’azzurro oltremarino» (Moücke, 1756, pp. 88 s.).
Durante quel decisivo soggiorno, Pignoni dovette studiare in particolare Tiziano e i veneti del Cinquecento ed entrare in contatto con le novità della contemporanea pittura bolognese (Guido Reni e Francesco Albani) e lombarda (Carlo Francesco Nuvolone su tutti). Un aggiornamento, questo, che rese le sue innumerevoli, formose «femmine nude» − i quadri che gli diedero la maggiore notorietà, sulla scia di Furini, morto nel 1646 − «colorite di un gusto che non ha invidia a veruno altro pittore lombardo» (Gabburri, 1730 circa-1742, c. 276v). Indice della rapida affermazione professionale raggiunta da Pignoni sulla scena fiorentina fu la sua elezione a console dell’Accademia del disegno, avvenuta il 26 agosto 1649 (Zangheri, 2000, p. 257).
Arduo datare l’enorme quantità di dipinti licenziati da Pignoni durante la sua lunga attività, dominata dai quadri da stanza destinati alla committenza privata. Tra essi trova posto la nutrita teoria di sensuali Maddalene, uno dei temi preferiti dal pittore, in cui l’esemplare già appartenuto a Vittoria della Rovere e al Gran Principe Ferdinando de’ Medici (Firenze, Galleria Palatina) costituisce un significativo esempio di come la predilezione di Pignoni verso le forme giunoniche, dotate di evidente, plastico rilievo, distingua le sue creature femminili dai più esili e aggraziati modelli furiniani, tesi a un elevatissimo concetto di bellezza ideale (Ewald, 1964, p. 222, fig. 44).
Non trascurabile fu la produzione chiesastica di Pignoni, costituita da almeno trentuno pale d’altare che, in alcuni casi, rappresentano preziosi appigli cronologici ai quali ancorare le tele da cavalletto. Prossimo alla pala dell’Antella, forse risalente ai primi anni Cinquanta, è il David e Abigail (Cantelli, 1973, p. 69, figg. alle pp. 67 s.) proveniente dalla collezione Pazzi e già appartenuto a Piero Bigongiari (Pistoia, collezione della Cassa di risparmio di Pistoia e della Lucchesia), da considerarsi il capolavoro di Pignoni, qui regista di una composizione complessa, sviluppatasi dall’esempio dell’Agar e l’angelo di Furini, pendant del quadro pignoniano, anch’esso già in collezione Pazzi. Un dipinto, questo di David e Abigail, che si caratterizza per un’accensione cromatica sfavillante, di derivazione veneta − in diretta consentaneità con gli esiti raggiunti da Cecco Bravo −, percorsa da improvvisi bagliori di luce che accendono i panneggi e i preziosi dettagli costumistici illuminando, come fari di scena, la splendida protagonista femminile. Tale freschezza esecutiva, non esente da un certo influsso cortonesco, si ravvisa in un altro dipinto degli stessi anni, Ruth e Booz − compagno di una Rachele al pozzo probabilmente più tarda −, in cui la vibrante gamma cromatica è esaltata dalla luce ondeggiante sulle pieghe degli abiti e sul cielo gonfio di nubi (entrambi i quadri sono in collezione privata; cfr. G. Cantelli, in Il Seicento fiorentino..., I, 1986, pp. 424 s., schede 1236-1237).
Al 1665 si data il S. Tommaso da Villanova in S. Verdiana a Castelfiorentino (Proto Pisani, 1985, pp. 138 s.), pala di più tradizionale concezione riformata, cui si legano Rachele che nasconde gli idoli a Labano (Firenze, Depositi delle Gallerie fiorentine) con i due bozzetti preparatori (Firenze, Galleria Palatina; già Londra, mercato antiquario; Maffeis, 2004, pp. 94 s.) e il S. Francesco di Paola che resuscita un bambino (Firenze, S. Giuseppe; Contini, 1989, pp. 844 s.), tele accomunate da una certa serialità di pose e moduli espressivi. Gli inizi dell’ottavo decennio del secolo, il periodo più documentato dell’attività di Pignoni, videro l’esecuzione della Madonna col Bambino e i ss. Michele, Raffaele e Antonio da Padova, dipinto databile al 1671 circa, realizzato per l’altare della cappella Donati alla Ss. Annunziata, e altri due dipinti per le pareti laterali della medesima cappella con S. Maria Maddalena de’ Pazzi e S. Carlo Borromeo.
La pala dell’Annunziata, parallela a quelle, contemporanee, di Onorio Marinari e, soprattutto, del Volterrano, segna il superamento della convenzionalità compositiva del quadro di Castelfiorentino attraverso una scansione spaziale complessa, di schema piramidale, giocata sull’intersecarsi di piani diagonali bagnati da repentine accensioni luministiche e animati dagli eloquenti gesti dei personaggi, attori di un’imponente macchina devozionale.
Un simile, animato, affollarsi di figure, indice di una progressiva evoluzione dalla distillata poetica furiniana verso un più fremente linguaggio tardobarocco, si ripete, accentuandosi, nella Gloria di angeli e santi per la chiesa del Carmine a Peccioli, nei pressi di Pisa (tuttavia trasferita nell’oratorio dell’Assunta presso la propositura di S. Verano), commissionata tra il 1661 e il 1662 ma conclusa nel 1673. Non distante dalle pale dell’Annunziata e di Peccioli è l’Apparizione della Vergine al beato Bernardo Tolomei in S. Bartolomeo a Monte Oliveto a Firenze, impostata sul tradizionale schema diagonale, usualmente impiegato nella rappresentazione di visioni soprannaturali (Ewald, 1964, p. 221, figg. 33, 35).
Al 1682 risale l’ultima opera datata di Pignoni, il S. Luigi di Francia che offre un banchetto ai poveri della chiesa di S. Felicita. Commissionata dal conte Luigi Guicciardini, la pala fu oggetto dell’ammirazione di Luca Giordano, che voleva acquistare dal committente il dipinto più celebre di quello che definì «il meglio proffessore che fusse nella Toscana» (Sagrestani, post 1716-1731, 1980, pp. 408 s.).
La tela prevede una complessa orchestrazione compositiva in cui domina l’imponente quinta architettonica sotto la quale si affolla la schiera dei personaggi, opulenti nelle forme e vividi nelle attitudini composite, chiaramente ispirate al Volterrano.
Intorno al quadro di S. Felicita si raggruppano per via stilistica diverse opere tarde quali la S. Tecla e Suor Caterina de’ Ricci, cui si aggiunge l’Apparizione di s. Tommaso d’Aquino a suor Caterina de’ Ricci (Prato, monastero di S. Vincenzo); il Cristo pellegrino e s. Caterina da Siena (Siena, collezione Chigi Saracini); S. Elisabetta d’Ungheria e la Giovane donna (Londra, mercato antiquario; Maffeis, 2004, p. 100).
Della considerazione raggiunta presso i colleghi da Pignoni in tarda età è prova una lettera inviata nel 1690 da Roma da Tommaso Redi ad Anton Domenico Gabbiani in cui Redi, narrando di una sua conversazione con Carlo Maratta, informò Gabbiani di aver riferito al celebre collega che i migliori pittori in quel momento nella città granducale erano, senza dubbio, Livio Mehus e Pignoni («non c’era altri che il signor Mehus e V.S. e il Pignoni che tenessero la pittura in reputazione […]. Egli [Maratta] stima assai il Pignoni, del quale vedde un quadro»; cfr. Bottari - Ticozzi, II, 1822, pp. 85 s.).
Pignoni, che si ritrasse intento a rivestire di carni lo scheletro di una figura femminile (Firenze, Galleria degli Uffizi), morì a Firenze il 16 o 17 dicembre 1698, e fu sepolto nella chiesa dei Ss. Michele e Gaetano (Ewald, 1964, p. 225 nota 31; sull’incertezza della data di morte cfr. Maffeis, 2004, p. 102).
Tra gli allievi di Pignoni, morto celibe e senza figli, spiccano i nomi di Francesco Botti, del citato Sagrestani e di Francesco Conti su altri, meno noti, tra i quali si ricordano quelli di Giovanni Perini, Giovanni Camillo Ciabilli, Dinozzo Lippi.
Fonti e Bibl.: Firenze, Biblioteca nazionale centrale, mss. Pal., 451: G.C. Sagrestani, Vite di aliquanti pittori del secolo XVII (post 1716-1731), in Zibaldone Baldinucciano, a cura di B. Santi, I, Firenze 1980, pp. 408 s.; E.B. 9.5: F.M.N. Gabburri, Vite di pittori (1730 circa-1742), IV, 1742, c. 276v.
F. Baldinucci, Notizie de’ professori del disegno da Cimabue in qua (1681-1728), a cura di F. Ranalli, Firenze 1846, II, pp. 176 s., III, pp. 451, 649, 652, IV, p. 643; L. Bellini, La bucchereide, Firenze 1729, p. 107; F. Moücke, Elogio di S. P., in F. Gori, Museum Florentinum exibens insignora vetustatis monumenta quæ Florentiæ sunt, IX, 3, Firenze 1756, pp. 87-92; M. Lastri, L’Etruria pittrice ovvero Storia della pittura toscana dedotta dai suoi monumenti che si esibiscono in stampa dal secolo X fino al presente, II, Firenze 1795, tav. CIX; L. Lanzi, Storia pittorica dell’Italia dal Risorgimento delle belle arti fin presso al fine del XVIII secolo (1795-1796), a cura di M. Capucci, I, Firenze 1974, p. 176; G.M. Bottari - S. Ticozzi, Raccolta di lettere sulla pittura, scultura e architettura scritte da’ più celebri personaggi dei secoli XV, XVI e XVII, II, Milano 1822, pp. 85 s.; H. Voss, P., S., in U. Thieme - F. Becker, Künstlerlexikon, XXVII, Leipzig 1933, pp. 35 s.; G. Ewald, S. P., a little-known Florentine Seicento painter, in The Burlington Magazine, CVI (1964), pp. 218-226; G. Cantelli, Precisazioni sulla pittura fiorentina del Seicento: i furiniani, in Antichità viva, X (1971), 4, pp. 3-16; Id., Invito al collezionismo. Il Seicento fiorentino: S. P., in Arte 80, II (1973), pp. 66-72; Id., Documenti figurativi per S. P., in Scritti di storia dell’arte in onore di Ugo Procacci, II, Firenze 1977, pp. 527-535; R.C. Proto Pisani, Momenti del Seicento fiorentino. Il Fontebuoni ‘ritrovato’ di San Martino alla Palma, S. P. e Lorenzo Lippi in Santa Maria all’Antella, in Paradigma, VI (1985), pp. 131-150; Il Seicento fiorentino. Arte a Firenze da Ferdinando I a Cosimo III (catal., 1986-1987), I, Firenze 1986, pp. 424 s.; R. Contini, P., S., in La pittura in Italia. Il Seicento, II, Milano 1989, pp. 844 s.; G. Cantelli, I pignoniani o della pittura fiorentina tra Seicento e Settecento. Francesco Botti, Giovan Camillo Ciabilli, Giovan Battista Perini, in Paradigma, X (1992), pp. 129-134; L. Sebregondi, La soppressione delle confraternite fiorentine: la dispersione di un patrimonio..., in Confraternite, Chiesa e società... Atti del convegno... 1992, Fasano 1994, pp. 457-501; L. Zangheri, Gli accademici del Disegno. Elenco alfabetico, Firenze 2000, p. 257; S. Bellesi, Inediti di S. P. e Francesco Botti, in Arte, collezionismo, conservazione. Scritti in onore di Marco Chiarini, a cura di M. Chappell - M. Di Giam-paolo - S. Padovani, Firenze 2004, pp. 338-342; R. Maffeis, Ritratto di S. P., in Proporzioni, n.s., V (2004 [2006]), pp. 87-124; F. Baldassari, S. P. (Firenze, 1611-1698), Torino 2008 (con bibl. precedente); M.P. Mannini, Bellezze sacre di S. P. e una nota per l’allievo Dinozzo Lippi, in Un metodo per l’antico e per il nuovo. In ricordo di Chiara d’Afflitto, a cura di F. Falletti - F. Fiorelli Malesci - M.L. Strocchi, Firenze 2011, pp. 102-108.