Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel XIV secolo Firenze e Siena sono i centri artistici dominanti. Mentre il fiorentino Giotto si consacra alle ricerche di forma e spazio, il senese Simone Martini esalta il ritmo della linea e la raffinatezza dei colori aprendosi alle novità dell’arte gotica d’Oltralpe. Per merito di Simone, il nuovo stile della pittura senese raggiungerà molte città d’Italia e si spingerà fino ad Avignone, dove il suo linguaggio diverrà la radice del gotico internazionale.
Le prime testimonianze sull’attività di Simone Martini risalgono al 1315, anno in cui firma la Maestà ad affresco nella sala del Mappamondo del Palazzo Pubblico di Siena.
Recenti interventi di restauro hanno consentito di accertare che la Maestà, commissionata dal governo dei Nove, viene realizzata in tre diversi momenti: iniziata tra il 1312-1313, completata nel 1315 e restaurata nel 1321 per rinnovarne lo stile, l’iconografia e le scritte. Le parti più antiche, e cioè le figure a mezzo busto nella parte alta della cornice, connotate da fissità, dimostrano che la formazione di Simone si compie nella bottega di Duccio di Buoninsegna. Gli stessi caratteri ducceschi sono presenti anche nella Madonna col Bambino n. 583 e nella Madonna della Misericordia entrambe alla Pinacoteca di Siena, considerate le sue prime opere (1308-1310).
Simone però emerge presto fra i seguaci di Duccio grazie all’attenzione con cui guarda a esperienze artistiche diverse. La Maestà si apre infatti agli stimoli della pittura tridimensionale di Giotto e, soprattutto, al linguaggio artistico del gotico d’Oltralpe. Deriva da Giotto la volumetria della corte celeste disposta per linee oblique, raffigurate sotto un baldacchino che accresce l’illusione della profondità.
Simone deve la sua conoscenza dell’arte gotica d’Oltralpe alla circolazione in Italia di oggetti (piccole sculture, dipinti, ricami, miniature) e grazie alla mediazione degli orafi senesi. Abili artigiani come Guccio di Mannaia, autore di un calice per papa Niccolò IV, si erano infatti appropriati, già alla fine del XIII secolo, della finezza calligrafica e della vitalità tipiche dei prodotti più rappresentativi del linguaggio gotico, quali il Breviario che Maître Honoré minia (1290-1295) per Filippo IV il Bello, il retablo dell’abbazia di Westminster o una delle tante stoffe inglesi con figure ricamate note come opus anglicanum. Il contatto con gli orafi suggerisce a Simone alcune sperimentazioni: l’affresco si arricchisce di stesure a secco, dell’utilizzo di stampini a fiori per le aureole e soprattutto della punzonatura, una tecnica che permette di incidere motivi decorativi sui fondi, nelle aureole o nelle vesti attraverso un’asta in metallo (punzone). Per la prima volta in un affresco italiano compaiono ricchi inserti polimaterici: applicazioni in metallo, lamine dorate, un cristallo di rocca nel fermaglio che chiude il manto della Vergine, vetri églomisés nel trono e nell’aureola del piccolo Gesù che regge un cartiglio scritto a inchiostro su carta.
La Maestà, capolavoro della pittura gotica europea, procura a Simone incarichi importanti in vari centri italiani. È proprio grazie ai suoi spostamenti che si diffonderanno i caratteri della pittura senese.
La decorazione a vetrate e affreschi della cappella di San Martino all’interno della Basilica inferiore di San Francesco ad Assisi viene commissionata nel 1312 dal cardinale Gentile Partino da Montefiore (1250-1312). Il soggiorno ad Assisi avvicina il pittore all’arte prospettica di Giotto, dal quale assimila le ambientazioni architettoniche e i paesaggi entro cui inserire le Storie di San Martino di Tours, tratte dalla Legenda aurea di Jacopo da Varazze e dalla Vita di Sulpicio Severo. Giotto e Simone si dimostrano interessati a differenti aspetti della realtà. La ricerca di Giotto si orienta prevalentemente sulla descrizione di uno spazio abitabile entro cui inserire figure solide come sculture; per Simone l’indagine del visibile si traduce invece nella minuta descrizione dei personaggi e nella restituzione della consistenza materica di oggetti quali tessuti, marmi, oreficerie. La coerenza geometrica di Giotto viene trasfigurata dal movimento sinuoso della linea che definisce figure e panneggi, impreziosita da colori luminosi e splendenti. Le storie del santo sono calate nell’atmosfera mondana e cavalleresca di una corte medievale di cui Simone è attento a descrivere usi e costumi.
L’episodio dell’Investitura di san Martino non è la consacrazione di un soldato romano, qual era san Martino, ma di un miles medievale celebrato in uno spettacolo di musici, cantori e scudieri, indagati nelle più svariate condizioni sociali, così come nella Rinuncia alle armi si vedono soldati abbigliati secondo i trecenteschi costumi ungheresi. La vocazione ritrattistica di Simone è evidente nella Dedicazione della cappella, dove il committente Gentile Partino, inginocchiato innanzi a san Martino, è reso nei suoi difetti fisici: grasso, calvo, con la pelle raggrinzita e la fisionomia “rustica”. Analogamente alla Maestà di Siena, questi affreschi utilizzano stesure a secco, lacche, lamine metalliche e punzonature che contribuiscono a movimentare e impreziosire la superficie pittorica.
Il ciclo si considera concluso nel 1317, per la presenza, nel sottarco, dell’effige di san Ludovico da Tolosa, fratello di Roberto d’Angiò re di Napoli dal 1309, canonizzato in quell’anno. Dopo la morte di Gentile Partino (1312) è infatti probabile che siano subentrati come committenti gli Angiò, per i quali Simone affresca anche, nel transetto destro, un altare dedicato a santa Elisabetta, in cui essa compare attorniata dai santi protettori della casata.
A Napoli, il pittore senese realizza per il re una tavola con San Ludovico di Tolosa che incorona re Roberto, destinata alla cappella di famiglia in San Lorenzo Maggiore (il dipinto è oggi al Museo di Capodimonte). Ludovico, che aveva rinunciato al trono per farsi frate, viene rappresentato in posizione frontale mentre riceve l’incoronazione celeste da due angeli e impartisce quella terrena al fratello. Si tratta di un’iconografia nata dalla volontà di respingere le accuse mosse a Roberto di aver usurpato il trono. La pittura polimaterica, ornata e preziosa, di Simone si mostra adatta ad assecondare il gusto sfarzoso della corte. Il saio francescano di Ludovico si intravede appena, coperto dal piviale dorato chiuso da un fermaglio in vero vetro, oscurato dalla mitra di gemme vere e perle dipinte, dal pastorale traforato, dalle corone un tempo ingioiellate e dalla ricca punzonatura. Simone sa operare su registri antitetici: la figura di san Ludovico è trascendente, quasi immateriale, una vera e propria icona, diversamente da Roberto le cui fattezze sono descritte con cura, mentre nella predella con Storie della vita del santo trova spazio un’affabile narrazione.
Dopo l’esperienza napoletana sono numerosi i polittici prodotti dalla bottega di Simone tra il 1317 e il 1326 con destinazioni diverse: Pisa, San Gimignano, Siena e Orvieto. Nel polittico per la chiesa di Santa Caterina di Pisa (Pisa, Museo Nazionale di San Matteo) si possono apprezzare le innovazioni apportate da Simone alla struttura del polittico senese creata da Duccio. Il numero dei santi si moltiplica, grazie anche all’introduzione della predella; la luminosità del fondo dorato viene potenziata dalla tecnica della punzonatura, e l’aspetto ornamentale si arricchisce per la presenza di archi trilobati e racemi dorati nei pennacchi.
Il governo guelfo e popolare dei Nove si rivela capace di utilizzare le immagini come strumento di propaganda politica, di cui Simone si rivela interprete esemplare.
Tornato a Siena nel 1321 si dedica al restauro della Maestà. Nel trono di Maria iscrizioni in volgare esortano i Nove a governare secondo principi di giustizia ed equità sociale; lo stesso messaggio, tratto dal Libro della Sapienza, ritorna nel cartiglio retto dal piccolo Gesù: “ diligite iustitiam qui iudicatis terram ”, un motto che di lì a poco verrà ripetuto nell’affresco con l’Allegoria del Buon Governo di Ambrogio Lorenzetti.
La maggior parte della produzione civica di Simone Martini è oggi perduta: palii, arredi, biccherne, affreschi per l’Ospedale della Scala e per le porte di città. Restano due importanti imprese: l’affresco col Guidoriccio da Fogliano all’assedio di Montemassi nella sala del Mappamondo a Palazzo Pubblico (di fronte alla Maestà), e la tavola con l’Annunciazione per il Duomo di Siena (oggi agli Uffizi di Firenze).
L’affresco con Guidoriccio è il solo superstite di un programma di celebrazione della politica espansionistica dei Nove in Maremma. La vena narrativa di Simone si estende dal capitano al paesaggio alle sue spalle. Si tratta di uno studio di paesaggio dal vivo, come richiesto esplicitamente dai Nove – “a l’esemplo come erano” – che fa di Simone l’inventore del ritratto topografico.
Agli stessi anni risale l’Annunciazione tra i santi Ansano e Margherita per il Duomo di Siena, datata al 1333 e firmata congiuntamente da Simone e dal cognato Lippo Memmi. Bisogna ricordare che il moderno concetto di autografia, vale a dire un’opera interamente eseguita dall’autore che la firma, va storicizzato. Ogni grande pittore si avvale di collaboratori, il cui nome non compare nella firma: dovere del capobottega è garantire qualità e uniformità del prodotto finito. L’insolita presenza della firma di Lippo ha quindi scatenato diverse ipotesi: forse Lippo Memmi realizza i santi nei comparti laterali, forse intaglia la cornice, forse agisce sulle parti tecniche e ornamentali: l’ipotesi più cauta induce però a credere alla collaborazione dei due maestri in tutte le parti dell’opera, priva di sensibili scarti qualitativi.
“ Ave gratia plena dominus tecum ” sussurra l’angelo alla Vergine che, sorpresa durante la lettura, si scansa con atto ritroso. Nonostante il pavimento in scorcio e il trono obliquo, il pittore ha rinunciato a complicate costruzioni spaziali affidando la sacralità dell’evento alla luminosità dell’oro e alle qualità lineari del suo disegno.
Nel 1336 Simone si trasferisce ad Avignone. Sono numerosi gli artisti italiani che si spostano nella nuova sede papale.
La maggior parte lavora in équipe all’interno del Palazzo dei Papi, mentre altri, come Simone Martini, si legano alla cerchia dei cardinali italiani. Su commissione del cardinale Jacopo Stefaneschi il pittore senese affresca l’atrio della chiesa di Notre-Dame des Doms. Qui, per la prima volta, si incontra l’iconografia della Madonna dell’Umiltà, soggetto in cui la Vergine è raffigurata non più sul trono ma seduta per terra mentre allatta il figlio.
L’ambiente cosmopolita di Avignone favorisce i legami tra artisti, letterati, umanisti e teologi. Per l’amico Francesco Petrarca, Simone realizza il ritratto di Laura, oggi perduto, di cui abbiamo notizia in due sonetti del Canzoniere – ““Ma certo il mio Simon fu in paradiso” e “Quando giunse a Simon l’alto concetto”” – e una Allegoria Virgiliana (Milano, Biblioteca Ambrosiana) miniata a piena pagina su di un codice di Petrarca con le opere di Virgilio commentate da Servio. Si tratta dell’unica miniatura a noi nota di Simone Martini, ad acquerello e tempera diluita con delicati effetti di trasparenza e vibrazione cromatica.