Simone Moro
Ottomila e non li dimostra
L’alpinista 48enne è l’unico ad aver scalato in prima invernale quattro 8000. Ma se è vivo per miracolo è perché è scampato a un assalto di un gruppo di sherpa offesi per uno sgarbo.
Il 29 febbraio 2016 Simone Moro, il più forte alpinista italiano di questi anni, ha raggiunto la cima del Nanga Parbat – assieme al pakistano Ali Sadpara e allo spagnolo Alex Txikon, compiendo la prima salita invernale della nona vetta al mondo (8126 metri) – per la via classica sul versante Diamir, che giustifica il nome, in urdu, di «montagna nuda»: un minaccioso colosso di roccia e ghiaccio che s’alza a vista d’occhio di quasi 7000 metri dalle sponde dell’Indo e che, avendo chiesto la vita di oltre un alpinista su quattro fra i primi salitori, spiega il nome che gli abitanti del distretto di Gilgit – nell’estremo Himalaya occidentale, nel Kashmir pakistano – gli hanno attribuito con fondato timore: ‘montagna assassina’.
Difficile sottovalutare il valore dell’impresa di Moro e compagni, inclusa la giovane italiana Tamara Lunger che s’è fermata poco sotto la vetta: 2 mesi e mezzo in quota in attesa che il clima terribile concedesse una tregua, il continuo rischio di valanghe, il freddo polare, l’enormità delle distanze da coprire. Solo la tempra e l’esperienza di Simone Moro, oltre alla congiunzione di molti fattori, fortuna compresa, hanno dato il successo. Nessuno, in inverno, era mai salito lassù, ma Moro, che è al suo quarto 8000 invernale, ha già un record in questa specialità dell’alpinismo. Ormai resta un solo 8000 non ancora scalato in inverno, il K2, proprio la ‘montagna degli italiani’ (conquistata da Achille Compagnoni e Lino Lacedelli nel 1954). Sarebbe un onore dell’alpinismo patrio se Simone Moro potesse riconquistare il K2. Ma questi sono consigli che non si possono neppure avanzare.
Per diverse ragioni. Perché l’invernale del Nanga Parbat è di per sé memorabile: già 33 spedizioni l’avevano tentata e fallita, soprattutto a causa del congelamento. La montagna nuda pretende sacrifici disumani: fu conquistata nel luglio del 1953 dal temerario austriaco Hermann Buhl, che coprì da solo gli ultimi 1300 metri, spinto dalle anfetamine. Quasi paventata, fu poi ripresa nel 1970 dai fratelli Günther e Reinhold Messner, in un’impresa funesta: saliti da sud, dovettero scendere dal versante Diamir, dove Günther scomparve sotto una valanga. Il racconto di Reinhold, a lungo messo in dubbio, fu confermato nel 2005 quando furono rinvenuti i resti del fratello. Inoltre, c’è da chiedersi fino a quando Moro potrà agire a questi livelli: proprio Messner, forse il più grande alpinista d’ogni tempo, chiuse con gli 8000 (il Lhotse nel 1986) a 42 anni. Può Moro (nato a Bergamo nel 1967) sfidare, oltre al gelo, l’anagrafe?
C’è, infine, una ragione che non è ingiusto definire politica.
Di recente, infatti, l’alpinismo himalayano ha scoperto avversari inaspettati. Nel 2013, una banda di sedicenti talebani assalì il campo base al Diamir, rapinò e giustiziò 10 alpinisti e guide, europei e asiatici. Il ‘massacro del Nanga Parbat’ fu uno sconvolgente atto di guerra a scopo criminale, o viceversa. Di più: proprio Simone Moro, nello stesso anno, salvò a stento la pelle sul Lhotse, assalito da un centinaio di sherpa. Quelli stavano attrezzando una parete, Moro con 2 compagni voleva passare lo stesso: minacciato con una piccozza, reagì con un insulto, e a sera gli sherpa inferociti stavano per vendicarsi a morte, se l’audace americana Melissa Arnot non si fosse posta di mezzo. Fu, al di là della causa contingente, un sussulto anti coloniale: i portatori locali considerano la montagna un bene proprio e non tollerano che, sia pure a pagamento, gli occidentali vengano a usarla in cerca di gloria ed emozioni. Né conta che Moro sia un benefattore: ha comprato un elicottero per operazioni di soccorso in Nepal, con il quale ha salvato alpinisti, sherpa, turisti e comuni montanari in difficoltà.
Come la storia del colonialismo insegna, a volte è difficile distinguere tra il missionario e l’occupante. Così il 2016 dell’alpinismo si può giustificatamente intitolare a Simone Moro grazie all’invernale del Nanga Parbat. Avendo anche appreso, proprio dalla sua disavventura con gli sherpa sul Lhotse, che pure l’alpinismo è inseparabile dalla politica e, talvolta, dalla violenza che essa genera.
I suoi record
L’unico alpinista della storia ad avere raggiunto 4 cime di 8000 metri in completa stagione invernale (partendo dopo il 21 dicembre):
■ 2005: Shisha Pangma (8027 m, prima ascensione invernale, con Piotr Morawski)
■ 2009: Makalu (8463 m, prima ascensione invernale, con Denis Urubko)
■ 2011: Gasherbrum II (8035 m, prima ascensione invernale, con Denis Urubko e Cory Richards)
■ 2016: Nanga Parbat (8126 metri, prima ascensione invernale, con Tamara Lunger, Alex Txikon e Ali Sadpara). È salito sulla vetta di 7 dei quattordici 8000 m ed è arrivato 4 volte in cima all'Everest (8848 m). Per 2 volte, nel 2013 e nel 2014, ha tentato la salita invernale al Nanga Parbat e nel 2012 ha tentato per la seconda volta il concatenamento Everest-Lhotse.
Diventato pilota nel 2009, raggiunge anche in elicottero molti primati: tra tutti, nel 2015 sulle Dolomiti ha raggiunto la quota di 6705 m, conquistando il primato mondiale con un elicottero biposto con motore a turbina (ha superato anche di 50 m la quota raggiunta da elicotteri con motore a pistoni).