PORZIO, Simone
PORZIO, Simone. – Nacque a Napoli nel dicembre del 1496 o nei mesi seguenti, secondo una nota manoscritta apposta su un libro posseduto da Minieri Riccio (Fiorentino, 1911, pp. 85 s.). Il padre, uomo agiato che possedeva una villa a Posillipo, si chiamava Giovanni e pare senza fondamenti la notizia, circolata nel Settecento, che venisse da Creta.
Non si sa molto degli anni di formazione (falsa la notizia che fosse allievo di Pietro Pomponazzi a Padova; non provato un passaggio da studente nello Studio di Bologna, dove potrebbe aver conosciuto Ercole Gonzaga); tuttavia è certo che intorno ai vent’anni si trasferì a Pisa per studiarvi filosofia con l’averroista Agostino Nifo, di Sessa Aurunca, acquistando perizia nel greco e una sicura conoscenza dell’opera di Alessandro di Afrodisia.
Nel 1520 ottenne il dottorato in arti e medicina e nel 1522 quello in teologia; poi iniziò l’insegnamento nello Studio toscano. Ebbe la cattedra di logica nel 1520-21, nel 1521-22 e nel 1523-24, e quella di filosofia nel 1525-26, succedendo a Juan Montes de Oca. Più tardi seguì il maestro Nifo a Salerno, alla corte di Ferrante Sanseverino, che poi avrebbe manifestato sentimenti eterodossi, e nel 1527 risulta lettore nello Studio cittadino. Nel 1529 fece ritorno a Napoli e per lo Studio partenopeo insegnò filosofia (1529-30), metafisica e filosofia (1531-32), fisica (1532-33) e di nuovo filosofia (cattedra che tenne dal 1533 in poi). Fu allora che ebbe in concessione il guardianato di Torre del Greco ed entrò in rapporto con Pedro de Toledo, viceré di Napoli dal 1532, che gli avrebbe garantito protezione.
Sposò la nobile Porzia d’Anna (morta nel 1537 circa), che gli diede sette figli. Porzio si sarebbe curato di accasare le due figlie sopravvissute; dei figli maschi, Camillo sarebbe diventato un celebre storico e Antonio sarebbe diventato vescovo di Monopoli (il padre ne facilitò la carriera cercando per lui una diocesi redditizia).
Negli anni di Napoli Porzio stabilì anche legami di amicizia con figure di spicco come Giovanni F. Anisio (che gli indirizzò una delle Epistolae de religione, 1538), Marcantonio Flaminio, Giovanni F. Ingrassia, Ortensio Lando, Girolamo Seripando, Luigi Tansillo, ai quali più tardi si sarebbero aggiunti Giovanni della Casa e l’arcieretico Scipione Capece. Dopo il 1533 si trasferì a Napoli anche Juan de Valdés, che avrebbe segnato i percorsi del dissenso religioso in Italia.
Non sappiamo di rapporti diretti con Valdés, ma è certo che alcune tra le prime opere pubblicate da Porzio trattavano di temi sensibili: si pensi al De celibatu (Napoli, Sultzbach, 1537, mai ripubblicato negli anni fiorentini) e all’anonima Cristianae deprecationis interpretatio (1538), sull’orazione dominica, rimaneggiata a Firenze anni dopo, senza contare un De fato e un De arbitrio humano, che l’autore cita nelle opere a stampa, ma che non videro la luce. A quegli anni risalgono inoltre alcuni opuscoli, fra i quali un manoscritto, Sull’affetti (concluso nel 1546-47 circa) e un edito elogio paradossale, De dolore capitis, menzionato da Lando (1538). Un’eruzione verificatasi nell’area di Pozzuoli il 29 settembre 1538, che accese un dibattito tra i naturalisti, gli offrì poi l’occasione per stilare il De conflagratione agri Puteolani (dedicato a don Pedro, 1538 e 1539, ripubblicato da Torrentino a Firenze nel 1551), volgarizzato da Ortensio Rizzuto (Trattato del fuoco apparso in li luochi de Puzolo, Napoli 1539) e più tardi da Stefano Breventano (il testo rimase inedito). Negli anni napoletani, infine, Porzio vergò il De puella Germanica quae fere biennium vixerat sine cibo, potuque (s.l.d., ma 1542 circa, ristampato da Torrentino nel 1551). Porzio vi analizzò con lenti aristoteliche il caso dell’anoressica tedesca Margaretha Weiss. Dopo la Dieta di Speyer del 1542 la donna, mostratasi in pubblico, era stata affidata al fisico Gerhard Bucholtz, il quale dopo settimane aveva stilato per Ferdinando d’Asburgo un rapporto che attestò il carattere non finto dell’inedia. Il consulto circolò a stampa e accese un dibattito europeo sulla possibilità di sopravvivere senza mangiare né bere per giorni, sul carattere naturale o demoniaco o divino del fenomeno. Porzio dedicò il trattato a Paolo III e rispose che il caso poteva spiegarsi per via naturale, senza concedere nulla alle interpretazioni miracolistiche.
Sembra che Porzio abbia mostrato crescente insofferenza per il soggiorno a Napoli, che gli pareva un ‘purgatorio’, e di certo il controllo del mondo culturale della città imposto dagli spagnoli non lo fece sentire a proprio agio. Così, dopo avere tentato di trasferirsi a Roma, scelse di seguire la figlia di don Pedro, Eleonora di Toledo, andata in sposa a Cosimo de’ Medici, e tornò in Toscana. Pubblicò una lettera prefatoria al De bonitate aquarum di Andrea Turini (1545), ma per alcuni anni la sua attività editoriale rallentò. Tornò comunque a insegnare a Pisa come professore sopraordinario di filosofia (dal 1545-46 al 1553-54) e Cosimo, che lo ammirava, gli offrì un compenso talmente alto da guadagnargli l’invidia dei colleghi. Le sue lezioni – ma alternava lunghi ozi in una villa a Filettole – attiravano gli studenti, e assai apprezzate furono quelle dedicate al tema squisitamente peripatetico dell’anima. Inoltre Porzio si dedicò alla formazione di un catalogo di pesci, al quale collaborò Francesco Bacchiacca con dei disegni, lasciandolo incompiuto. In pubblico mostrò sempre devozione per la fede tradizionale, come attesta una lettera inviata a Cosimo in cui narrò della calca che gli aveva provocato contusioni mentre cercava di «pigliare il Jubileo» all’Annunziata (16 settembre 1550, in Fiorentino, 1911, p. 124); tuttavia, nell’intimo e nelle opere a stampa fu assai lontano dalla religione ufficiale.
In ogni modo, a tenerlo impegnato fu la scrittura: tradusse in latino, editò e commentò lo pseudoaristotelico De coloribus, con una prefazione «qua Coloris naturam declarat» (Firenze, Torrentino, 1548, con dedica a Cosimo; Parigi, Vasconsanus, 1549: nel frontespizio di questa seconda edizione l’opera è attribuita ipoteticamente a Teofrasto) e, secondo alcuni repertori, elaborò una raccolta di Opuscula apparsa a stampa nel 1548. Di grande rilievo è anche l’attenzione che ebbe per il volgare. Il progetto di tradurre le esposizioni dei filosofi in una lingua degna della nobiltà pretesa da Pietro Bembo era stato prospettato dall’Accademia degli Infiammati di Padova, ma fu ripreso dall’Accademia fiorentina, promossa da Cosimo, a cui Porzio fu ammesso nel 1546 (Porzio aveva uno spiccato interesse per Petrarca, di cui commentò almeno due sonetti). Qui entrò in rapporti con Giambattista Gelli, che volgarizzò il De coloribus oculorum (1550), stampato – come i successivi testi latini e volgari – da Lorenzo Torrentino, con una premessa di Gelli (Trattato de colori degl’occhi, 1551, dedicato a Ercole Gonzaga). Fu poi la volta del De puella, volgarizzato con il titolo Disputa sopra quella fanciulla della Magna, la quale visse due anni o più senza mangiare (1551), e della questione An homo bonus, vel malus volens fiat (Florentia, Lorenzo Torrentino, 1551; ripr. anast. con introduzione di E. Del Soldato, Roma 2005), dedicata a Lelio Torelli, sul nodo del libero arbitrio: Porzio lo limitò notevolmente pur asserendo di sostenere il contrario. Nella versione di Gelli (Se l’huomo diventa buono o cattivo volontariamente. Disputa dello eccellentissimo filosofo M. Simone Portio napoletano tradotta in volgare per Giovam Batista Belli, In Florentia appresso Lorenzo Torrentino, 1551), come è stato dimostrato (Firpo, 1997), il tono eterodosso del testo non si attenua e palesa l’influenza di Erasmo, del predestinazionismo riformato e della circolazione del Beneficio di Cristo. Stessi accenti, ma con sovraccarico nicodemitico, nel Modo di orare christianamente con la espositione del Pater Noster (1551), volgarizzamento di un testo erasmiano e valdesiano apparso in latino l’anno dopo grazie alla rielaborazione dell’Interpretatio del 1538 (Formae orandi christianae enarratio. Eiusdem in Evangelium Divi Ioannis scholion, 1552, dedicata al severo cardinale Juan Álvarez de Toledo). Sempre di quegli anni sono il De dolore (1551) e il De mente humana (1551, dedicato a Mariano Savelli), opera quest’ultima che trattava del nodo dell’immortalità dell’anima e suscitò, secondo Paolo Giovio, l’immediato scandalo di gesuiti e teatini (a Porzio, 20 maggio 1551, in Lettere, a cura di G.G. Ferrero, II, Roma 1958, p. 196). Significativamente, un volgarizzamento (forse di Gelli) restò inedito (Paris, Bibliothèque national de France, Ital. 411). All’elenco delle fatiche di quegli anni vanno aggiunti alcuni trattatelli manoscritti (sugli occhi, sulla mano) e le consulenze per l’acquisto (tentato da Cosimo e poi fallito) del lascito librario del cardinale Niccolò Ridolfi allo scopo di arricchire la Biblioteca Laurenziana, di cui Porzio giudicò male gli inventari esistenti.
Alternò il secondo soggiorno toscano con frequenti ritorni a Napoli, dove visse stabilmente nel 1553, abbandonando Pisa e la corte medicea (a Firenze nel 1552 l’Inquisizione aveva emanato le prime condanne per eresia). Sempre più malato, da Posillipo scrisse lettere a Eleonora e a Cosimo e si dedicò al commento al primo e secondo libro della Fisica di Aristotele componendo il De rerum naturalium principiis (Napoli, Cancer, 1553), dedicato a Marc’Antonio Colonna.
Come annotò Seripando nel Diarium de vita sua (Roma 1963, p. 89) morì il 27 agosto 1554.
Parte della sua biblioteca confluì nelle collezioni disperse della chiesa agostiniana di S. Maria della Consolazione a Posillipo. Nel 1578 apparve a Napoli una raccolta di Opuscula, che includeva il De mente, il De dolore, il De puella, il De speciebus intelligibilis e la Quaestio num detur sensus agens, seguita significativamente da un’Apologia de immortalitate animae contro il De mente stilata dal filosofo G.A. Marta. Del resto l’opera in cui Porzio difese l’ipotesi della mortalità dell’anima, dichiarandone indimostrabile l’immortalità in base alla dottrina peripatetica, apparve, specie dopo il Concilio di Trento, fortemente eterodossa e fu segnalata alla Congregazione dell’Indice già nel 1576 (Baldini-Spruit, 2009, p. 296). Nel 1580 fu inclusa in un elenco dei libri proibiti apparso a Parma e, donec corrigatur, in quello sistino del 1590, dopo essere stata discussa più volte (per esempio, nel 1584) e dopo un fallito tentativo di espurgare il «Portius sive porcus potius» promosso dalla Congregazione nel 1587 (Baldini-Spruit, 2009, p. 247), senza contare una denuncia venuta da Milano nel 1590 (p. 308). Nel 1592, nell’ambito della revisione della lista dei libri proibiti, il dicastero tornò a occuparsi de De mente e il consultore Giovanni Soderini suggerì di nuovo di espurgarlo (p. 217); dopo fu il silenzio, favorito da un giudizio di empietà condiviso dai protestanti (cfr. l’Epitome Bibliothecae Conradi Gesneri, a cura di I. Simler, Trier 1555, f. 166v, dove si riportava già il gioco di parole Porzio-porco). A difenderne la memoria fu Torquato Tasso, il cui padre Bernardo aveva frequentato la Salerno di Sanseverino: il poeta lo ricordò nel dialogo Il forno, lo difese dall’accusa di eresia nel Gonzaga (era un perfetto aristotelico, scrisse) e intitolò uno dei suoi ultimi dialoghi Il Portio. Dopo Jacques-Auguste de Thou nelle Historiae (1604), a esaltarne il ricordo furono invece i libertini eruditi, da Nicolas-Claude Fabri de Peiresc a Gabriel Naudé, che lo citò nel De Augustino Nipho iudicium (1645). Per Porzio mostrò antipatia lo storico dello Studio pisano Angelo Fabroni, che alluse alla sua eterodossia, mentre dall’Ottocento la sua fama fu oscurata da quella di Pomponazzi, di cui apparve un epigono (nonostante la distanza tra i due filosofi in tema di astrologia), con scarso riconoscimento di un’autonomia intellettuale che ha potuto venire alla luce in anni recenti grazie agli studi di Cesare Vasoli, Eva Del Soldato e Daniela Castelli.
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