Simone Porzio
L’aristotelismo rinascimentale è stato a lungo ritenuto una tradizione filosofica ossessionata da sottigliezze formali e del tutto rimossa dalla vita del suo tempo. Gli studi di Eugenio Garin e di Charles B. Schmitt, solo per fare due tra i nomi più illustri, hanno contribuito da tempo in modo decisivo a spazzar via questo pregiudizio, permettendo di riscoprire autori che nelle loro riletture dello Stagirita erano in dialogo diretto con le avanguardie culturali dell’epoca. Tra questi c’è senza dubbio Simone Porzio, la cifra speculativa del quale andrà cercata – tra esegesi audaci di Aristotele e fiducia nel ‘beneficio di Cristo’ – in una perenne tensione tra natura e grazia.
Simone Porzio (latinizzazione del cognome Porta) nacque a Napoli nel 1496 e condusse i primi studi nella città natale per poi trasferirsi a Pisa, dove divenne uno degli allievi prediletti di Agostino Nifo (1469/1470 ca.-1539/1546 ca.). Quando nel 1525 il maestro fece ritorno a Napoli, Porzio lo seguì. Insegnando a partire dal 1529 presso lo Studio partenopeo, divenne in breve tempo una figura di riferimento della vita culturale cittadina. Entrò in tal modo in contatto con religiosi come Girolamo Seripando, poeti come Luigi Tansillo e Marcantonio Flaminio, liberi pensatori come Ortensio Lando, medici come Paolo Grisignano e Giovanni Filippo Ingrassia, e ricevette onori e stima da parte del viceré Pedro de Toledo e anche del signore di Salerno, Ferrante Sanseverino. La produzione del filosofo fu in questi anni limitata a brevi libelli e a opere di occasione come il De celibatu (1537), l’epistola De conflagratione agri puteolani (1539), la De puella germanica, quae fere biennium vixerat sine cibo, potuque (ca. 1542), ad alcuni trattatelli rimasti manoscritti come il Trattato d’amore e il De fato, e infine a un ambiguo commento al Pater noster apparso significativamente anonimo e privo di segni di riconoscimento, la Cristianae [sic] deprecationis interpretatio (1538).
Questa scarsa produzione editoriale e letteraria potrebbe però trovare una giustificazione nel fatto che la vivace vita culturale napoletana andava in breve tempo affievolendosi a causa delle misure restrittive applicate dal viceré Toledo, il quale sarebbe giunto a chiudere accademie e infine persino l’università per sospetti di novità politiche e religiose. Porzio – verosimilmente partecipe dei fermenti religiosi che animavano la città –, dopo aver tentato senza fortuna di trasferirsi a Roma, riuscì infine nel 1544 ad abbandonare quello che egli stesso definì (in una lettera al cardinale Alessandro Farnese del 22 settembre 1538) il «purgatorio napoletano», per fare ritorno allo Studio di Pisa, da poco rifondato dal duca Cosimo de’ Medici.
Mentre si guadagnava una posizione assai solida all’interno dell’Università pisana – della quale era l’unico, pagatissimo, professore sopraordinario – componeva e pubblicava le sue opere più significative: l’edizione latina dello pseudoaristotelico De coloribus (1548), il De coloribus oculorum (1550), il De dolore (1551), l’An homo bonus vel malus volens fiat (1551), la De humana mente disputatio (1551) e ancora un commento al Pater noster, la Formae orandi christianae enarratio (1552), riscrittura del libello apparso a Napoli oltre un decennio prima. Al contempo, il filosofo partecipava anche alla vita della principale istituzione culturale del principato cosimiano, vale a dire l’Accademia fiorentina, votata alla valorizzazione del volgare. Nell’ambito dei lavori dell’Accademia, Porzio inaugurò una collaborazione con Giovan Battista Gelli (1498-1563), al quale chiese di volgarizzare alcuni dei suoi trattati; e per quanto la selezione delle opere tradotte da Gelli comprendesse i meno teoretici tra gli scritti del filosofo, va tuttavia sottolineato che Porzio fu il solo tra i professori universitari del suo tempo a dimostrare interesse nei confronti del volgare (Del Soldato 2012).
Dividendosi così tra insegnamento, accademia, ricerche ittiologiche e vita cortigiana, Porzio trascorse nove anni: nel 1553, infatti, la sua salute ormai compromessa lo costrinse a fare ritorno a Napoli, dove tuttavia continuò il suo magistero non soltanto dalla cattedra, ma anche dalla sua villa di Posillipo. Dopo aver pubblicato il De rerum naturalium principiis (1553), morì nel 1554. Il suo sarebbe rimasto per decenni un nome rispettato e venerato, e la sua tomba nel duomo di Napoli avrebbe rappresentato persino una meta dei grand tours dell’epoca, almeno fino a quando una falsa leggenda biografica non lo trasformerà in allievo e sterile epigono di Pietro Pomponazzi. Soltanto i pionieristici studi di Francesco Fiorentino avrebbero finalmente iniziato a strappare da un sostanziale oblio la sua complessa figura (Castelli 2008; Del Soldato 2010, pp. 21-34).
Seppur a lungo fraintesa, l’esegesi che Porzio diede nel De humana mente del De anima aristotelico rappresenta certamente uno dei vertici della sua speculazione. E in effetti la rigorosa coerenza che porta il filosofo a scegliere per la sua interpretazione il paradigma alessandrista – secondo il quale, vale la pena ricordarlo, l’uomo era dotato di un’anima individuale, ma mortale – e nello stesso tempo a correggerlo per evitarne ogni possibile ricaduta metafisica – all’eterno intelletto agente-Dio proposto da Alessandro di Afrodisia si sostituisce una virtus sparsa nel mondo sublunare, in pieno ossequio alla separazione delle due sfere – costituisce indubbiamente una delle pagine più interessanti e vive del pensiero rinascimentale.
Porzio fondava la sua soluzione mortalista sul riconoscimento di una natura umana ambigua, impacciata dalla dipendenza dai sensi, e la cui vocazione intellettuale verso l’eternità è tuttavia troppo debole per garantirle, nel rispetto delle implacabili leggi naturali, un destino ultraterreno. Un intelletto eterno non avrebbe infatti bisogno di fare ricorso al senso, ma in realtà l’esperienza ci dimostra che la conoscenza intellettuale e in generale la vita del corpo non sarebbero possibili in assenza dei sensi. La facoltà sensitiva permette dunque di vivere, ma inibisce al contempo il raggiungimento dell’immortalità, imprigionando il genere umano nel ciclo di generazione e corruzione proprio del mondo sublunare. All’uomo resta il tentativo di assimilarsi quanto più possibile agli dei, almeno secondo l’«operazione», senza limitarsi alla cura esclusiva delle cose mortali. Emerge in questo modo il debole contenuto che l’Aristotele di Porzio riconosce alla componente divina dell’uomo, ovvero la capacità di elevarsi con la contemplazione – sia pure per un breve periodo – all’intelligenza delle essenze superiori: «Siamo simili agli dei per operazione, non per sostanza» (De humana mente disputatio, 1551, p. 55).
Una posizione mortalista come quella porziana si esponeva però a una serie di tradizionali problemi di carattere etico: quale premio per la virtù se l’anima è mortale? Ha forse senso essere dotati di libero arbitrio se in ogni caso non riceveremo una ricompensa (o una punizione) eterna per i nostri comportamenti? Nel finale del De humana mente Porzio è impietoso nel liquidare la questione, rispondendo a chi, come Giovanni Filopono e alcuni teologi, forzando i limiti della filosofia naturale, aveva postulato l’immortalità dell’anima sulla base dell’eccellenza del libero arbitrio, che distingue l’uomo dagli altri esseri viventi. Porzio afferma infatti che il libero arbitrio, facoltà non integra e indeterminata, non costituisce certo un indizio per argomentare l’eternità dell’anima, anzi, al contrario, ne dispiegherebbe tutta la finitezza e imperfezione. Se l’indifferenza agli opposti e la mutazione distinguono ed elevano il genere umano al di sopra delle bestie dotate solo di istinto, esse non sono tuttavia proprie delle menti eterne, le quali, essendo atti puri, sono sempre determinate. Il libero arbitrio pertanto si pone come un correlato inevitabile della finitezza umana, segno non già di perfezione e di una vita futura colma di ricompense o di pene, bensì di un’esistenza limitata e imperfetta. In un contesto come quello del De humana mente, dove a dominare è la necessità di fornire una lettura sostenibile del De anima, Porzio non concede agli argomenti etici spazio e dignità, ma non per questo si deve pensare che il problema gli fosse indifferente. Ne è evidente dimostrazione un’opera praticamente coeva al De humana mente, l’An homo bonus vel malus volens fiat: infatti, pur facendo ricorso in questo scritto alla stessa concezione di natura umana, ambigua e ancipite, Porzio enfatizza qui la centralità del problema etico, che permette di retrocedere a corollario sacrificabile la stessa esegesi mortalista.
Pubblicata a Firenze sempre nel 1551 e dedicata al primo segretario del duca Lelio Torelli, l’An homo pare evidenziare fin dalla prefazione una certa vocazione civile: dopo aver infatti introdotto una questione sulla quale si interrogano i peripatetici ‒ «Se l’uomo diventi buono o cattivo spontaneamente e per sua volontà, senza cause ulteriori che lo costringano ad agire bene o male» (p. 3) ‒, Porzio conclude che se l’uomo propendesse per la virtù o per il vizio unicamente per inclinazione naturale, debolezza o ignoranza, se ne ricaverebbero gravissime conseguenze non solo per la ricerca filosofica, ma anche per la stessa vita sociale degli individui. I filosofi vedrebbero cancellato lo statuto privilegiato che unanimemente concedono all’anima, che in tal modo sarebbe invece «sottomessa al corpo» (p. 4); mentre i legislatori, «se agissimo in modo inconsapevole e non per nostra volontà», in vista di cosa si affannerebbero a fissare punizioni, premi, onori e a scrivere codici per stabilire quali siano le azioni oneste? Ma, al culmine di queste categorie che sarebbero colpite dalla negazione del libero arbitrio, Porzio indica significativamente i teologi, i quali a loro volta inutilmente indirizzerebbero i loro sforzi a purgare le nostre menti da ogni turbamento per renderle gradite a Dio: per quanto nel finale Porzio affermi, forse per ragioni prudenziali, di aver composto il trattato «senza aver fatto ricorso agli argomenti […] dei teologi» (p. 67), sarà proprio un concetto teologico come la grazia a costituire uno dei motori dell’opera.
Nelle pagine che seguono, infatti, insieme alle disquisizioni ed esegesi ‘tecniche’ sul testo dell’Etica Nicomachea, risuona con evidenza molto di più e molto di meglio: niente meno che l’eco della disputa sulla libertà dell’arbitrio inaugurata da Erasmo da Rotterdam contro Martino Lutero, e che aveva trovato più tardi sensibile espressione anche in Gasparo Contarini. Proprio da Erasmo e Contarini pare mutuata l’ossatura stessa dell’An homo (Del Soldato 2005, pp. XXVII-XXVIII; Del Soldato 2010, pp. 166-70), in cui a sfidarsi scendono tre scuole filosofiche: lo stoicismo, con il suo uomo capace di autodeterminarsi e di salvarsi da solo, associato esplicitamente da Porzio al pelagianesimo; il platonismo, per il quale, al contrario, l’uomo è capace del bene solo per dono divino, e nel quale è necessario riconoscere un implicito riferimento ai riformati; e infine la posizione mediana ed equilibrata, quella dell’aristotelismo, capace, in virtù del riconoscimento dell’ambiguità della natura umana, di concedere all’uomo tanta libertà quanta gliene basta per riconoscere i propri limiti.
Al termine della sua inchiesta, nel corso della quale analizza minuziosamente i processi della deliberazione, Porzio rassicura infatti i lettori sull’ovvia esistenza del nostro libero arbitrio, ma pare non poter fare altrettanto sulla sua consistenza, che risulta debole e limitata. La volontà non si estende, ad es., al fine, il quale muove naturalmente come oggetto e non può essere sottoposto a elezione, e si rivolge pertanto solo ai mezzi per conseguirlo. Molte cose poi non dipendono dall’uomo e non possono essere sottoposte a deliberazione; la necessità, la natura e il caso riducono e stravolgono spesso i nostri margini di azione, visto che non possiamo prevenirli conoscendone le cause. Insomma, sembra che il proposito iniziale di dimostrare la realtà dell’arbitrio umano si infranga nel finale di fronte a nemici di ogni sorta che l’attività speculativa e la virtù non bastano a debellare a causa di un’antropologica dipendenza dal peccato, alla quale si aggiungono altre zavorre come la perturbazione dei sensi, l’habitus, l’inclinazione naturale, i bisogni contingenti, le influenze astrali e, infine, la predestinazione divina. Si vede come la debolezza dell’arbitrio sia condizionata dalla dimensione materiale dell’uomo, acquisita in seguito alla caduta di Adamo, che ha compresso il corretto funzionamento delle nostre facoltà spirituali e intellettive. Per questo, solo una grazia soprannaturale può intervenire per spezzare il nesso di passioni che ci incatena alla nostra finitezza. Si capisce bene che la libertà dell’arbitrio umano viene mantenuta in ultima analisi proprio al fine di esaltare il salvifico beneficio divino:
Vedi, o Lelio mio, quanto siano stretti i confini del nostro arbitrio, da quanti nemici sia circondato, e quanti siano a saccheggiare la sua libertà, senza che ci sia nessun difensore che lo protegga se non Cristo, grazie al quale è possibile divenire figli di Dio a coloro che credono nel suo nome (An homo, cit., p. 66).
Per giungere a una simile soluzione, coronata niente di meno che da un deus ex machina realmente divino, Porzio rivede e sposta i confini della natura umana definiti nel De humana mente; e infatti proprio in apertura dell’An homo afferma:
Poiché l’uomo ha avuto in sorte una natura ambigua (e ciò se consideriamo che l’intelletto possibile e l’anima stessa non siano soggetti a corruzione, mentre nel caso contrario, che probabilmente Aristotele ha approvato, si dovrà dire diversamente), anche l’anima ha tra le sue facoltà alcune che condivide con le bestie e le piante, e una sua propria, grazie alla quale è superiore agli altri esseri animati (pp. 12-13).
La natura mediana dell’uomo, superiore alle bestie e inferiore alla divinità, viene dunque qui valorizzata per il suo aspetto intellettuale, proiettato verso l’eternità: questo slittamento permette a Porzio di affermare l’incorruttibilità dell’intelletto possibile, che nel De humana mente, sempre puntellandosi su questa essenza ancipite, aveva invece consegnato al destino opposto. Questo non significa che stavolta Porzio conceda all’uomo di elevarsi da solo oltre la propria natura: perfino il saggio che ha raggiunto la superiore virtù contemplativa non può fare a meno di possedere almeno in potenza la virtù morale che costituisce il proprium della natura umana, venendo inchiodato alla sua ineliminabile materialità:
Tuttavia l’uomo civile, che si trova nella società degli uomini, essendo privo di molte cose, non deve limitarsi a scegliere la virtù, ma deve proprio metterla in atto. Per il filosofo contemplativo, che trascorre la vita libero da impegni pubblici, è invece sufficiente scegliere la virtù (p. 40).
Ma questa diversa declinazione dell’ambigua natura umana, che mantiene l’intelletto possibile immortale, fa sì che il De anima aristotelico e la sua esegesi mortalista vengano accantonati per lasciare spazio a un’interpretazione dove al peripatetismo è persino concesso di entrare in dialogo e di integrarsi con la teologia, in una sorta di unicum all’interno della produzione di Porzio, sempre attento a distinguere tra i domini della fede e quelli della filosofia (Del Soldato 2010, p. 171). È proprio attraverso questo slittamento verso la teologia che Porzio non cade nell’accusa di incoerenza lanciata al suo interprete favorito, quell’Alessandro di Afrodisia che aveva negato in via Aristotelis l’immortalità dell’anima, ma che, sempre cercando di raccogliere le vestigia dello Stagirita, aveva difeso, nel suo trattato Sul fato, la libertà umana: una volontà non condizionata urta infatti con l’impossibilità di ricompensarla o punirla, qualora l’anima sia mortale; e Pomponazzi aveva colto e attaccato assai lucidamente la contraddizione nella quale era caduto l’Afrodisio (P. Pomponazzi, Libri quinque de fato, de libero arbitrio et de praedestinatione, ed. R. Lemay, 1957, p. 90).
Porzio, invece, seguace dell’alessandrismo per quanto concerne l’anima, declina in una prospettiva certo aristotelica, ma su uno sfondo teologico, la questione della libertà umana, e giocando le due partite su paradigmi diversi – puramente speculativo per il De humana mente, all’intersezione fra fede e aristotelismo per l’An homo – evita così ogni accusa di incoerenza. Nella conclusione dell’An homo, del resto, l’apparentamento tra teologi e filosofi (aristotelici, beninteso) viene addirittura reso esplicito, nell’affermazione della complementarità fra la complessa descrizione antropologica fornita da questi ultimi e le dottrine cristologiche dei primi:
Ma [come salvaguardare il nostro arbitrio] va chiesto in parte al filosofo, il quale sa rendere conto della natura dell’uomo, in parte al teologo, il quale può insegnare, quando ci sia bisogno di maggiori forze, con quali di esse siamo muniti attraverso Cristo della grazia divina contro i nostri nemici (An homo, cit., p. 66).
Tutto questo è appunto reso possibile attraverso lo scollamento tra etica e fisica operato da Porzio, il quale non tenta di porle in conflitto, né di sovrapporle in cerca di un’armonia che sarebbe impossibile, a causa dei rigidi confini del cosmo aristotelico. Egli non cade neanche nei lacci di dottrine come quelle della provvidenza e della predestinazione, e si limita invece a un fuggevole accenno per quanto riguarda la predestinazione, senza fare menzione alcuna della provvidenza: un tema che affronterà invece secondo una prospettiva da puro filosofo naturale in opere come il De fato (Milano, Biblioteca Ambrosiana, cod. P 197 sup., cc. 75r-94r) e il De rerum naturalium principiis, nelle quali aderisce con forza all’interpretazione aristotelica della providentia ad speciem proposta da Alessandro di Afrodisia. Qui nell’An homo Porzio intende recuperare dalla teologia solo il fondamentale concetto di grazia salvifica, che può combinare alla perfezione con l’umanità dotata di intelletto, ma impedita dalla materia descritta da Aristotele. Già a Napoli nel 1543, nel corso di alcune lezioni universitarie, egli aveva affermato che avrebbe voluto insegnare ai suoi studenti per un intero anno l’Etica di Aristotele, «poiché se non conosci questo libro, non puoi conoscere la teologia» (Milano, Biblioteca Ambrosiana, cod. A 153 inf., c. 167r), lasciando intendere la relazione viva tra le due discipline. Del resto un’opera come la Nicomachea, che descrive sì l’ambiguità della natura umana, ma senza coinvolgere in modo diretto le sorti dell’anima e la dipendenza dalle leggi della fisica e del cosmo, si prestava perfettamente a un simile utilizzo, permettendo a Porzio di salvare l’arbitrio umano senza tradire il paradigma aristotelico, che traghetta stavolta verso l’unica comunicazione possibile con il mondo della teologia; quella stessa teologia che vorrà però ripulita non solo di ogni infiltrazione peripatetica quando si tratterà di commentare il Pater noster e il Vangelo di Giovanni.
Nel 1538 Porzio aveva stampato a Napoli, senza alcuna indicazione che ne permettesse il riconoscimento, un libello intitolato Cristianae [sic] deprecationis interpretatio, a oggi rarissimo (Del Soldato 2006; Del Soldato 2010, p. 136). Il filosofo doveva essere consapevole del significato scivoloso dell’opera, un commento al Pater noster, vale a dire un genere praticato inizialmente da autori come Girolamo Savonarola e Giovanni Pico della Mirandola come semplice richiamo all’essenzialità della preghiera insegnataci da Cristo stesso, ma che aveva poi incontrato una larga fortuna presso scrittori di simpatie eterodosse, come lo stesso Juan de Valdés, ispiratore della vita religiosa napoletana di metà Cinquecento (A. Prosperi, Les commentaires du “Pater noster” entre XVe et XVIe siècles, in Aux origines du catéchisme en France, éd. P. Colin, 1989, pp. 87-105).
Nella sua Interpretatio Porzio insisteva sulla necessità di una preghiera raccolta e appartata, e affermava che le orazioni andassero destinate al solo Dio e non ai santi – riecheggiando probabilmente Erasmo che, nel suo Modus orandi Deum (1525), aveva associato non solo un’orazione puramente esteriore, ma anche il culto dei santi a una sorta di moderno paganesimo.
La polemica contro le esteriorità farisaiche e quella contro la venerazione dei santi si fondano del resto su un comune principio, in base al quale onori e lodi particolari spettano solo a Dio padre e a Cristo, e non a semplici uomini. La divinità e l’uomo sono infatti separati da una completa alterità e, come per gli stoici/pelagiani dell’An homo, va pertanto bandita qualsiasi tracotante pretesa di autosufficienza da parte dell’individuo: nell’insistita riproposizione dell’adagio giovanneo «senza di me non potete fare nulla» (Giovanni 15, 5) Porzio implica la sottovalutazione dei meriti umani e l’assoluto potere giustificante della fede. In questo modo il filosofo enfatizza la dipendenza dell’uomo nei confronti della giustificazione divina e del ‘beneficio’ che Cristo ci aveva concesso attraverso il suo sacrificio: in particolare, della giustificazione attraverso le opere non viene fatta menzione alcuna, e questo non è particolarmente strano in un’opera composta prima del fallimento di Contarini a Ratisbona e delle decisioni del Concilio di Trento sull’inammissibilità della giustificazione sola fide. Eppure, in forma riveduta quanto allo stile e rimuovendo ogni citazione di autori pagani per concentrarsi unicamente sulle fonti bibliche e patristiche, Porzio ripubblica questo suo trattato prima nel 1551 nella versione in volgare curata da Gelli e poi nel 1552 sotto il titolo di Formae orandi christianae enarratio, quando ormai il Concilio, nel 1547, aveva chiuso una volta per tutte la partita sulla questione della giustificazione sancendo il contributo salvifico delle opere stesse. Porzio prende tuttavia delle precauzioni nel riproporre lo scritto, aggiungendo proprio nella prima pagina un significativo inciso, nel quale l’esaltazione del ‘beneficio di Cristo’ viene mitigata dall’affermazione che eredi delle ricchezze celesti lo si diventa non solo grazie alla passività della fede, ma pure attraverso le opere.
La scelta di presentare immediatamente in positio princeps il tema del valore delle opere non è affatto casuale, soprattutto se, confrontando il resto dell’opera, si vede come dell’argomento non venga più praticamente fatta menzione e, al contrario, la sufficienza della fede, che era già centrale nel testo napoletano, venga assecondata e addirittura potenziata: si pensi all’insistenza con la quale viene citato il versetto giovanneo «ha reso figli di Dio coloro che credono nel suo nome» (Giovanni 1, 12). Le sole precauzioni che Porzio pare adottare in questa seconda versione sono l’addolcimento del passo sulla preghiera ai santi, che viene negata in modo meno reciso (Cristianae deprecationis interpretatio, 1538, c. 2r; Formae orandi christianae enarratio, 1552, p. 10), e l’espunzione di un breve passaggio dove si faceva menzione della necessità di onorare Cristo in croce (presente in Cristianae deprecationis interpretatio, cit., c. 3v; mancante invece in Formae orandi christianae enarratio, cit., p. 9), un’immagine familiare ai circoli evangelici e spesso ricorrente nel noto Beneficio di Cristo. La sufficienza della giustificazione per fede viene poi perfino ribadita nello scolio al Vangelo di Giovanni, aggiunto come pendant all’Enarratio: commentando il già ricordato versetto (Giovanni 1, 12), Porzio afferma che la passività umana nel ricevere la grazia non implica l’abolizione della sua libertà, ma limita l’atto della fede al credere, senza mai nominare le opere in quella che appare una precisa scelta dottrinale tesa a minimizzare il ruolo dell’uomo nel conseguimento della luce divina. Da questa insistita omissione appare pertanto evidente che nella visione porziana le opere non sono affatto un necessario complemento per farsi eredi di Dio, poiché è sola fide che l’uomo ottiene la salvezza: «A noi spetta solo ricevere» (Formae orandi christianae enarratio, cit., p. 68).
Va però aggiunto che se da un lato Porzio mantiene e potenzia il cristocentrismo del libello napoletano, al contempo non doveva essere inconsapevole del fatto che il richiamo a una preghiera intima e lontana dagli eccessi delle cerimonie fosse un luogo comune della sensibilità nicodemita, che avrebbe guardato certo con interesse ai contenuti dell’Enarratio.
La vicenda dei commenti porziani al Pater conferma così le letture erasmiane del filosofo e ne rivela il coinvolgimento nelle discussioni religiose di matrice evangelica del suo tempo. Non è un fatto particolarmente originale quello di riscontrare tendenze religiose eterodosse in un esponente dell’‘aristotelismo radicale’, ma in Porzio ciò accade senza che le due propensioni si condizionino a vicenda, anzi tutt’altro. Egli distingue programmaticamente all’interno della sua produzione i confini tra teologia e aristotelismo: ecco dunque come la filosofia abbia il sopravvento e i teologi siano quasi scherniti in opere come il De humana mente, dove l’esegesi aristotelica tiene il campo; ed ecco come lo slittamento dalla fisica all’etica permetta l’integrazione di aristotelismo e teologia nell’An homo, dove le due voci si rivelano complementari per la soluzione del problema affrontato; ed ecco, infine, il totale esilio di citazioni filosofiche in opere puramente teologiche come i commenti al Pater, dove la grazia divina non ha bisogno di puntelli speculativi esterni per affermare la propria eccellenza.
Si vede pertanto in modo chiarissimo come l’aristotelismo di Porzio, per quanto votato a mostrare la coerenza e l’efficienza delle leggi del cosmo dello Stagirita, non fosse affatto impermeabile a stimoli esterni come quelli provenienti dai dibattiti religiosi del suo tempo e in particolare a temi come la libertà dell’arbitrio e la posizione dell’uomo rispetto a Dio, per dare risposta ai quali era costretto ad allargare e rivedere, oppure ad abbandonare del tutto, i chiusi e rassicuranti confini del suo mondo peripatetico.
De celibatu, Neapoli 1537.
Cristianae [sic] deprecationis interpretatio, [Napoli 1538].
De conflagratione agri puteolani, Neapoli 1539 (nel volgarizzamento di O. Rizzuti, Trattato del fuoco apparso in li luochi de Puzolo del magnifico Simone Portio, [Napoli 1539]).
De puella germanica, quae fere biennium vixerat sine cibo, potuque, s. l. d. (nel volgarizzamento di G.B. Gelli, Disputa dello eccellentissimo filosofo M. Simone Portio napoletano, sopra quella fanciulla della Magna, la quale visse due anni o più senza mangiare, et senza bere, In Firenze [1551]).
De coloribus libellus, Florentiae 1548.
De coloribus oculorum, Florentiae 1550 (nel volgarizzamento di G.B. Gelli, Trattato de colori degl’occhi dello eccellentissimo filosofo m. Simone Portio napoletano, In Fiorenza 1551).
An homo bonus vel malus volens fiat, Florentiae 1551 (nel volgarizzamento di G.B. Gelli, Se l’huomo diventa buono o cattivo volontariamente. Disputa dello eccellentissimo filosofo m. Simone Portio napoletano, In Fiorenza 1551).
De dolore, Florentiae 1551.
De humana mente disputatio, Florentiae 1551.
Formae orandi christianae enarratio. In Evangelium divi Ioannis scholion, Florentiae 1552 (nel volgarizzamento di G.B. Gelli, Modo di orare christianamente con la espositione del Pater noster, fatta da M. Simone Portio napoletano, In Fiorenza 1551).
De rerum naturalium principiis libri duo, Neapoli 1553.
Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, cod. Ashburnhamiano 436, cc. 17r-31v.
Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, cod. Ashburnhamiano 674, cc. 67r-90r.
Milano, Biblioteca Ambrosiana, cod. P 197 sup., cc. 75r-94r.
Milano, Biblioteca Ambrosiana, cod. Q 122 sup., cc. 17r-24r.
Napoli, Biblioteca Nazionale, cod. Brancacciano V D 13, cc. 101r-107r.
Napoli, Biblioteca Nazionale, cod. Brancacciano V D 17, cc. 1r-67r, 165r-174v.
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