SIMONE
(Simone da Gaville, Simone Bencini). – Nacque probabilmente nel villaggio di Gaville, non lontano da Figline in Valdarno superiore, durante i primi anni Venti del XIV secolo, sebbene una poco attendibile tradizione interna all’Ordine benedettino vallombrosano lo qualifichi come fiorentino appartenente alla famiglia Altoviti.
In una sua lettera datata 12 febbraio 1385 (1384 secondo lo stile fiorentino) dichiarò di essere stato accolto quarantanove anni prima, ossia nel 1336, quale novizio dell’Ordine vallombrosano. Dovette formarsi allo studium della casa madre in teologia e diritto canonico, e intorno al 1355 fu eletto abate del monastero di Pacciana, alla periferia orientale di Pistoia.
Non sufficientemente documentate risultano le sue permanenze come guida del monastero maremmano di Monteverdi Marittimo sulle Colline Metallifere e quale anacoreta presso l’eremo delle Celle a Vallombrosa. Sappiamo, invece, con maggiore certezza che nel 1359 divenne superiore del cenobio fiorentino di S. Trinita, in quanto successore dell’eremita Giovanni delle Celle, seguace di s. Caterina da Siena, il quale proprio fra il 1359 e il 1369 gli inviò varie lettere (di cui una sola si è conservata) per raccomandargli il governo dell’Ordine e la disciplina dei confratelli. Nel 1369 Simone assunse la guida dell’intera famiglia regolare, prontamente confermato nella dignità da papa Urbano V.
Dal 1372 al 1373 Simone compì la visita canonica presso i monasteri della Tuscia e di una parte dell’area padana a lui immediatamente soggetti, e ne lasciò una dettagliata testimonianza autenticata da notai.
Gli atti di tale complessa ricognizione furono strutturati secondo un preordinato schema di domande rivolte agli abati e agli altri professi di ciascuna fondazione. La registrazione costituisce il primo documento di questo genere conservato per l’obbedienza regolare di Vallombrosa. Simone fu anche autore di un memoriale (1372-92), il cui manoscritto reca l’erronea attribuzione, aggiunta in epoca moderna, a un Simone Altoviti. Questo scritto presenta una struttura che lo avvicina ai più antichi libri di ricordanze della tradizione letteraria toscana, configurandosi come un registro di conti che apre alla menzione annalistica degli eventi occorsi al monastero maggiore e all’intera compagine vallombrosana. Durante il suo abbaziato la casa madre si dotò di una vera e propria cancelleria, grazie al reclutamento di alcuni tabellioni valdarnesi e di provenienza fiorentina. In qualità di abate generale egli impresse una svolta significativa alle modalità di stesura e conservazione dei documenti.
Simone fu molto vicino al reggimento della città di Firenze. Nel 1364, allorché si trovava alla guida di S. Trinita, venne inviato come ambasciatore a Pisa e a San Miniato al Tedesco. Agli inizi della cosiddetta guerra degli Otto Santi, che fra il 1375 e il 1378 oppose la città dell’Arno a papa Gregorio XI, svolse il ruolo di mediatore per conto del Comune gigliato; impegno che, tuttavia, non gli evitò un breve esilio e non risparmiò alle case vallombrosane la confisca dei beni inflitta agli enti ecclesiastici del dominio fiorentino. Nel corso degli stessi anni mantenne un contatto personale con il noto canonista Lapo da Castiglionchio, che seguì alcune cause accese fra gli istituti dell’Ordine e fu corrispondente del prelato dall’esilio inflittogli dopo il tumulto dei Ciompi (1378).
Gran parte dell’operato e delle relazioni riconducibili a Simone sono testimoniati dal suo ricco epistolario, conservato presso la Biblioteca nazionale centrale di Firenze, che costituisce un tipico esempio di quel governo tramite lettera che caratterizzò i vertici istituzionali degli Ordini religiosi in età proto e pieno umanistica. Tale carteggio fa di Simone il primo generale vallombrosano che abbia lasciato una dettagliata testimonianza della propria attività. Le missive riferiscono, infatti, delle numerose nomine di abati e priori promosse fra gli anni Settanta e Ottanta per cercare di sottrarre le fondazioni alla commenda o, comunque, per recuperarle all’obbedienza vallombrosana.
Basti ricordare le trattative concernenti la badia della Ss. Trinità di Verona, le importanti fondazioni chiantigiane di Passignano e Coltibuono, il cenobio valdarnese di Montescalari, quello emiliano di Montearmato, quello di S. Maria dell’Eremita in Valnerina e quello sardo di S. Michele di Plaiano. Simone intervenne anche nella scelta dei superiori destinati a istituti a lui soggetti solo in forma mediata, come l’abate del monastero di S. Michele a Poggio San Donato in Siena, dipendente dalla citata abbazia di Passignano. Sempre allo scopo di evitare gli affidamenti a superiori non compresi nella congregazione, acquisì alcune case regolari decadute e quasi completamente spopolate inserendole nel patrimonio immobiliare di Vallombrosa e facendone delle vere e proprie grange abbaziali, come avvenne per l’antica comunità di Monteverdi Marittimo.
La nomina di abati e priori locali costituisce il principale argomento trattato nelle lettere. Queste, tuttavia, ci presentano anche il generale intento a esercitare la propria autorità come giudice dei monaci accusati di più o meno gravi mancanze, ad acquisire l’obbedienza di alcuni chiostri non vallombrosani e a controllare le finanze e le situazioni patrimoniali delle varie dipendenze, con una particolare attenzione per le fondazioni più distanti e problematiche, come quella milanese del Gratosoglio e dei Ss. Gervasio e Protasio di Brescia.
Sempre dall’epistolario sappiamo che nel 1382 Simone dovette difendersi dall’accusa di aver evaso il fisco pontificio, accusa avanzata dall’abate del monastero fiorentino di S. Bartolomeo a Ripoli, chiostro da sempre conteso fra l’Ordine e la curia episcopale gigliata. Ma attacchi diretti alla sua persona furono avanzati anche l’anno successivo dal superiore del monastero, parimenti suburbano, di S. Salvi, tale Bartolo, che aveva a lungo conteso a Simone la carica generalizia, senza comunque che sia seguito alcun provvedimento disciplinare nei suoi confronti da parte della Sede apostolica.
A questa complessa vicenda fece seguito una riforma costituzionale dell’Ordine sancita dal capitolo generale riunito l’8 maggio 1384; un’assise che fissò nuove regole per la ricognizione delle case suffraganee e ribadì l’indispensabile consenso dell’abate maggiore a ogni nomina di un responsabile del governo locale.
Il dinamismo del generale evidenzia come fosse soprattutto lui, e non il cardinale protettore, a gestire i rapporti tra l’Ordine, la sede pontificia e i poteri laici territoriali. Ciò era dovuto in primo luogo alla familiarità di Simone con il pontefice di obbedienza romana. Tuttavia il suo operato lascia intendere che ancora sul finire del Trecento gli Ordini monastici sorti nell’XI secolo conservavano una notevole capacità di autogestione e, grazie alle norme di tutela sancite dai dettami costituzionali, erano lungi da assecondare tutti i desiderata dei papi, dei più influenti porporati o dei domini laici.
Fin dal 1372 Gregorio XI aveva confermato al generale vallombrosano il diritto di fregiarsi delle insegne pontificali, ribadendo l’esenzione di numerosi monasteri dall’autorità e dalla tutela degli ordinari diocesani. Tale prerogativa fu rivendicata da Simone nel 1383, in una lettera a Lorenzo di ser Tani, notaio della curia vescovile e del clero fiorentini. In cambio della protezione apostolica i pontefici, soprattutto Urbano VI, si servirono di Simone quale legato in Lombardia e in Romagna, regioni nelle quali egli aveva stabilito importanti relazioni fondate sulla presenza di numerose case del suo Ordine. Nel 1380 ricevette l’incarico di arruolare alcuni capitani di ventura per conto del papa; e nello stesso anno si adoperò per ricomporre il conflitto che opponeva Galeotto Malatesta signore di Rimini a Guido da Polenta vicario ravennate circa il possesso di Cesena e del porto di Cesenatico. Approfittando dell’autorevolezza di cui ormai godeva, intervenne, forse su sollecitazione del reggimento fiorentino, presso il cardinale Tommaso del Frignano in difesa dell’inquisitore minorita in Tuscia Lodovico Nerli, che era stato criticato per il suo scarso impegno, affiancato da un confratello e infine deposto dall’incarico per opera del suddetto porporato.
Dalle lettere emerge anche la visione che Simone aveva della vita contemplativa. Lo evidenzia, per esempio, uno scritto del 1377 diretto al nuovo arcivescovo di Genova Lanfranco Sacco, originariamente professo nel locale chiostro vallombrosano di S. Bartolomeo del Fossato. Il testo è condotto sul duplice registro delle felicitazioni per l’importante dignità ricevuta e la retorica commiserazione, permeata di velato rimprovero, nei confronti di un monaco che lasciava la quiete del chiostro (paradisus terrestris) per assumere i difficili impegni della cura pastorale. Fedele a questa impostazione autenticamente contemplativa, Simone promosse la restaurazione della consuetudine che prevedeva lo scambio di notizie e preghiere in suffragio dei confratelli defunti appartenenti al proprio Ordine e a quello camaldolese, una tradizione di antica origine caduta in desuetudine durante la crisi demografica di metà Trecento.
Stando alle testimonianze degli eruditi vallombrosani, in seguito a un’improvvisa malattia Simone si spense a Vallombrosa l’8 settembre 1387 e fu sepolto nella cappella degli abati.
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