Simonide
Poeta lirico greco, nato da nobile famiglia a Iuli nell'isola di Ceo (557-556 a.C.); morì quasi novantenne ad Agrigento (468-466 a.C.).
Trascorse la vita passando dall'una all'altra delle corti del tempo: per la sua fama di poeta di epinici - un tipo di composizione lirica corale celebrativa delle vittorie riportate ai giuochi panellenici, di cui era ritenuto l'inventore - fu invitato ad Atene da Ipparco, figlio di Pisistrato, e alla morte di questo (514 a.C.) in Tessaglia dagli Scopadi, una stirpe di principi che, secondo la leggenda, perì tutta intera per l'improvviso crollo del soffitto avvenuto durante un banchetto, dal quale soltanto S., che vi partecipava, uscì incolume. Dopo altre vicende ritornò ad Atene all'inizio delle guerre persiane; nel 476, infine, si recò a Siracusa presso Gerone, dove rimase fino alla morte. S. fu molto criticato per la venalità dimostrata nella sua posizione di poeta cortigiano, ma riscosse insieme larghissimi consensi per la levatura e la versatilità della sua produzione. Scrisse elegie ed epigrammi e trattò tutte le forme della lirica corale: partenii, peani, encomi, ditirambi, epinici, treni. Famosi sopra gli altri tra il centinaio di frammenti a noi pervenuti l'" Encomio dei caduti alle Termopili " (che avrebbe ispirato al Leopardi la canzone All'Italia) e il cosiddetto " Lamento di Danae ". Nei carmi melici discusse spesso e con molta sottigliezza di problemi morali, trasportando nella melica corale la gnomica dell'elegia simposiaca.
Nel poema dantesco S. è ricordato tra gli abitanti del nobile castello nel Limbo, in Pg XXII 107 Simonide, Agatone e altri piùe, con implicito riconoscimento della sua grandezza di poeta.
Un suo concetto circa i limiti posti alla conoscenza umana è invece riportato nella critica che ad esso aveva mosso Aristotele, in Cv IV XIII 8 E però dice Aristotile nel decimo de l'Etica, contra Simonide poeta parlando, che " l'uomo si dee traere a le divine cose quanto può "; in che mostra che a certo fine bada la nostra potenza.
Il problema relativo all'inesattezza della citazione aristotelica è ampiamente discusso in Busnelli-Vandelli II 156-157, dove si fa riferimento alle conclusioni raggiunte in proposito da E. Proto (Note al " Convivio " dantesco, in " Giorn. stor. " LXV [1915] 199-262). Il nome di S. non è esplicitamente citato da Aristotele in Eth. Nic. X 7, 1177a 31 ss. (cfr. Proto, p. 253), mentre compare nella lect. XI, n. 2107 e 2109 del commento di s. Tommaso, dal quale risulta che nel passo in questione Aristotele non fa il nome di S., e che l'allusione al poeta greco si ricava dal confronto con un passo analogo, in cui il nome compare, all'inizio della Metafisica (I 2, 982b 30 ss. lect. 3,). Il concetto simonideo confutato da Aristotele e da s. Tommaso, che a sua volta approfondisce la confutazione, si riassume in questo: che all'uomo sia preclusa la scienza speculativa (Tomm. n. 2109, cit.: " quod homo non debeat vacare speculationi intellectuali "); un concetto che già Aristotele condannava come errato spiegandolo nel senso che secondo gli antichi la conoscenza delle cose metafisiche era esclusivo privilegio divino, essendo gli dei pagani invidiosi per loro natura (Metaph. loc. cit.: " quia divinum natura est invidere "). Di questa " invidia degli dei " e, per converso, del comprovato diritto dell'uomo a dedicarsi alla speculazione astratta entro i limiti del suo intelletto disquisisce con ampiezza s. Tommaso nelle note 61 e 62 relative al passo aristotelico.
Senonché il Proto (p. 254) ha dimostrato che l'inesattezza in cui è incorso D. non consiste nell'aver postulato la presenza del nome di S. in un contesto aristotelico in cui esso non compare se non allusivamente e in maniera da essere congetturabile per via di confronto con altri testi dello stesso Aristotele e con il commento di s. Tommaso, bensì nell'aver fatto una citazione sbagliata. Infatti il passo aristotelico riportato in Cv IV XIII 8 ha per fonte diretta non già Aristotele, ma s. Tommaso Cont. Gent. I 5 " Apparet etiam alia utilitas ex dictis Philosophi in decimo Ethicorum, c. 7. Cum enim Simonides cuidam homini praetermittendam divinam cognitionem persuaderet et humanis rebus ingenium applicandum, oportere inquiens humana sapere hominem et mortalia mortalem, contra eum Philosophus dicit quod homo debet se ad immortalia et divina trahere quantum potest ", il che è ulteriormente spiegato dall'Aquinate nel senso che tale facoltà di cercar di penetrare nel divino è concessa all'uomo non certo per compiere opere che solo Dio può attuare, ma per unirsi a lui col tramite dell'intelletto e della volontà (Sum. theol. II II 130 1-2).