SIMONIDE (Σινμωίδης, Simonĭdes)
Insieme con Pindaro e con Bacchilide fu tra i maggiori rappresentanti della lirica corale greca. La tradizione tuttavia non gli è stata favorevole e ha lasciato perire quasi del tutto le sue opere, sacrificandolo al più giovane rivale, Pindaro. Nacque a Iuli (Ceo) probabilmente il 556 a. C. L'origine ionica è ben visibile nel suo carattere, quantunque egli si sia dedicato in special modo a quella forma d'arte, la poesia corale, che era di tradizione dorica e adoperava anche, ostentatamente, il dialetto dei Dori. Ma d'altra parte Simonide coltivò pure altre forme, più propriamente ioniche, come l'elegia, il canto conviviale, l'epigramma. La sua educazione musico-letteraria si formò in patria, dov'egli ebbe occasione di sperimentarsi nelle feste di Dioniso, a Iuli, e specialmente in quelle di Apollo a Carthaia, piccolo paese dell'isola stessa di Ceo. Presto cominciò a essere invitato come maestro di cori nelle regioni vicine, a Egina, nell'Eubea, ecc., e non solo per solennità religiose, ma per ogni specie di cerimonie.
Le sue attitudini del resto lo predisponevano a cantare le lodi degli uomini forse ancor più che quelle degli dei. I grandi giuochi nazionali lo ebbero come loro cantore; e gli diedero modo d'intrecciare relazioni con le famiglie aristocratiche e coi principi della Grecia. Il primo epinicio che di lui venga ricordato fu per la vittoria olimpica di Glauco Caristio, nel 520 a. C.
In quegli anni il pisistratide Ipparco attraeva alla propria corte, in Atene, il fiore dei poeti e degli artisti. S. vi fu chiamato; e vi s'incontrò con Anacreonte, con Laso d'Ermione, con altri. Il soggiorno d'Atene, dove confluivano elementi della più viva e varia cultura, servì certo a nutrire il suo spirito e ad accrescere la versatilità delle sue disposizioni. Già allora erano in vigore gli agoni tragici delle Dionisie urbane: quindi anche S. poté in qualche modo parteciparvi; e non è strano se gli si trova attribuita la composizione di tragedie. Da Atene, in seguito all'uccisione di Ipparco, nel 514, egli passò in Tessaglia, ospite degli Scopadi e degli Alevadi, che regnavano rispettivamente a Farsalo e a Larissa, ed erano in alleanza coi Pisistratidi. Alla corte degli Scopadi dimorò, probabilmente, alquanto tempo, poiché sappiamo che per essi compose parecchi carmi, fra i quali è famosa una canzone conviviale, riferita nel Protagora platonico, in cui si cerca di confutare la sentenza di Pittaco "è difficile essere buono". Una catastrofe non ben determinata, forse la caduta del tetto durante un festino, distrusse questa famiglia principesca; e S., superstite solo per miracolo, commemorò i defunti in un carme, della categoria degli inni funebri (ϑαῆνοι), che divennero la sua più tipica specialità. Anche alla famiglia degli Alevadi consacrò parecchi componimenti, fra cui è ricordato un inno in morte di Antioco, figlio del regnante Echecratida.
Ma gli avvenimenti politici distaccarono S. dalla corte dei principi e lo ricondussero nella democratica Atene, dove si accentrava la difesa della libertà greca nel gigantesco conflitto contro la Persia. La condotta di S. in quelle circostanze è tanto più degna di nota in quanto si contrapponeva all'atteggiamento filopersiano dell'altro grande poeta corale, Pindaro. Condizioni speciali, come l'origine ionica, servirono a indirizzare S. su questa via (il suo paese natale, l'isola di Ceo, era naturalmente a fianco di Atene); ma molto dovrà anche essere attribuito alla nobiltà dei suoi sentimenti, alla larghezza delle sue idee, alla perspicacia del suo ingegno, che era singolarmente duttile e aperto a cogliere le esigenze, gl'interessi, le inclinazioni dei tempi. Durante tutto il periodo delle guerre persiane, da Maratona alle Termopili e a Platea, S., che pur era in età già molto avanzata, fra i settanta e gli ottant'anni, si affermò come il cantore delle vittorie elleniche, il suscitatore e l'interprete della nazione. L'elegia da lui composta per i morti della battaglia di Maratona (di cui non ci restano che due versi) era tale che gli ottenne il premio a confronto con Eschilo. Altrettanto celebre l'inno (di cui possediamo un frammento) per i caduti alle Termopili; ai quali è anche dedicato un epitafio (l'epigramma per la tomba di Megistia d'Acarnania). Un carme melico egli compose per la battaglia navale dell'Artemisio; un altro carme, pure melico, per la battaglia di Salamina; un'elegia per i caduti di Platea.
Il periodo della dimora in Atene, a contatto con un movimento così fervoroso di opere e di idee, rappresenta il culmine dell'attività e della gloria di S. Mentre Eschilo portava sulla scena i suoi drammi imponenti, S. primeggiava come poeta lirico; non solo si distingueva nella celebrazione delle gesta contemporanee, ma dava lustro alle normali feste in onore degli dei, soprattutto agli agoni ditirambici, nei quali ottenne molte volte il premio. Fra le vittorie da lui conseguite negli agoni ditirambici, una è attestata durante l'anno 476. In quell'anno stesso, chiusosi ormai il ciclo delle guerre persiane, S. lasciava Atene e andava a trascorrere l'estrema vecchiaia in Sicilia, dove lo attiravano le sue relazioni coi principi di Siracusa e di Agrigento. Specialmente a Siracusa, nella corte di Gerone, dove ferveva un più intenso movimento di vita politica e intellettuale, prese dimora S., esercitandovi la sua opera di poeta, di cantore ufficiale, di amico, di consigliere. Da Siracusa probabilmente egli non si mosse più, e vi morì poco dopo Gerone, intorno al 467.
Durante la sua lunghissima vita S. ebbe occasione di adattarsi, più volte, ai mutamenti delle età e delle circostanze. Sebbene le consuetudini della poesia da lui coltivata, specialmente la poesia corale, lo legassero al passato, tuttavia egli era tratto dal proprio temperamento ad accogliere e assecondare i progressi della cultura. Egli fu tra i primi in cui si ravvisino segni abbastanza chiari di quell'indirizzo spirituale che doveva più tardi sboccare nella sofistica: indirizzo che insegnava atteggiamenti di critica o di indipendenza verso la morale, la religione, le opinioni tradizionali. Dalla tradizione egli si staccava, tra l'altro, anche per la spregiudicatezza con cui riteneva che dovesse essere compensata l'opera sua di poeta: onde la taccia di venalità e di avarizia che a lui comunemente applicarono gli antichi. Sua dote precipua era la versatilità dell'ingegno, la disposizione (che è pure una caratteristica dei sofisti) a fare molte cose, a interessarsi un poco di tutto lo scibile. Così, per es., si racconta ch'egli avesse inventato una specie di mnemotecnica. Curioso osservatore della realtà, preferiva trarre dall'esperienza diretta, piuttosto che dagl'insegnamenti della tradizione, il suo sapere. Spirito leggermente scettico e pessimistico, non aveva convinzioni in materia religiosa; ed era anche libero da influenze mistiche di qualsiasi specie. Tendeva verso la sottigliezza, non verso la profondità delle idee.
Queste inclinazioni si rispecchiavano anche nella sua poesia la quale era fine, varia, brillante; sapeva assumere con disinvolta eleganza il tono delle diverse occasioni, e riusciva anche per lo più a commuovere, perché eccelleva in certa forma di sensibilità patetica, dolce, insinuante.
La sua produzione fu copiosissima, non solo nelle forme doriche della lirica corale (epinici, encomî, inni, ditirambi, peani), ma anche in quelle ioniche, dell'elegia, del giambo e dell'epigramma. Un certo numero di epigrammi è conservato nell'Antologia Palatina (e in altre fonti): ma l'autenticità di molti fra essi viene revocata in dubbio, poiché si ritiene - a ragione o a torto - che già in antico iscrizioni metriche originariamente anonime abbiano potuto essere attribuite a Simonide, il quale, avendone composte per ogni sorta d'occasioni, era considerato come l'epigrammatografo per eccellenza, il primo grande cultore di questo "genere". Delle opere maggiori non abbiamo se non frammenti, per lo più brevi e scarsi. Oltre a quelli già ricordati, sui caduti alle Termopili, ecc., è da citare un passo del "Lamento di Danae" (un ϑρῆνος), che contiene le commoventi parole della donna, chiusa col bambino suo Perseo in una cassa e gettata nel mare in balia delle onde.
Ediz.: E. Diehl, Anthologia lirica, II, Lipsia 1925, pp. 61-118. Per gli epigrammi v. anche le edizioni dell'Antologia Palatina (v. antologia, III, p. 544).
Bibl.: H. Flach, Geschichte der griechischen Lyrik, II, Tubinga 1883, pp. 611-646; G. Fraccaroli, I lirici greci, II, Torino 1913, pp. 306-85 (con traduzione ital. dei frammenti); U. v. Wilamowitz-Moellendorff, Sappho und Simonides, Berlino 1913; P. Maas e J. Geffcken, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., III A, coll. 186-97; W. Schmid, Geschichte der griechischen Litteratur, I, i, Monaco 1929, pp. 506-23.