simpatia
Dal gr. συμπάϑεια, composto da σύν «con» e πάϑος «affezione», cioè stato di chi subisce una data azione o situazione, piacevole o dolorosa). Nel significato originario, il termine greco designa la comunanza che si manifesta tra più esseri in quanto sono soggetti alle medesime affezioni: e perciò può essere adoperato per designare tanto un’affinità oggettiva delle cose quanto una partecipazione soggettiva di una persona allo stato d’animo di un’altra.
Inteso come azione reciproca tra le cose o loro capacità di influenzarsi a vicenda, il concetto di s. acquista cittadinanza filosofica principalmente con lo stoicismo, che designa con esso la profonda comunanza e armonia di tutte le cose in quanto costituite dall’unico principio cosmico. Dallo stoicismo, specialmente per opera di Posidonio, il concetto passa al neoplatonismo di Plotino, che nelle Enneadi sviluppa l’idea dell’Universo come organismo animato, ogni parte del quale influisce sulle altre ed è soggetta al loro effetto non per un’azione meccanica, ma in virtù della s. reciproca. Plotino utilizzò il principio cosmico della s., paragonato a «un’unica corda tesa che quando viene toccata ad un capo trasmette anche all’altro capo il movimento», per spiegare la possibilità della magia, dell’astrologia e delle profezie. La nozione plotiniana di s. fu ripresa dal neoplatonismo e dal naturalismo del Rinascimento in Italia (Pico, Patrizi, Cardano, Campanella), in Germania (Paracelso, Agrippa, i due van Helmont) e in Inghilterra (F. Bacone), fino alle sue propaggini romantiche. A questa interpretazione della s. come principio cosmico si affiancava già nell’antichità un’interpretazione di tipo fisiologico. Nello scritto ippocratico Sul nutrimento il concetto di s. viene utilizzato per designare la cooperazione funzionale di tutte le parti del corpo. Sorano, un medico greco del 1° sec. d.C., definiva s. il processo per cui il danno in una parte del corpo produce un danno in un’altra sua parte. Analogamente Galeno, nel contesto della teoria degli umori mutuata da Ippocrate, definiva la s. come malattia di un organo causata dalla malattia di un altro organo. Ancora nel 18° sec. la nozione di s. intesa come principio fisiologico era utilizzata per designare l’armonia naturale che regna tra le diverse parti del corpo quale risultato dell’attività del sistema nervoso.
Con il declino della magia nel mondo moderno, il concetto di s. assunse un significato più ristretto, passando a indicare la partecipazione soggettiva di una persona allo stato d’animo di un’altra. In questa accezione (che peraltro aveva anch’essa origini antiche, risalendo ad Aristotele, e che compariva pure nel neoplatonismo, in quanto tra gli esseri collegati dalla s. universale erano annoverate anche le anime), il concetto di s. acquista particolare importanza nei moralisti inglesi del Settecento, che, orientati o verso un empirismo eudemonistico o verso un’etica del sentimento, vedevano nella s., in quanto partecipazione al sentimento altrui, il fondamento di ogni rapporto morale. Così A. Smith (Theory of moral sentiments, 1759; trad. it. Teoria dei sentimenti morali), in polemica con l’individualismo hobbesiano, afferma che la moralità è sempre il risultato dell’intersoggettività. Contro l’idea di uno stato di natura asociale, Smith sostiene che l’uomo si qualifica naturalmente come essere sociale, in quanto spontaneamente simpatetico. L’amore di sé apre la strada all’amore dell’altro, e il meccanismo che rende possibile questo passaggio è appunto quello della s., la quale però non è intesa da Smith come compassione o condivisione affettiva di sentimenti altrui, e nemmeno come pura e disinteressata benevolenza per l’altro, bensì come la capacità insita in ogni essere umano di entrare in comunicazione con i sentimenti dell’altro attraverso l’immaginazione. Fondamento di tale processo è il procedimento cognitivo dell’associazione, che ci consente di vedere e comprendere l’altro come ‘spettatori imparziali’. Attraverso l’immedesimazione simpatetica dello spettatore imparziale (una sorta di voce interiore che parla a noi in nome degli altri) diventa possibile esprimere la valutazione morale, ossia distinguere tra vizio e virtù. Il concetto di s., inteso nel senso etimologico di «com-passione», costituisce anche il cardine della teoria del giudizio morale di Hume. La s. viene definita come una «tendenza naturale che abbiamo a simpatizzare con gli altri e a ricevere per comunicazione le loro inclinazioni e i loro sentimenti, per quanto diversi siano dai nostri, o anche contrari». Fondata sulla somiglianza di sentimenti e comportamenti tra gli esseri umani, la s. opera in modo che gli spiriti umani «siano come specchi gli uni rispetto agli altri» (Treatise of human nature, 1739; trad. it. Trattato sulla natura umana). Senza la s. la condizione umana sarebbe quella di una solitudine totale. Attraverso di essa il sentimento altrui diventa invece un sentimento nostro. Nella s. Hume vede la possibilità di limitare l’incontrollata manifestazione degli interessi egoistici, e di operare collettivamente secondo criteri di giustizia, di rispetto e di obbedienza nei confronti delle istituzioni. Negli sviluppi successivi della riflessione filosofica, a parte il concetto di Mitleid, assimilabile etimologicamente a quello di s., introdotto da Schopenhauer per designare la ‘compassione’ che ogni individuo deve sentire per gli altri, al pari di lui partecipi della sofferenza cosmica, e che costituisce perciò il fondamento di ogni norma etica, solo in Scheler (Wesen- und Formen der Sympatie, 1923; trad. it. Essenze e forme della simpatia) si ritroverà il tentativo di sviluppare un’etica in cui la nozione di s. assume un ruolo centrale. La s. è, per Scheler, un fenomeno originario, una funzione innata, grazie alla quale si va oltre sé stessi e si riconosce l’altro a partire da una partecipazione affettiva che può assumere varie forme, dal contagio, o fusione emotiva, all’identificazione o all’immedesimazione: la s. si fonda sull’immedesimazione intenzionale e cosciente. La solidarietà fra gli uomini, cementata dalla s., porta a un ordine universale, che associa le singole comunità in una comunità superiore.