Simposio
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il simposio, momento dedicato al vino, preceduto dal banchetto e da una libagione, è stato recentemente retrodatato all’epoca dei poemi omerici, in particolare all’Odissea, che presenta già tutti gli elementi destinati a svilupparsi nella lirica monodica e nell’elegia, fra il VII e il VI secolo a.C., e a proseguire nei testi in prosa ateniesi, dedicati al simposio filosofico. Il simposio ha un apparato specifico, un rituale, un suo spazio e un suo tempo, ma soprattutto svolge sempre una eminente funzione paideutica, conservando e perpetuando la cultura. Il Simposio di Platone sembra riassumere l’intera storia dell’istituzione, sin nei particolari, rovesciandone tuttavia il senso (dal “falso” retorico alla “verità”), mentre Ateneo ne compirà la definitiva “museizzazione”.
Il termine symposion compare per la prima volta in Alceo, poi in Teognide, dunque fra la fine del VII e il VI secolo a.C., in quella che viene considerata l’età d’oro della lirica greca, nelle isole e sul continente. La definizione standard dell’istituzione è perfettamente congrua con questo particolare momento storico e con l’esecuzione dell’elegia e della lirica monodica: il simposio, infatti, viene di norma descritto come la riunione di un gruppo di uomini, aristocratici di estrazione, fra loro affini per genos (stirpe) e/o per appartenenza ad una consorteria politica (hetairoi della stessa hetaireia), che avviene in un momento particolare (tempo dedicato al bere vino in comune, successivo al banchetto serale, da esso separato da una libagione, che ne denuncia il patrocinio religioso, ed eventualmente seguito da un corteo rumoroso, il komos), in un ambiente particolare (una grande sala, il megaron, arredata con scranni, sui quali gli ospiti stanno reclinati, poggiapiedi e tavole mobili, dotata di forniture numerose e varie, delle quali un’abbondante ceramografia ci offre chiari esempi: coppe e grandi crateri per miscelare il vino, ma anche mestoli, brocche, calici ecc.). La riunione, talora allietata dal suono del flauto e dalle danzatrici, prevedeva la creazione, o il riuso, quindi l’ascolto, di poesia su argomenti diversi, dall’eros al progetto politico e militare, sino, più tardi, al discorso filosofico.
A partire dalla seconda metà del Novecento, tuttavia, gli studi sul simposio hanno conosciuto una grande fortuna, in parte determinata dai nuovi scavi archeologici, ma soprattutto dalla più approfondita ricerca sul fenomeno dell’oralità, su committenti e fruitori della poesia greca: fondamentalmente se ne è retrodatata la nascita e, di conseguenza, si sono imposte alcune correzioni sugli aspetti formali, ma soprattutto sui generi di poesia fruibile a simposio, e sulla contiguità fra grandi cerimonie all’aperto, pubbliche, e cerimonie che si svolgono in privato nel megaron.
L’“assenza” in Omero di Dioniso (in realtà citato in quattro luoghi, tutti giudicati sospetti), giustificata con la supposta estraneità del dio al culto della classe aristocratica, o comunque la mancata celebrazione di Dioniso come dio del vino nei poemi omerici, e la compresenza di cibo e bevande nei vari banchetti descritti dall’Iliade e dall’Odissea, hanno fatto per lo più escludere che in tali poemi fosse attestato il simposio. Karl Bielohlawek segnalò tuttavia, già nel 1940, la presenza di un’identica precettistica conviviale fra banchetto omerico e simposio posteriore, e in Italia, infine, Massimo Vetta (anticipato da alcuni studiosi, limitatamente agli studi omerici) e Giulio Colesanti hanno sostenuto con forza e argomenti convincenti la presenza dei tratti ritenuti tipici del simposio (inteso come momento dedicato esclusivamente al bere, successivo al pasto e preceduto da una libagione) in Omero: il verso-tipo sarebbe costituito da Od. VII 184 (verso formulare), “ma dopo che ebbero libato e bevuto quanto il cuore voleva” (si vedano M. Vetta, Poesia e simposio nella Grecia antica, 1995, pp. 5-28, e G. Colesanti, MD 43, 1999, pp. 41-76).
Ora, assodato che Dioniso compare già nelle tavolette micenee in lineare B, e che non risulta affatto alieno alla classe aristocratica, e considerato che ormai non si dubita più dell’esistenza di carmi epici antecedenti ad Omero, e che inoltre dalla ricostruzione di parte degli affreschi della sala di Pilo è emersa quella che costituisce per noi la prima scena che unisce aedo e banchettanti (sulla parete nordest è chiaramente visibile un suonatore di lira su un sedile di roccia che guarda un uccello in volo e accanto sono raffigurati il toro destinato al sacrificio e due coppie di personaggi in atto di bere), si è giunti alla ricostruzione di una prima fase, già micenea, in cui pranzo e bevande erano consumate insieme, nel corso di cerimonie che avvenivano prima all’aperto, poi nella sala regale, allietate da canti epici e concluse da una libagione, fase seguita da quella omerica, mista fra banchetto miceneo regale e nuovo simposio, all’interno della reggia, nato probabilmente proprio dall’uso di una libagione che ritmava i due momenti. La fase mista può naturalmente essere determinata dalla convivenza, tipica dei poemi omerici, fra tendenza arcaizzante e intrusione di elementi appartenenti all’“aggiornamento” epico (che, come è noto, si arresta però al VIII secolo a.C.).
Non mancano studiosi che per simposio intendono tutto l’insieme di pasto e momento dedicato al vino, l’intera festa insomma (Domenico Musti, da ultimo), mentre altri cercano di trovare i punti di contatto fra banchetto sacrificale (thysia), con la sua distribuzione delle parti, e simposio, per lo più ritenuti modelli diversi o addirittura opposti di istituzione.
Al di là della definizione classica di “simposio”, è comunque certo che l’epica omerica documenta i fondamentali aspetti che proseguiranno, e si svilupperanno, nel simposio successivo, fra il VII e il VI secolo a.C. In Omero abbiamo ancora i grandi crateri di età micenea, “incoronati di vino”, e presso la tenda di Achille gli araldi versano l’acqua sulle mani dei presenti per purificarle prima della libagione, i coppieri mescolano il vino nei crateri e lo distribuiscono nelle coppe (Il. IX 174-7). Rispetto ad epoche successive (ma è possibile che il testo omerico arcaizzi), il banchetto prevede convitati seduti, non sdraiati sulle klinai (lettini con gambe molto alte, nelle rappresentazioni: letti su cui esporre i morti, prima ancora che letti per dormire), fenomeno che risale al VII secolo a.C., probabilmente per influsso dei banchetti reclinati orientali.
A parte la copiosa iconografia, in letteratura il fenomeno è documentato dal poeta elegiaco Callino, quindi da Alcmane, lirico che opera a Sparta attorno alla fine del VII secolo a.C., nel quale per la prima volta ricorre il termine kline, ma non solo: nel breve fr. 19 D. sette sono le klinai e sette le trapezai (“tavole”), dunque si affaccia l’uso del numero sette, che rimarrà canonico, insieme con l’undici, per l’approntamento del simposio, secondo quanto anche gli archeologi hanno confermato.
Alcmane
Versi giambici, Fr. 26 D
Sette letti e altrettante tavole
ricolme di pani con semi di papavero
di lino e di sesamo, e nelle tazze
c’è un dolce al miele.
Ancora più importanti sono gli aspetti culturali ed etici che emergono dal testo omerico: la funzione dell’“ospite”, segnatamente, per i primi, la scelta degli argomenti per i secondi. Che Odisseo, in quanto ospite presso i Feaci, sia la prova della diffusione della cultura a banchetto, la prova di come dovette funzionare la panellenizzazione dell’epica, inglobando elementi locali, scegliendo versioni, ampliando la visione dell’uditorio, è indubbio. Ed è probabile che l’adattamento all’uditorio dei racconti di Odisseo – come avviene vistosamente in tutti i casi in cui l’eroe si presenta al suo arrivo a Itaca –, in questo caso marinaio come i Feaci, amante come loro di banchetti (sono tutte vere le sue avventure o elaborate a loro uso?), anticipi sia l’alterità (qui Odisseo non manca di ricordare le proprie attività belliche; a Itaca sarà di volta in volta esule, di grande famiglia o figlio bastardo, addirittura pitocco; nella lirica saranno talora donne e artigiani a parlare per bocca del poeta), sia, contemporaneamente, gli elementi di somiglianza, di coesione fra poeta e uditorio, aspetti entrambi che caratterizzeranno la lirica simpotica. Non solo: la scena in cui Odisseo piange ai racconti dell’aedo professionista, a proposito delle vicende dolorose di Troia (come piangerà Penelope a Itaca ascoltando Femio, per essere ancora irrisolti i suoi dolori, o meglio non ancora trapassati da vita a racconto, a fiction), e il suo pianto determina l’immediata interruzione del canto da parte di Alcinoo, perché per tutti deve essere un piacere ascoltare poesia a banchetto, si pone come il primo esempio di una norma che impedirà di trattare temi “bellici” nella pace del simposio (non si tratta di un rifiuto della contemporaneità, poiché esiste anche il riconoscimento della predilezione per i temi “nuovi”, secondo la nota formulazione di Telemaco: l’ospite che arriva porta con sé nuove storie che entrano a fare parte del repertorio dell’aedo di corte). Con ciò ci accostiamo all’aspetto etico del simposio. A Odisseo risalgono infatti anche le parole che maggiormente accomunano l’epica arcaica alla lirica simpotica: “certo è bello ascoltare un cantore, così come è questo, simile per la voce agli dèi. Perché penso che non v’è godimento maggiore (telos chariesteron), di quando la gioia (euphrosyne) pervade tutta la gente, i convitati ascoltano nella sala il cantore, seduti con ordine, le tavole accanto sono piene di pane e di carni, dal cratere attinge vino il coppiere, lo porta e nelle coppe lo versa. Questo mi sembra nell’animo una cosa bellissima” (Od. IX 3 ss.). Il tempo della sera, l’importante “ordine” dei commensali, il grande cratere al centro col vino, ma soprattutto la charis (la grazia), e l’euphrosyne (la letizia, la serenità della festa) rimarranno costanti nella successiva poesia. Il simposio è già un mondo a parte di pace, di misura (il vino sarà sempre miscelato con l’acqua in proporzioni variabili, primo sintomo della misura che deve prevalere su ogni cosa), di gestione accurata del dolore e del piacere, di paideia (educazione), esattamente il mondo che vagheggerà Platone nelle Leggi come simposio ideale, attribuendogli quel valore paideutico che a livello più ampio è tipico della politica.
Platone
Leggi, Libro I, 641a -d
Clinia: “[...] Quale profitto ci garantirebbe la pratica delle bevute collettive se fosse praticata secondo le regole?[...]
Ateniese: ”Come? Tu chiedi quale vantaggio significativo potrebbe derivare a una città dalla corretta educazione di un singolo fanciullo o anche di un singolo coro di fanciulli? A una domanda posta in questi termini dovremmo rispondere che nel caso del singolo fanciullo la città ne beneficerebbe ben poco; se però si chiedesse in generale quanto giovi a una comunità l’educazione dei fanciulli, non sarebbe difficile rispondere che in virtù di una valida educazione essi diventeranno uomini valorosi e che diventando tali essi agiranno per il meglio in ogni campo [...]. Clinia: “Ci pare, amico, che tu attribuisca agli intrattenimenti conviviali, purché si svolgano secondo le regole, una grande efficacia pedagogica”.
Ancora omerica potrebbe poi apparire la valutazione di simposi “buoni” opposti a quelli “cattivi”: Antinoo rimprovera Odisseo di essere preso dal “vino dolcissimo, che stravolge anche altri, chi ne tracanni e ne beva oltre misura”, e gli fa l’esempio del centauro Eurizione presso i Lapiti, ospite di Piritoo, nei confronti del quale, accecato dal vino, compì “male azioni”, dando origine alla contesa fra centauri ed eroi (Od. XXI 292ss.); di qui l’invito a bere “tranquillo” (hekelos), senza contendere con l’arco. Un’ultima notazione, ma non più che un’ipotesi, suscitano le parole del famosissimo intermezzo di Alcinoo, al quale spetta pronunciare le parole di maggiore apprezzamento dei racconti di Odisseo: dall’aspetto Odisseo non appare un imbroglione, di quelli che “confezionano” (artynontas) cose false, “ad un punto tale, che nessuno può più riuscire a scorgervi la verità” (Od. XI 366). L’espressione è a dire il vero molto difficile da intendere e spesso viene resa diversamente. Da ultima, Miriam Carlisle traduce il v. 366 con “putting to order various tales, and from where they come, no one can know” (M. Carlisle and O. Levaniouk, a cura di, Nine Essays on Homer, Lanham MD: Rowman and Littlefield, 1999, pp. 83 s.). La singolare proposta della studiosa, “da dove” al posto dell’usuale “al punto che”, appare particolarmente innovativa: il narratore che racconta pseudea (falsità) racconta cose “tratte da qualche fonte non identificabile”, che non possono essere verificate, come in questo caso, da un eroe ancora vivente nel mondo narrativo del poema, dunque con l’autorità del ricordo. Da un lato ci troviamo davanti alla nozione di “verifica” della fonte, dall’altro davanti a quella di “autorità”, di emittente che avvalora la propria opera, avendo ipoteticamente vissuto quello che narra, invece che ricorrere all’“autorità” della Musa che tutto sa perché eterna e ubiqua.
Il concetto di fonte, identificata da un preciso nome autorevole, che fornisce pertanto autorevolezza alle parole, sarà alla base della più famosa raccolta simpotica, quella cioè di Teognide: non più che un marchio il nome di Teognide, attorno al quale si agglutinano un’ideologia e un sistema di valori, non più che una “maschera” la sua consistenza, dotata di un’identità fittizia come quella del suo destinatario prevalente, Cirno, il destinatario “necessario” di tutti i poemi sapienziali, a partire dal fratello Perse degli Erga esiodei.
Specificamente dedicati al simposio sono in seguito non solo la poesia elegiaca (in ambito pubblico oltre che privato), ma anche il giambo, come più di recente si è riconosciuto, con i loro rappresentanti principali: Mimnermo, Alceo, Anacreonte, Teognide, da un lato (ma anche Callino e Solone); Archiloco e Ipponatte dall’altro. Per il simposio però compongono anche lirici più noti per la loro attività di lirici corali, come Alcmane e Pindaro, e nell’ambito del simposio è noto il riuso di carmi corali, come pure di brani teatrali. Tutte le tematiche sono rappresentate, da quelle politiche a quelle erotiche, dall’encomio (penso all’encomio per Policrate di Ibico, perfetto esempio di lirica encomiastica a simposio, tirannico in questo caso) allo psogos, il “biasimo”, tipico della giambografia. Diversi saranno i contesti: simposio di membri della stessa eteria (che condividono posizione sociale, aristocratica, e politica, o simposio tirannico, legato alla corte), diversa l’ambientazione (Archiloco, ad esempio, presenta casi di simposio sulla nave), e diverse le zone geografiche di provenienza dei poeti. I frammenti residui ci parlano altresì di figure “estranee”, evocate dalla poesia o fittizie personae loquentes, quali donne, stranieri, personaggi di basso lignaggio, tali da rendere più forte l’“identificazione” dei partecipanti al simposio, proprio grazie all’“altro” da sé.
È dalla lirica comunque che ricaviamo le indicazioni letterarie più significative sui luoghi e i tempi del simposio. Senofane ci conserva forse la più interessante delle descrizioni di un simposio perfetto”. Dai vv. 1-12 del fr. 1 ricaviamo il cerimoniale concreto: pulito il pavimento, le mani e le coppe, lavato l’uno e le altre per purificarli dopo il banchetto, un inserviente pone le corone sulla testa dei convitati, un altro distribuisce oli aromatici; il cratere è pieno di vino miscelato con l’acqua, al centro della sala, simbolo di uguaglianza fra i convitati, altro vino, ancora pretto, è pronto nelle anfore; nel frattempo brucia l’incenso, ci sono pani allineati sulla trapeza (la tavola rituale) e formaggio e miele (offerte rituali), e l’altare, anch’esso al centro della sala accanto al cratere (forse uno di quegli altari mobili di terracotta, di cui gli archeologi hanno rinvenuto alcuni esemplari), è tutto infiorato, “intorno all’edificio echeggiano il canto corale e i suoni della festa (thalie)”, dal che si può desumere che il simposio descritto è parte di una più ampia celebrazione che doveva svolgersi all’esterno.
Senofonte
Simposio, II 1, II 24 ss. II 1
Dopo che furono tolte le mense e che ebbero libato e cantato il peana, ecco che giunse alla festa (komos) un Siracusano, con una brava suonatrice di flauto, con una ballerina di quelle in grado di fare cose spettacolari, e con un fanciullo proprio nel fiore degli anni, capace di suonare bene la cetra e di ballare. Promuovendo queste esibizioni di fenomeni, egli si guadagnava da vivere.
II 24 ss.
(Dopo che Filippo, uno degli ospiti, si è prodotto in una danza sfrenata, imitando la ragazza e il ragazzo che danzano, e ha espresso il desiderio di bere vino, per la gran sete) A sua volta Socrate disse: “anche a me, uomini, pare proprio il momento di bere. In realtà il vino, annaffiando l’anima, porta via le sofferenze, come fa la mandragola con gli uomini, e risveglia l’amichevole e giocosa disposizione d’animo, come l’olio fa con la fiamma”.
Tale perfetta atmosfera sacrale è completamente stravolta nel più osceno dei simposi, ad opera del giambografo Ipponatte, dove forse due personaggi (uno dei quali Arete? personaggio femminile spesso nominato dal poeta) bevono dal secchio della mungitura perché lei non ha la coppa, fracassata dallo schiavo che ci è caduto sopra (fr. 21 Dg.); Archiloco, altro famoso giambografo, ci attesta invece in un distico elegiaco un simposio improvvisato e in un ambiente ben diverso, cioè la nave (sul “legno”, la tolda, è una focaccia impastata, un cibo ben povero, ma sempre sul legno è un vino eccellente, proveniente da Ismaro, bevuto puro, e la persona loquens – quell’“io” che è sempre pericoloso identificare con il poeta – beve reclinata sul legno, in posa simposiale), così come ancora sul mare si svolge il simposio del fr. 4, conservatoci da un papiro (“Muoviti, dunque, con la coppa, tra i banchi della nave veloce”).
Archiloco
Distici elegiaci, Fr. 4, 5-8 W
Avanti, con la coppa, tra i banchi della nave veloce
scorri, e strappa i tappi dei concavi vasi,
attingi vino rosso mondato della feccia.
Non potremo certo rimanere sobri durante questa veglia.
Archiloco, Distici elegiaci
Identica ambientazione è del resto rappresentata in un affresco, e ritorna nella famosa coppa di Exekìas, datata intorno al 540 a.C., sulla quale è rappresentato Dioniso, sdraiato sotto una vela, coronato di edera, che tiene una grossa coppa in mano.
Alceo, lirico monodico vissuto a Lesbo, è senz’altro il poeta che ci dipinge con maggiore vividezza l’ora del simposio e le stagioni che lo motivano, in quanto giustificano l’inattività: piove, infuria la bufera, i fiumi sono gelati, per cui bisogna bere (fr. 338) vino più forte del solito (più forte, vale a dire due parti di vino e una di acqua), con bende di lana attorno al capo, ma bisogna bere anche in piena estate (fr. 347), quando tutto è arso, frinisce la cicala, fiorisce il cardo (e dietro questa estate, di donne lussuriose e uomini indeboliti, non è difficile intravedere la memoria di Esiodo (Opere 582-596); e bisogna bere la sera, ma anche l’infrazione (sottolineata come tale) è concessa: perché attendere le lucerne? Del giorno non rimane che “un dito” (fr. 346).
Alceo
Strofe alcaiche, Fr. 208 a, 1- 9 V e Fr. 333 V e Fr. 338 V Fr. 208 a, 1- 9 V.
Non capisco la direzione dei venti,
uno fa rotolare l’onda da un lato,
uno dall’altro, e noi in mezzo al mare
andiamo alla deriva con la nave nera,
sopraffatti da una bufera immensa;
l’acqua di sentina ha raggiunto il piede dell’albero,
la vela è ormai tutta stracciata,
e lunghe lacerazioni la solcano,
le sartie si allentano.
Fr. 333 V.
Il vino è lo specolo dell’uomo.
Fr. 338 V.
Zeus manda pioggia, dal cielo
grande bufera, sono ghiacciati i corsi d’acqua
[...]
[...]
abbatti la bufera, aggiungendo
fuoco, versando vino a volontà,
dolce, e attorno alle tempie
avvolgi morbida lana.
Alceo
Distici asclepiadei maggiori, Fr. 346 V e Fr. 347 V Fr. 346 V.
Beviamo, perché aspettare le lucerne? Del giorno non resta che un dito.
Prendi, ragazzo, le coppe grandi e variopinte,
il grande figlio di Semele e di Zeus ha dato agli uomini il vino
che fa dimenticare il dolore, versa, mescolando una parte con due
piene sino all’orlo, e una coppa l’altra
spinga.
Fr. 347 V.
Bagna i polmoni di vino, l’astro compie infatti il suo giro,
la stagione è dura, tutto è riarso per la calura,
canta dal folto delle foglie dolcemente la cicala
[...]
fiorisce il cardo, ora le donne sono più lascive che mai,
emaciati gli uomini, poiché il capo e le ginocchia Sirio
riarde.
Gli argomenti dell’elegia e della lirica simpotica sono infine i più vari: Callino esorta i giovani distesi a simposio alle armi (le città ioniche dell’Asia Minore subivano le invasioni dei Treri e dei Cimmeri), e richiama loro l’etica eroica: la morte è stata destinata, tanto vale essere coraggiosi e suscitare il rimpianto; allo stesso modo il contemporaneo Tirteo, vissuto a Sparta, celebra l’eroismo collettivo, e i suoi carmi sono quanto meno rieseguiti a lungo nei simposi; Mimnermo, nativo di Smirne, celebra l’amore e riflette sulla splendida giovinezza e sulle angosce della vecchiaia (sua la probabile ripresa, con variatio significativa, della similitudine omerica “come le foglie”: in Omero le foglie cadono e rinascono a primavera, gli uomini rientrano nel ciclo della natura, qui gli uomini godono solo per un brevissimo periodo di una fanciullezza e giovinezza caduche).
Mimnermo
La vecchiaia dolorosa
Distici elegiaci, Fr. 7 Gent.- Pr e Fr. 8 Gent. Pr Fr. 7 Gent.- Pr.
Quale vita, quale piacere, senza la dorata Afrodite?
Potessi morire, quando non mi staranno più a cuore
l’amore segreto, i doni del consenso e l’amplesso,
fiori della giovinezza seducenti
per gli uomini e per le donne. Quando sopraggiunga la dolorosa
vecchiaia, che rende sgradevole anche un uomo bello,
sempre cattive afflizioni logorano la mente,
e guardare i raggi del sole non arreca gioia,
sgradito ai ragazzi, trascurabile per le donne.
Così dolorosa ha voluto il dio la vecchiaia.
Fr. 8 Gent. Pr.
Noi, come le foglie che genera la stagione ricca di fiori
della primavera, quando subito crescono ai raggi del sole,
simili a quelle, per il tempo breve di un gomito godiamo
dei fiori della giovinezza inconsapevoli, per volere degli dèi, di mali
e di beni. Ma accanto si ergono Chere nere,
una con il limite della vecchiaia dolorosa,
l’altra col quello della morte. Per breve tempo dura il frutto
della giovinezza, per quanto si diffonde sulla terra il sole.
Ma quando si supera questo limite di stagione,
subito è meglio la morte che la vita.
Molti sono infatti i mali per l’animo: talora vengono consumate
le ricchezze della casa, e non resta che la povertà;
uno soffre invece per la mancanza di figli, e desiderandoli moltissimo
se ne va sotto terra, all’Ade;
un altro ha una malattia che gli tormenta l’animo. Non c’è nessuno
degli uomini al quale Zeus non dia molti mali.
Solone, nell’ambito di un simposio (“in questo banchetto sereno”), che dovrebbe presentare decoro, letizia e pace, segnala invece la realtà politica in atto, connotata da brama di denaro, ingiustizia, dismisura. La tematica politica è d’altro canto cara, a Mitilene sconvolta dalle lotte politiche, ad Alceo, che con la sua consorteria canta della violenza tirannica (prima di Mirsilo poi di Pittaco), e inaugura la fortunata allegoria della città come una nave in tempesta, poi abbandonata in secca (frr. 6 e 73; 306i col. II). Ma è con Teognide di Megara, al cui nome è associato un corpus composito, documento di tanti simposi, che tutti i temi sembrano come stringersi attorno al nucleo paideutico delle esortazioni ad un giovane compagno, Cirno, destinatario tipico di ogni poema sapienziale: i valori tradizionali della vecchia aristocrazia terriera vanno preservati e tramandati. Tali valori sono ancora quelli esiodei, vale a dire l’areté, cioè il valore personale, l’eccellenza, e l’opposizione ai guadagni illeciti, a quanti per guadagni personali e desiderio di potere disgregano la comunità, siano essi uomini di ricchezza recente o appartenenti sì alla vecchia oligarchia, ma mescolati con i nuovi ceti; ma valori sono altresì quelli omerici quali l’amicizia, la lealtà, l’ospitalità. Quest’ultimo tema, così importante per l’epica arcaica, non è tuttavia tanto presente quanto ci aspetteremmo, ma esemplare è la cosiddetta elegia per Clearisto (vv. 511-522), segnalata da Vetta, tramite la quale assistiamo all’accoglienza di un esule, al quale vengono approntati doni, così come ad Odisseo presso i Feaci, ma che soprattutto conferma quel valore di diffusione di cultura, notizie e fama che ancora rimane vivo nel simposio: Clearisto dovrà parlare dell’ospite quando sarà accolto altrove, perpetuarne il ricordo. I versi della Silloge teognidea, in particolare, quasi ci restituiscono, per così dire dal vivo, la pratica di improvvisare oralmente messa in atto dai convitati (sono state messe in luce vere e proprie “catene” di proposta e risposta nella serie di distici), e quella del “riuso” (nell’ambito della Silloge vengono infatti proposte, con variazione, riflessioni che già sappiamo appartenere nella loro prima formulazione a Tirteo, Mimnermo e Solone).
Teognide
Distici elegiaci vv. 19-26
Cirno, da me che esprimo pensieri di saggezza il sigillo venga posto
con questi versi, e mai il loro furto potrà sfuggire,
né qualcuno potrà guastare il bene che c’è in essi,
e così ognuno dirà: “sono versi di Teognide
di Megara, conosciuto da tutte le genti”;
ma non posso assolutamente piacere a tutti i cittadini.
vv. 39-42
Cirno, questa città è gravida, temo che generi un uomo
che raddrizzi la nostra ignobile violenza.
I cittadini che vedi sono ancora dotati di buon senso, ma chi li guida
è ormai rivolto al precipizio di molte azioni indegne.
vv. 237-254
Io ti ho dato le ali con le quali sul mare infinito
tu possa volare e su tutta la terra, librandoti
con leggerezza. Sarai presente alle feste e ai banchetti,
a tutti quanti, sulle labbra di molti,
e te al suono degli auli dalle note acute celebreranno i giovani
seducenti, nell’armonia di canti belli e sonori.
E quando scenderai sotto i recessi della terra buia,
verso le case risonanti di pianti di Ade,
mai, neppure morto, perderai la tua fama, ma
sempre resterai nel cuore degli uomini
con il tuo nome incancellabile,
o Cirno, librandoti a volo per la terra ellenica e sulle isole,
varcando il pescoso mare infecondo,
non cavalcando a dorso di cavalli, ma ti trasporteranno
i nobili doni delle Muse coronate di viole.
E sarai ugualmente celebrato anche da tutti gli uomini futuri
a cui stia a cuore il canto, fintanto che saranno la terra e il sole.
Eppure da te io non ottengo neppure un po’ di onore,
ma quasi io fossi un bambinetto mi inganni con le tue parole.
vv. 511-522
Sei giunto alfine, Clearisto, varcando il mare profondo,
presso chi non ha nulla, o infelice, tu che non hai nulla.
Nei fianchi della galea, sotto i banchi di voga, noi disporremo,
o Clearisto, quanto abbiamo e quel poco che donino gli dèi.
Apparecchieremo il meglio di ciò che c’è. Se giungerà
un tuo amico, giaci con lui al convito a seconda della vostra intimità,
e non toglierò nulla di ciò che c’è, ma niente di più
cercheremo di procurarci per la tua ospitalità.
E se qualcuno ti chiederà come vivo, così devi rispondergli:
“Quanto al bene, male, quanto al male bene,
da non trascurare un ospite che arriva dalla sua patria,
ma non da poter offrire accoglienza ospitale più ricca di questa”.
Andrà infine segnalato che se il linguaggio poetico greco è sempre metaforico, nella lirica simpotica il fenomeno è più presente che altrove, in quanto deliberatamente inteso a determinare una forte inclusione dei “compagni”, che condividono ideali e posizione politica, e al tempo stesso esclusione di quanti non appartengono all’ambiente ristretto, un linguaggio per iniziati, insomma. Difficile è pertanto intendere talora il reale significato di alcune espressioni (al di là della difficoltà di recuperare gli avvenimenti storici ai quali si allude), e d’altro canto la lirica simpotica condivide con l’epica arcaica la complessità anche teorica che si presenta a chiunque tenti di editare un’opera orale in origine, o comunque trasmessa oralmente, più volte ripetuta, eseguita in contesti diversi, con inserzioni da riuso e adattamenti al ricevente. Scegliere fra le frequenti varianti è ben complesso e non sempre è agevole comprendere dove intervenga l’adattamento o dove la variante sia in realtà equipollente, una delle tante appartenenti alle diverse performances.
Se nel simposio arcaico i convitati cantavano e recitavano componimenti poetici, propri o altrui, ad Atene, in epoca classica, si diffonde l’uso dei simposi scritti in prosa: il più famoso è senz’altro il Simposio di Platone, nel quale notoriamente ci si propone di fare l’encomio di Eros.
L’opera platonica sembra riallacciarsi alla tradizione del simposio ideale senofaneo, per l’apparato formale e per il clima (vale a dire per le regole rispettate, quali la scelta dell’arbitro del discorso, l’ordine in cui i convitati devono sedere, e quello in cui devono parlare a turno, come devono bere, ma anche per l’atmosfera serena, lontana dal tumulto della città, nella quale anche i “nemici” come Aristofane e Socrate, convivono in apparente amicizia). D’altro canto nelle Leggi (639d-642a) l’Ateniese sostiene che le riunioni conviviali sono senz’altro un elemento costitutivo di una comunità ben ordinata (benché di fatto non si verifichi mai che tali riunioni avvengano in perfetta calma: nel Simposio, infatti, irromperà Alcibiade ubriaco). Deve pertanto esserci un capo, un uomo sobrio e assennato, custode dell’amicizia presente e futura dei partecipanti. E tutto ciò non è di poca importanza, perché il simposio che è guidato secondo le regole ha una grande efficacia pedagogica, la stessa efficacia che già nei tempi arcaici gli veniva riconosciuta in quanto occasione in cui si conservava e si perpetuava la memoria collettiva.
Platone
Simposio, 176a-177d, 198c-e, 202e- 203 e 212c-e 176a-177d]
Quando Socrate si fu sdraiato ed ebbe mangiato, e così pure gli altri, fecero le libagioni e, dopo aver celebrato il dio e compiuto ogni rito abituale, si volsero al bere. A quel punto [...] Pausania prese a parlare più o meno così: “Allora, amici – disse – In che modo possiamo bere con maggiore moderazione?” [...] “Poiché dunque – confermò Erissimaco – si è deciso di bere quanto ciascuno vuole, senza la minima costrizione, l’altra cosa che propongo è di lasciare andare la suonatrice di aulo appena arrivata: che suoni per conto suo o, se vuole, per le donne di casa, mentre noi trascorriamo la giornata di oggi discorrendo tra noi. E il tipo di discorsi, se acconsentite, voglio proporvelo io [...]. Ogni volta Fedro, indignato, mi dice:’Non è terribile, Erissimaco, che esistano inni e peani composti per tutti gli dèi, mentre per Eros, che è un dio tanto antico e importante, nessuno dei numerosi poeti esistiti abbia composto un encomio? (...)’. E mi par proprio che Fedro abbia ragione. Per questo voglio rendergli omaggio e compiacerlo, e ritengo cosa degna anche per noi, adesso, onorare, cantandolo, il dio. Se foste d’accordo anche voi, avremmo materia più che sufficiente per parlare! E, secondo me, dovremmo fare così: ciascuno di noi, da sinistra a destra, pronuncerà un discorso che sia un elogio di Eros, il più bello possibile; inizierà Fedro, per primo, poiché si trova al primo posto, ed è, nel contempo, padre del discorso”.
198c-e] (parla Socrate) “E mi sono reso conto allora di essere stato ridicolo quando ho acconsentito a pronunciare a turno con voi l’encomio di Eros, e ho affermato di essere esperto in cose d’amore: in realtà non sapevo nulla di come si deva elogiare un qualsiasi oggetto. E invero andavo assai fiero del fatto che avrei parlato bene perché conoscevo la verità sull’elogiare un qualsiasi oggetto. Invece, a quanto pare, elogiare in modo bello qualsiasi cosa consiste non in questo, ma nell’attribuire all’oggetto i tratti più eccezionali e più belli, che le cose stiano o non stiano effettivamente così.”
202e- 203] (Socrate riferisce il discorso di Diotima) “[Eros] interpreta e trasmette agli dèi i messaggi degli uomini e agli uomini i messaggi degli dèi [...]; trovandosi in una posizione intermedia tra di loro colma l’intervallo, così che l’insieme risulti collegato intrinsecamente in un complesso [...]. Un dio non ha contatto diretto con l’uomo, ma è per il tramite di Eros che ha luogo ogni relazione e comunicazione degli dèi agli uomini, nella veglia come nel sonno. E chi è sapiente in questo ambito è un uomo demonico, mentre se è sapiente in qualcos’altro, relativo a un’arte o a un mestiere, è un volgare artigiano. Questi demoni sono molti e vari e uno di loro è anche Eros”.
212c-e] Dopo che Socrate ebbe detto queste cose [...] d’improvviso si udirono colpi alla porta e un gran rumore, come di comasti, e si udì la voce di una suonatrice di aulo [...]. Non molto tempo dopo si udì la voce di Alcibiade, nel vestibolo, ubriaco fradicio, che lanciava grandi urla [...]: lo sorreggevano la suonatrice di aulo e certi altri suoi compagni [...]. Se ne stette sulla porta, incoronato da una folta corona di edera e viole e con moltissimi nastri intorno al capo.
L’argomento scelto (Eros, ora dio ora eros, “desiderio”), l’andamento “poeticamente” elogiativo adottato dai vari convitati, i cui discorsi prendono inizio da genealogie mitiche del dio, dalla sua bellezza e da tutto ciò che alla bellezza è connesso, dall’erotismo, o meglio dall’omoerotismo, sembrano invece riallacciarsi alla tradizione dell’encomio simpotico, rappresentato da Ibico (altri cantano gli eroi di Troia e le navi, “io invece canto la bellezza di Policrate”), ad esempio, e da alcuni frammenti di Pindaro dedicati al banchetto. Platone sembra insomma ricalcare l’arcaica tradizione della lirica simpotica, nelle sue varie forme, per giungere ad esiti del tutto nuovi: i topoi meramente retorici dell’encomio sono citati per essere negati, in quanto “falsi” (elogio della bellezza, della nobiltà, dell’eroismo, eroticamente cantati). Il discorso con Socrate si sposta sul dire la “verità” e dal dio Eros si passa a Eros demone (dal dire “il falso”, rispettando una norma di genere, si passa al “dire la verità” su Eros), né bello né brutto, né sapiente né ignorante, mediatore fra gli dèi e gli uomini, tensione perenne e pura alla sapienza e alla virtù, all’immortalità, vero prototipo del filosofo.
Che il Simposio di Platone sia volutamente arcaizzante, e che costituisca il consapevole recupero di una tradizione secolare, ormai di fatto al tramonto, sembra dimostrare anche il coevo Simposio di Senofonte, una sorta di compendio delle teorie socratiche ridotte a formule, in un ambiente che della sacralità e del rito non ha più quasi nulla, conservandone unicamente la giocosità.
Fra i simposi in prosa andranno ricordati in seguito, fra quelli più celebri, il Simposio dei Sette sapienti e le Questioni conviviali di Plutarco (peraltro lontanissime dal simposio arcaico per le regole, con fusione fra banchetto e simposio, quasi totalmente prive dell’elemento erotico, sentenziose già nell’apertura), un Simposio di Luciano, ma soprattutto i Sofisti a banchetto di Ateneo, che sembra raccogliere, nella seconda metà del II secolo, proprio la tradizione rappresentata dai Simposi di Platone e di Senofonte.
Ateneo nasce a Naucrati, città greca dell’Egitto, e vive a Roma, e proprio presso un romano potente, Larense, attorno al quale si è raccolto un vero circolo letterario, è ambientata la sua opera, i Deipnosofisti (i Sofisti a banchetto). In una cornice apertamente platonica, sin dall’incipit, che riprende meccanicamente il proemio del Simposio platonico (ma numerosi, e talora più sottili, saranno i richiami anche agli altri dialoghi platonici), Ateneo scrive per ben 15 libri di un banchetto-simposio che del banchetto-simposio parla, grazie soprattutto a un’immensa raccolta di citazioni letterarie, di notazioni linguistiche, di usi e costumi rievocati (fornendoci in questo caso un compendio, al modo di Senofonte, ma di tutta la cultura greca, letteraria, scientifica e anche popolare). Se le conversazioni essenzialmente dotte, ma con leggerezza, sono il fulcro delle Quaestiones Conviviales di Plutarco (che vogliono proporsi come pedagogiche), qui la conversazione stessa è un “banchetto”, e segue le singole portate, ad ogni portata associando un tema. Ma l’originalità dell’opera, talora bizzarra per gli argomenti che affronta, talora apparentemente confusa e ondivaga nel suo percorso, tanto da non apparire scritta per essere letta, bensì soltanto consultata (come un’enciclopedia), oltre a costituire l’orgogliosa esibizione di un intellettuale dalla memoria prodigiosa, nasconde forse una motivazione profonda. Ambientati presso la casa del possessore di un’immensa biblioteca, i numerosi libri, strutturati come tali, in cui si articolano i Sofisti a banchetto, costituiscono essi stessi un’opera-biblioteca, e una biblioteca più grande di tutte quelle conosciute, un vero “labirinto” borghesiano, la summa di una cultura che, vista da Roma e da uno dei tanti Greci che hanno lasciato la patria, evidentemente era sentita in pericolo, o almeno irrimediabilmente lontana, nel tempo e nello spazio, tale dunque da dover essere recuperata e resa al tempo stesso fruibile, per i contemporanei e per i posteri, organizzata, raccolta per temi declinati nelle forme, e dalle voci, più diverse fra loro (senza porre attenzione alle contraddizioni interne, senza fornire alcun giudizio), conservata ancora una volta nell’ambiente in cui da sempre era stata prodotta e tramandata: il simposio. Non più un simposio vivo, o rivissuto, con nostalgia o col desiderio di riformarlo, ma un vero museo del simposio.
Ateneo
Epitome, I 1b-2a-b e I 47 ss.
Deipnosofisti (Sofisti a banchetto) I 1b-2a-b (Epitome)
Il disegno generale dell’opera vuole imitare la sontuosa abbondanza del banchetto, e l’articolazione del libro rispecchia il menu servito nel corso della trattazione. [...] Ateneo drammatizza il suo dialogo a imitazione di Platone, e comincia per l’appunto così:
Hai partecipato tu stesso, Ateneo, a quella bella riunione
di quelli che sono chiamati “dotti a banchetto”, di cui tanto si parlò in città, o la raccontavi ai tuoi amici per averlo sentito raccontare da altri?
- Vi partecipai io stesso, Timocrate.
- Vorrai dunque rendere partecipi anche noi dei bei discorsi tenuti tra un calice e l’altro [...], o bisogna che ce ne informiamo da qualcun altro?
I 47 ss. (Epitome)
“Vino vecchio, ma fiori di giovani/ canti”, declama Pindaro (Ol. IX 48-9) ed Eubulo dice: “è assurdo che il vino preferito sempre/ dalle etere sia quello vecchio ecc.” (fr. 122 K.-A.) [...]; la stessa cosa dice anche Alessi [...]. Omero loda il vino che consente una sufficiente mescolanza con l’acqua [...]. Teopompo afferma che il vino nero fu prodotto per la prima volta a Chio (FGrHist 115 F 276) [...]. Riguardo ai vini dell’Italia interviene quel Galeno che compare nell’opera del nostro erudito [...].
Anacreonte
Metri lirici ed elegiaci, Fr. 25 Gent.; 33 Gent.; 56 Gent. Fr. 25 Gent.
Con un pesante maglio, ancora una volta Eros,
come un fabbro, mi ha colpito,
e mi ha immerso in un torrente gelido.
Fr. 33 Gent.
Su, ragazzo, portaci
un orcio, che io di un fiato
possa tracannare, versando dieci parti d’acqua,
e cinque di vino, così che senza violenza
ancora una volta io possa celebrare i riti di Dioniso
[...]
su, che ancora una volta
non pratichiamo la maniera di bere degli Sciti nel simposio,
tra fracasso e grida di guerra, ma tra begli inni
sorseggiando.
Fr. 56 Gent.
Non mi è caro chi bevendo presso il cratere pieno
racconta i tumulti e la guerra piena di lacrime,
ma chi delle Muse e di Afrodite i fulgidi doni
mescolando insieme, ricorda col canto l’amabile gioia.