Simultaneita del diverso, smarrimento di identita e nuovi modelli culturali: Virgilio
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Publio Virgilio Marone è storicamente riconosciuto come l’autore che meglio ha saputo rappresentare la cultura latina “classica”. Egli vive gli anni cruciali della Roma augustea, un momento storico in cui, in seguito all’allargamento della concessione della cittadinanza romana alle colonie, il concetto di identità romana incomincia a mostrare la sua ambiguità. Virgilio, sostenuto ideologicamente anche dal progetto augusteo, contribuirà con le sue opere al recupero di quei valori tradizionali che determineranno la nascita di una nuova identità romana.
“Fu detto Marone dal mare, perché, come il mare abbonda di acque, allo stesso modo la sapienza abbondava in lui più che in ogni altro”: così si legge in una delle numerose biografie scritte su colui che senza esitazione si può definire il più grande poeta di Roma. Nessun altro autore è forse in grado di rivelarci la cultura latina “classica” come Virgilio, il cui messaggio, pur trovando radice e giustificazione nella Roma augustea, riesce a permeare di sé le epoche successive, al punto da essere riconosciuto – basti pensare alla sua funzione etica e poetica nella Commedia di Dante – come maestro, guida, fonte di “bello stilo” (Inferno, I, 87).
Virgilio vive in quegli anni cruciali del I secolo a.C. in cui il concetto stesso di identità romana comincia – o continua – a mostrare tutta la sua ambiguità. La concessione della cittadinanza prima alle colonie romane, poi a quelle di diritto latino, e infine, con l’emanazione della lex Iulia nel 90 a.C., anche ai municipi italici, ha inferto un duro colpo alla opposizione romano-non romano. Il pericolo proviene ora non più dagli hostes, come era stato per secoli, ma dalle viscere stesse di quello che comincia a definirsi come l’impero di Roma. Da un lato l’Urbe è divenuta il teatro di guerre fra cives, figli della medesima patria. Il mutamento d’identità del nemico e dell’altro comporta necessariamente la messa in crisi della propria identità e impone la ridefinizione di quest’ultima. Roma si è d’altra parte incamminata verso la trasformazione di sé in un crogiuolo di culture e religioni diverse eppure compresenti, con indubbi vantaggi di creatività e altrettanto complesse dinamiche di interazione con la diversità. La civiltà romana si trova dunque nel pieno di una rivoluzione culturale che la spinge a cercare di ritrovare se stessa attraverso un rassicurante ritorno alle proprie radici. Ma il recupero dei valori tradizionali, ideologicamente guidato da Augusto, si traduce nella costruzione di una identità nuova in cui Virgilio, come vedremo, ha un ruolo di assoluto primo piano.
Nato il 15 ottobre del 70 a.C. ad Andes, l’odierna Pietole in provincia di Mantova, Virgilio vive appieno gli anni delle lotte civili e nel 42 a.C. viene personalmente toccato dal dramma degli espropri dei terreni a favore dei veterani reduci dalla battaglia di Filippi. Secondo quanto riferito da Donato nella Vita Vergilii, la più antica e celebre biografia sul poeta, solo l’intervento di personaggi di spicco consente a Virgilio di uscirne indenne, ma l’eco della paura risuona mesta ancora nelle Bucoliche. Già nell’antichità poche erano le informazioni relative alla vita del poeta, e questa scarsezza di notizie, attribuibile in parte ad una personalità schiva, unita all’enorme fama che per contro si conquistò, contribuì a creare attorno al poeta un’aura leggendaria. La sua famiglia è sicuramente benestante sebbene la Vita Vergilii tramandi che il padre sia un vasaio arricchitosi con l’acquisto di boschi e con l’apicoltura: tratti volti a suggerire un legame con la creatività e il mondo dell’anima, che nell’immaginario degli antichi è rappresentata anche attraverso la figura dell’ape. Incredibili sono i presagi legati alla sua nascita: la madre avrebbe sognato di dare alla luce un ramo d’alloro, simbolo d’investitura poetica, subito mutatosi in un frondoso albero. Medesimo esito sarebbe toccato ad un pioppo piantato in onore del nascituro e divenuto poi sede di un culto della fertilità. Sembra suggerita da questi dati leggendari l’associazione tra Virgilio, la vegetazione, la prolificità. Rivelatore della personalità del poeta è anche il ritratto fisico tramandatoci dal suo biografo: corpore et statura fuit grandi, aquilo colore, facie rusticana, valetudine varia, dove la grandezza fisica rimanda all’altezza morale, le fattezze rustiche alla provenienza extra moenia Romae, mentre la salute cagionevole si coniuga all’idea di un intellettuale cui ormai non è più richiesta la prestanza che aveva caratterizzato personaggi come Catone il Censore. Morigerato nel mangiare e nel bere, più incline all’amore per i fanciulli che a quello femminile, è schivo e retto a tal punto da venir soprannominato parthenias, “verginella”.
Assunta la toga, si sposta successivamente a Milano, Roma e poi Napoli dove si lega alla cerchia del filosofo epicureo Sirone. Dopo esser scampato al pericolo della confisca dei possedimenti familiari e aver composto le Bucoliche, entra nel circolo di Mecenate. Questo periodo romano vissuto a stretto contatto con quella che si stava definendo come l’ideologia imperiale, volta alla riproposizione non monolitica, ma complessa e articolata del mos maiorum, costituisce lo scenario di composizione delle Georgiche. Una volta risolto definitivamente lo scontro fra Ottaviano e Marco Antonio, mentre si gettano le basi dell’ambizioso programma della pax Augusta, i tempi e il poeta sono maturi per l’elaborazione del poema romano per eccellenza, l’Eneide. La sua composizione si protrae ininterrottamente dal 29 a.C. sino alla morte di Virgilio, avvenuta il 22 settembre del 19 a.C., in seguito a una breve malattia contratta durante il ritorno dalla Grecia. Il poeta muore a Brindisi ma sarà seppellito a Napoli. Sulla sua tomba, unico indizio per i viandanti, un epigramma recitava così: Mantua me genuit, Calabri rapuere, tenet nunc/ Parthenope. Cecini pascua, rura, duces. Il nome del sepolto è, come nella migliore tradizione epigrammatica romana, assente; rimane solamente il riferimento alle opere: i pascoli, i campi, i condottieri richiamano alla memoria rispettivamente le Bucoliche, le Georgiche, l’Eneide.
Narra Donato che Virgilio avesse iniziato a scrivere la storia di Roma ma che, poi, stanco, si sia dato alla composizione delle Bucoliche “soprattutto per celebrare Asinio Pollione, Alfeno Varo e Cornelio Gallo”, ovvero coloro la cui intercessione presso Augusto lo aveva protetto dall’esproprio dei suoi terreni. Questo l’antefatto delle Bucoliche, una raccolta poetica strutturata in dieci ecloghe – (letteralmente “canti scelti)” – che sembra voler catturare, fissandolo in versi, un paesaggio vivo ormai solamente nella memoria.
Prima di Virgilio il genere bucolico non aveva potuto contare su rappresentanti significativi a Roma: il modello principale cui il poeta si ispira è costituito dagli Idilli del poeta ellenistico Teocrito anche se, a livello di suggestioni, non si può non riconoscere nelle ecloghe l’influenza della sensibilità con cui Catullo e Lucrezio avevano indagato le passioni umane. La poesia bucolica di Virgilio segue certamente quella teocritea a livello metrico-formale, nell’esametro e nella struttura amebaica – ossia dialogica – del canto, e apparentemente anche nell’ambientazione pastorale: questo è, infatti, il significato del termine greco “bucolico”. Tuttavia, il tono è indiscutibilmente diverso.
All’assolato paesaggio siciliano in cui si muovono i pastori di Teocrito, le Bucoliche virgiliane sostituiscono le rive del Mincio, la pianura mantovana che ha visto l’infanzia del poeta. Centro delle Bucoliche è, infatti, il paesaggio scomparso di Andes, un’Arcadia (tale è definita in Bucoliche, X) che non ha nulla della fresca e incontaminata regione della Grecia dove i pastori rifuggono la calura, riposandosi e dilettandosi col canto. L’Arcadia dove scorre il Mincio (Bucoliche, VII) è costellata di casupole i cui camini invitano a restare mentre scende la sera, ma è una terra che sembra condividere gli stati d’animo – dolore e malinconia – dei pastori che la abitano, perché in essa la ferita delle guerre civili, e con essa quella dell’esproprio delle terre, si fa rumore di fondo ed eco lacerante.
I pastori, dai nomi greci, che abitano il poema sono voci dell’infanzia del poeta, personaggi che, come il Melibeo della prima ecloga, sono stati colpiti dall’esproprio e hanno dovuto abbandonare la propria casa e di chi come Titiro – e come pure Virgilio – è scampato al pericolo. La rassegnazione irata ma impotente di Melibeo emerge nell’ossimorica affermazione nos patriam fugimus: un romano costretto all’abbandono delle proprie origini perde in tal modo la propria identità e questo pastore – greco solo nel nome ma molto romano nelle vicende – diviene già alla fine dell’ecloga uno straniero: è in tale direzione che può esser letta l’offerta d’ospitalità di Titiro nell’ora del tramonto. Si tratta però di un invito destinato a rimanere senza risposta, rivolto a qualcuno che già se n’è andato e non è più che un’ombra che si intravede in lontananza.
Quest’aura crepuscolare – presente appunto già dalla prima ecloga – pervade tutta l’opera, che raccoglie il sogno dei pastori – poeti di un ritorno alla natura, ad una terra che conosca le tappe della rinascita e della comunione armonica con chi vi abbia messo radici: una rigenerazione che – come nella quarta ecloga – assume i contorni della mitica età dell’oro, e che si affaccia sulla storia lacerata del mondo attraverso la nascita di un mitico, misterioso puer, che ha offerto infinita materia esegetica alle generazioni successive a Virgilio. Altro grande tema presente nella raccolta delle Bucoliche è quello dell’amore passionale: che si tratti di quello eterosessuale di Gallo tradito da Licoride o di Damone ingannato da Nisa, o della passione omoerotica tra Coridone e Alessi, l’amore viene descritto come una forza cieca che priva del senno e conduce all’infelicità. La forza della passione che ogni cosa vince (Amor omnia vincit, Bucoliche, X) non può essere arginata, ma solamente trovare conforto e sollievo nel canto.
Ancora la natura è indiscussa protagonista delle “poesie contadine” (questo il significato del termine Georgiche), opera unitaria in quattro libri composta fra il 37 e il 30 a.C. quando Virgilio è già entrato a far parte del circolo di Mecenate: la genesi dell’opera, per ammissione dello stesso poeta, è da ricercarsi, almeno in parte, negli haud non mollia iussa (III, 41) di colui che può senz’altro essere considerato uno dei più importanti promotori della politica culturale di Ottaviano.
I quattro libri delle Georgiche, che celebrano le attività dei campi, sono dedicati rispettivamente ad agricoltura, arboricoltura, allevamento e apicoltura: il poeta mantovano aderisce con questa opera ad un genere letterario intrinsecamente concreto nella materia del canto e nella sua volontà educativa: la poesia didascalica. Ciò non comporta certamente alcun intento didattico-pratico da parte di Virgilio, né l’esercizio di abilità nel trasporre in versi una materia tecnica e per questo recalcitrante alla poesia: con le Georgiche si celebra piuttosto la necessità del lavoro quotidiano, che si muove in una imprescindibile dimensione cronologica, scandita dal corso delle stagioni, con un prima e un poi, in cui nulla è affidato al caso.
L’importanza dell’aspetto temporale (sia nell’accezione meteorologica che in quella cronologica) emerge continuamente all’interno dell’opera: nei riferimenti al calendario agricolo e ai segnali sul buono e cattivo tempo (libro I), nelle indicazioni per la coltivazione della vite e dell’olivo (libro II), nella trattazione dell’allevamento (libro III) e, infine, nell’apicoltura (libro IV). L’allineamento alla politica imperiale augustea è esplicitamente visibile nelle lodi a Ottaviano del I come pure del IV libro e, implicitamente, nell’excursus mitologico che di quest’ultimo caratterizza la chiusa. Da quanto riporta Servio, il grammatico del IV secolo commentatore di Virgilio, in questa sede del poema avrebbe dovuto trovar posto un elogio rivolto dal poeta all’amico Cornelio Gallo, poi eliminato a motivo della damnatio memoriae da cui quest’ultimo era stato colpito. Tuttavia, vero centro propulsore dell’opera risulta il tema del lavoro, l’attività umana che attraverso fatica e dedizione modella un vero e proprio stile di vita che consente all’uomo di riscattarsi e di imprimere la propria firma sulle pagine della natura.
Quest’ultima non risulta in alcun modo soggiogata, anzi appare partecipativa, simpatetica con gli sforzi umani, e mai disposta ad essere sopraffatta da parte dell’uomo. Ne è testimone l’episodio del IV libro dove la natura, in particolare proprio attraverso la figura in cui l’antichità congiungeva mondo naturale e umano, ossia l’ape, simbolo dell’anima, si ribella al suo oppressore. Infatti, il pastore Aristeo, colpevole di aver causato la morte della ninfa Euridice – personificazione della natura – viene punito con la morte delle sue api. Riuscirà a riscattarsi solo attraverso un sacrificio e l’iniziazione ad uno dei misteri della vita animale: la “bugonia”, ossia la rinascita delle api dalle carcasse putrescenti dei bovini immolati. Termina con questo miracoloso e vitale evento il IV libro, peraltro profondamente segnato dall’irrimediabilità del dolore e della morte, e dall’intreccio di questa con l’amore: all’interno della vicenda di Aristeo viene infatti inserito il mito di Orfeo ed Euridice, della vana risalita di quest’ultima dalle tenebre dell’Ade alla luce e della terribile fine cui va incontro il cantore tracio, che viene smembrato dalle menadi per avere rifiutato il loro amore. Se il lavoro può riscattare l’uomo, l’amore in nulla può redimere il male di vivere.
Frutto di una riflessione estremamente matura sulla propria epoca, l’Eneide possiede l’esaustività di un’enciclopedia culturale e la bellezza di 12 libri di poesia. L’opera racconta l’avventura di Enea, eroe troiano destinato dal fato a salvarsi, con un gruppo di compagni, dalla distruzione di Ilio e a fondare, attraverso un percorso costellato di innumerevoli difficoltà, la culla di una nuova civiltà: quella di Roma.
A quello che divenne il suo capolavoro, Virgilio lavora dal 29 a.C. fino alla morte. Nei suoi tratti fondamentali l’Eneide assomma tutte le caratteristiche dell’epos omerico. Le storie e le avventure di quel pugno di Troiani reduci da una paurosa sconfitta nella loro terra, che una volta giunti in Italia si trovano ad affrontare nuovamente un sanguinoso conflitto (quello con i Rutuli guidati da Turno) ripropongono in parte lo schema del viaggio odissiaco, e in parte lo schema iliadico (costituito da sequenze di duelli e battaglie): a fare da cerniera alle due sezioni, l’episodio costituito dal viaggio agli inferi del protagonista, modellato a sua volta su quello dell’evocazione dei morti da parte di Odisseo nell’XI libro dell’Odissea. Dopo aver sconfitto Turno, Enea sposa Lavinia, figlia del re Latino, fondando la nuova civiltà che sarà alle origini di Roma, mentre suo figlio Iulo diverrà il progenitore della gens Iulia, che darà i natali a Giulio Cesare e allo stesso Augusto.
Non è difficile comprendere l’immensa portata di questa operazione culturale: la vicenda di Enea funziona da moltiplicatore mitico delle origini di Roma, che vengono in questo modo ricondotte all’antichissima civiltà troiana. Il passato mitico di Roma, raccontato attraverso la riproposizione di riti, credenze e modelli culturali, viene così raccolto in un solo libro che costituisce una vera e propria enciclopedia della comunità. Non solo, infatti, il poema riassume l’immensa mole di conoscenze belliche, religiose, divinatore, geografiche e istituzionali del mondo romano, ma racchiude, ad esempio, una serie di modelli di comportamento, invitando non troppo implicitamente il lettore a farli propri e a rispettarli: è il caso del sistema di valori che ruotano intorno al nucleo familiare, e segnatamente alla figura paterna.
Enea, pater per eccellenza, è anche profondamente figlio: di quell’Anchise che egli porta sulle spalle fuggendo da Troia in fiamme, e verso il quale manifesta quella pietas, sintesi di rispetto e devozione, che non manca di nutrire anche verso gli antenati e le divinità. Se questo radicamento nei valori tradizionali si pone perfettamente in linea con il progetto di restaurazione dei mores voluto da Augusto, sarebbe d’altra parte molto riduttivo leggere l’Eneide come un’opera di propaganda e di giustificazione politica. La vicenda dei Troiani che da sconfitti nella loro terra sono diventati vittoriosi in terra straniera non si risolve in un canto di orgoglioso trionfo: la vergogna di essere sopravvissuti alla strage di Troia, di non aver condiviso la sorte di compagni e familiari, costituisce una pesante ipoteca sulla fierezza della conquista e sul disprezzo del nemico in terra italica. Accade così che la tonalità dominante nell’Eneide sia quella del dolore, quello che ogni guerra, sotto tutte le latitudini, porta con sé. Accanto alla funzione di esaltare Roma e di celebrare i suoi trionfi nel Mediterraneo, l’Eneide fa suo il canto e la celebrazione dei vinti. I personaggi che segnano di più la memoria del lettore, ieri come oggi, sono figure di sconfitti. Dall’infelice regina Didone, travolta da una passione impossibile da vivere che la porta a darsi la morte, alle giovani vite recise nel fiore degli anni di Eurialo, Niso, Pallante, dalla follia della regina Amata alla sventura del giovane Palinuro scomparso tra i flutti, dalla solitudine dello stesso Enea costretto a misurarsi con un destino di cui non conosce il linguaggio, il canto dell’Eneide dispiega il suo caleidoscopio di dubbi e incertezze sul significato della vita e della morte, dell’amore e del dolore.
Nel poema, che Virgilio aveva chiesto nel testamento di bruciare per impedirne la pubblicazione, vive così una straordinaria molteplicità di voci, che non di rado mostra i caratteri del paradosso. Proprio mentre cerca di dare un volto all’identità romana, il poeta le attribuisce i caratteri della complessità contraddittoria, che rendono l’Eneide, nel corso dei secoli, un modello culturale permanente, un riferimento ineludibile per quanti continueranno a scoprire tra le sue pagine fonti inesauribili di insegnamenti e di poesia. Un poema che continua a rappresentarci, come un fatto significativo della vita di ciascuno di noi.