Sindacalismo
di Giovanni Tarello
Sindacalismo
sommario: 1. Gli usi del vocabolo ‛sindacalismo'. 2. Per un censimento e una classificazione dei sindacalismi. 3. Primi decenni del secolo. a) Il populismo russo come sindacalismo di ceto. b) Il sindacalismo cattolico e quello dei nazionalisti come sindacalismo corporativo. c) Il sindacalismo di mestiere. d) Il sindacalismo riformista di classe. e) Il sindacalismo rivoluzionario di classe. 4. Tra le due guerre. a) Tendenza generale. b) Il sindacato organo del partito. c) Il sindacato organo dello Stato. d) Il sindacalismo contrattualistico. 5. Il secondo dopoguerra. a) Il sindacalismo statunitense. b) Il sindacalismo dei paesi del Nord Europa. c) Il sindacalismo dei paesi latini, con particolare riguardo al sindacalismo italiano. □ Bibliografia.
1. Gli usi del vocabolo ‛sindacalismo'
Il vocabolo ‛sindacalismo', come i vocaboli che gli corrispondono nelle altre lingue romanze (in particolare il francese syndicalisme), designa da un lato il movimento effettivo dell'associazionismo sindacale e tutta una varietà di fenomeni reali costituiti dai sindacati - nella loro variegata articolazione storica e ambientale - e dalla loro attività e azione; designa inoltre, dall'altro lato, gli atteggiamenti ideologici, le dottrine e le teorie proprie dell'associazionismo sindacale.
In questa seconda accezione esso designa in modo generico ogni dottrina relativa ai fini, ai destini, alle possibilità dei sindacati, ai modi in cui si debbono organizzare, ai modi ordinari e straordinari in cui i fini debbono essere perseguiti.
Peraltro ‛sindacato' designa anche, in modo altrettanto generico, ogni (effettiva o concepibile) organizzazione di gruppi economici, individuati secondo le più diverse categorie concettuali analitiche e ideologiche, come ad esempio il mestiere, il ceto, la corporazione, la categoria, il settore, la classe.
Dalle precedenti osservazioni segue che il riferimento del vocabolo ‛sindacalismo' è reso indeterminato dal fatto che gli stessi fenomeni e gli stessi fini e programmi appaiono talvolta inclusi e talvolta esclusi, a seconda della prospettiva ideologica di chi usa il vocabolo. Non solo, infatti, è condizionante l'ideologia dell'utente del vocabolo quando questo è usato per designare dottrine, ma l'ideologia è anche condizionante allorquando il vocabolo è impiegato per designare associazioni reali, giacché il soggetto o portatore di fini o programmi viene individuato mediante concettualizzazioni ideologiche, quali sono in misura minore quelle di ‛mestiere' e di ‛settore' e in misura massima quelle di ‛ceto', di ‛corporazione' e in special modo di ‛classe'.
Non sorprende perciò che le tecnicizzazioni lessicali, i restringimenti e le precisazioni del significato del vocabolo ‛sindacalismo' siano avvenute e avvengano solo entro comunità ideologiche; che i significati cosiddetti ristretti o propri del vocabolo siano sempre fortemente connotati e gergali; che l'aggiunta o la sottrazione di aggettivi (ad esempio, dire ‛sindacalismo' o ‛sindacalismo rivoluzionario', dire ‛sindacalismo' o ‛sindacalismo di mestiere', e così via) serva piuttosto a precisare la prospettiva di chi parla che il fenomeno oggetto di discorso; che perciò gli usi di ‛sindacalismo', da solo o con precisazioni aggettivali, quale nome proprio di movimenti o fenomeni specifici e storicamente determinati, siano sempre usi malfidati e aperti a ragionevoli contestazioni.
Segue inoltre, dalle precedenti considerazioni, che anche la semplice descrizione di eventi e atteggiamenti effettuali non può prescindere da continui riferimenti al quadro concettuale ideologico tanto dei protagonisti immediati degli eventi descritti quanto dei vari gruppi di osservatori contestuali o successivi.
Fatte queste premesse, da un lato troppe e dall'altro lato probabilmente troppo poche, noi faremo un primo censimento, il più largo possibile, dei fenomeni e delle dottrine dell'associazionismo di gruppi economici all'inizio di questo secolo.
Successivamente tracceremo una mappa delle linee di tendenza e di sviluppo.
2. Per un censimento e una classificazione dei sindacalismi
Per procedere a un censimento dei movimenti sociali e degli atteggiamenti ideologici riconducibili al sindacalismo nell'accezione più generica del vocabolo, è opportuno stabilire preliminarmente qualche criterio di classificazione. Infatti se possediamo classificazioni entro cui collocare movimenti reali e atteggiamenti ideologici, diviene più agevole, una volta collocati nelle varie classi i fenomeni che si manifestano nel tempo e nello spazio, individuare linee di tendenza del fenomeno complessivo nel tempo o linee di tendenza in aree geografiche determinate. A tale scopo sembra conveniente adottare criteri di classificazione diversi, con riguardo ai diversi aspetti che i fenomeni sindacali (anche nei profili ideologici) assumono nel contesto sociopolitico, eventualmente in relazione ad altri fenomeni o strutture sociali (come il diritto).
Un primo criterio di classificazione è quello che riguarda la base che un sindacalismo aggrega (movimento reale) o si prefigge di aggregare (atteggiamento ideologico). Da questo punto di vista noi possiamo distinguere: a) il sindacalismo di ceto; b) il sindacalismo di mestiere; c) il sindacalismo di corporazione; d) il sindacalismo di settore; e) il sindacalismo di classe. Questa classificazione, che fa riferimento a concetti ideologico-dottrinari utili a individuare la base di aggregazione, è agevole riguardo agli atteggiamenti ideologici ma è talvolta disagevole riguardo ai movimenti reali.
Un secondo criterio di classificazione riguarda i fini che un sindacalismo si propone. Come è evidente, anche questo secondo criterio di classificazione è agevolmente impiegabile in relazione agli atteggiamenti ideologici - in particolare dichiarati in dottrine - e impiegabile molto meno agevolmente in relazione ai movimenti reali. Da questo punto di vista possiamo distinguere: a) il sindacalismo rivoluzionario; b) il sindacalismo riformista. Come è ovvio, si intende per ‛rivoluzionario' quel sindacalismo che mira a mutare radicalmente la società e i rapporti sociali, e per ‛riformista' quel sindacalismo che mira a mutare aspetti della società e a introdurre riforme; come è evidente, il rivoluzionarismo e il riformismo possono essere compatibili o incompatibili a livello ideologico, a seconda delle dottrine, e anche, a livello di movimenti e strategie reali, a seconda della situazione; altrettanto evidente è che può darsi un movimento sostanzialmente rivoluzionario il quale esprima un'ideologia riformista, nonché (caso più frequente) viceversa.
Dal punto di vista dell'organizzazione che il movimento si dà o che l'ideologia prospetta - terzo criterio di classificazione - possiamo riferirci all'aggregazione di gruppi minuscoli in organizzazioni minuscole e impenetrabili; alla aggregazione di gruppi minuscoli in reti di accordi che coprono tendenzialmente tutto il movimento sindacale nell'ipotesi di una solidarietà di interessi; infine all'aggregazione secondo accordi atti a superare, in un ipotizzato interesse comune, interessi di parte eventualmente conflittuali. Da questo terzo punto di vista possiamo distinguere tra: a) il sindacalismo atomistico; b) il sindacalismo federativo, che a sua volta può distinguersi in federativo orizzontale e federativo verticale; c) il sindacalismo corporativo. Come è evidente, l'organizzazione è funzionale ai fini che il sindacalismo si propone e ai mezzi che esso presceglie; ma si danno fenomeni di vischiosità delle organizzazioni, tanto che queste talvolta restano in vita anche col mutare dei fini e dei mezzi dando luogo a disfunzionalità.
Quarto possibile criterio di classificazione è quello che fa riferimento all'esistenza e alla natura dei rapporti che intercorrono (movimenti reali) o si vuole intercorrano (atteggiamenti ideologici) tra un sindacalismo e altre forze - di natura diversa - che operano nello stesso contesto politico aggregando in tutto o in parte la stessa base soggettiva: come, principalmente, i partiti. Da questo punto di vista distinguiamo: a) il sindacalismo autarchico, che non ha né vuole avere collegamento veruno con i partiti; b) il sindacalismo che genera partiti e se ne avvale; c) il sindacalismo di partito, che è e vuole essere dipartimento sindacale di un partito o la ‛cinghia di trasmissione' di un partito. Come è evidente, in questa materia la divaricazione tra realtà e ideologia può essere massima, così come possono darsi situazioni di incompatibilità ideologica tra un partito e un sindacato di fatto uniti da rapporti di interdipendenza.
Quinto possibile criterio di classificazione è quello che fa riferimento ai rapporti tra sindacalismo e organizzazione giuridica dello Stato. Da questo punto di vista le situazioni tipiche (reali o proposte) sono quattro, e corrispondentemente possiamo distinguere tra: a) sindacalismo illegalitario, che ammette o privilegia l'azione sindacale che, dal punto di vista del diritto, è illegale; b) sindacalismo legalitario, che non ammette l'azione sindacale illegale; c) sindacalismo sostenuto, che accetta o pretende un positivo sostegno dell'azione sindacale e dell'organizzazione sindacale da parte della legge; d) sindacalismo istituzionale, che è o aspira a essere un organo dello Stato con funzioni delegate di normazione, giurisdizione e amministrazione.
3. Primi decenni del secolo
a) Il populismo russo come sindacalismo di ceto
Uno solo dei vecchi sindacalismi di ceto è ancora attivo all'inizio del XX secolo. Si tratta del populismo russo (in russo narodničestvo; gli aderenti narodniki), la cui base di aggregazione dal punto di vista dell'ideologia - non peraltro della realtà effettiva - era costituita dal ceto contadino, ceto che era dai populisti considerato il punto di partenza e di arrivo di una palingenesi sociale preconizzata, di carattere tanto politico quanto religioso, e naturalmente rivoluzionaria. Alle spalle del populismo vi era una lunga e aggrovigliata storia ideologica segnata, alle origini, da personalità disparate quali A. I. Herzen, N. G. Černyševskij, M. Bakunin, P. L. Lavrov, N. V. Čajkovskij, e una ancor più aggrovigliata storia di azione rivoluzionaria. Tra i punti salienti di tale storia, si può ricordare la fondazione della società segreta Terra e Volontà (in russo Zemlja i Volja) nel 1876; la formazione di una serie di movimenti politici - naturalmente clandestini - che attorno al 1880 vennero ad aggregarsi attorno a un partito populista, terrorista e rivoluzionario, denominato Volontà del Popolo (in russo Narodnaja Volja), ed escludendo gli elementi antiterroristi che confluirono in un movimento riformista, chiamato Sezione Nera (in russo Čërnyj peredel), guidato da G. V. Plechanov e destinato a trasformarsi nel Partito Socialdemocratico (1898); la pubblicazione di una rivista culturale, ‟La ricchezza russa" (‟Russkoe bogatstvo"), relativamente moderata nell'apparenza ma in realtà punta emergente del movimento terrorista rivoluzionario clandestino (apparsa nel 1876 continuerà sino al 1918). Il nocciolo di questo retaggio storico, al di là delle molte varietà, era un programma semplicistico: l'abbattimento violento dell'ordinamento della proprietà e dello Stato, e la ridistribuzione delle terre ai contadini non a titolo di proprietà individuale bensì a titolo di godimento in forma comunitaria da parte di ciascuna comunità rurale (obščina). Si trattava di un programma spiccatamente utopistico e irrealistico, il cui orizzonte restava essenzialmente agrario nonostante le prime manifestazioni di una industrializzazione che produceva operai: come polemicamente e faziosamente non aveva mancato di far rilevare Lenin fin dal 1894 con lo scritto Che cosa sono gli ‛amici del popolo' e come lottano contro i socialdemocratici. Tuttavia, nella situazione russa antecedente la guerra, un simile programma basato su rivendicazioni di ceto, come la riappropriazione della terra da parte dei contadini, oltre alla forza di una tradizione letteraria e culturale nazionale aveva quella di una relativa capacità di rispecchiare, in negativo, la situazione esistente. È perciò comprensibile come questo programma sia rimasto, sostanzialmente, quello del Partito Socialista Rivoluzionario russo, fondato nel 1901, il cui credo si riassumeva effettivamente (e non solo nelle caricature polemiche degli avversari socialdemocratici) nello slogan ‟Rivoluzione agraria e terrorismo", e come, invece, fuori dalla Russia e dai paesi slavi, le influenze - che pure non mancarono - fossero destinate a essere scarse.
La storia del Partito Socialista Rivoluzionario evidenziò - se ve ne fosse stato bisogno - l'incompatibilità di un sindacalismo di ceto, rivoluzionario, illegalitario, tanto con movimenti socialdemocratici quanto, e ancor più, con la formazione di uno Stato sovietico. La decisione dei bolscevichi al potere di concedere le terre ai contadini trovò in un primo breve momento appoggio e fattiva collaborazione nell'ala sinistra del Partito Socialista Rivoluzionario guidato da M. Spiridonova; ma dopo la pace di Brest-Litovsk, la costruzione di uno Stato totalitario respinse i socialisti rivoluzionari in una opposizione che essi non potevano concepire e praticare se non con i propri mezzi tradizionali, e cioè la violenza terroristica e l'appello alla rivoluzione contadina contro lo Stato burocratico e totalitario in formazione. Con l'ovvia conseguenza che i bolscevichi trassero dalla contingente confluenza dell'opposizione rivoluzionaria e della reazione bianca una conferma e una riprova della vecchia tesi leninista sull'identità di libertarismo anarchico contadino e reazione aristocratica: tesi certo operativa in fatto di terrorismo psicologico, ma ridicola in termini di realtà storica e di analisi ideologica.
b) Il sindacalismo cattolico e quello dei nazionalisti come sindacalismo corporativo
Attivo nei primi due decenni del secolo è un sindacalismo di ispirazione cattolica che individua la base associativa nelle corporazioni, cioè in unioni organiche di tutti coloro, lavoratori e datori di lavoro, che operano in una unità produttiva o in un settore produttivo; unioni che ‛naturalmente' producono norme di composizione degli interessi eventualmente conflittuali e che, nell'ideologia più diffusa, dovrebbero essere dotate dal diritto o dovrebbero dal diritto essere riconosciute titolari ‛naturali' di poteri regolamentari e giurisdizionali.
Le più antiche espressioni, non ancora molto articolate, del corporativismo cattolico, si possono rintracciare a partire dal 1870. In Germania idee corporativistiche specificamente cattoliche furono espresse e messe in circolazione dal vescovo W. E. von Ketteler, il quale riteneva che le idealità cristiane potessero far superare gli egoismi individualistici. In Francia, soprattutto in funzione antipositivistica e con notevoli sfumature conservatrici o reazionarie, idee corporativistiche erano state fatte circolare dal conte A. de Mun e dal marchese R. La Tour du Pin: il primo aveva anche tentato di organizzare dei sindacati misti, cioè sindacati che raggruppavano, per ciascuna professione, lavoratori e datori di lavoro. Le idee che presiedettero ai tentativi del de Mun furono piuttosto semplici, risolvendosi nel propagandare l'adempimento con spirito cristiano dei doveri propri sia dei lavoratori che dei datori di lavoro, e l'impostazione ‛secondo spirito di giustizia' dei loro rapporti. Data la situazione politica francese, questi movimenti assunsero atteggiamenti di sospetto nei confronti dello Stato e si tennero in disparte nelle polemiche allora in corso sulla ‛legislazione sociale', né mostrarono propensione per richieste di legislazione di sostegno o, tanto meno, di istituzionalizzazione. In parte diversi i precedenti in Italia, ove il Congresso dei cattolici italiani (Lucca 1887) aveva mostrato da un lato l'emergere di concezioni articolatamente corporativistiche e dall'altro lato il prevalere dell'opinione che i tempi non fossero maturi ancora per proporre audaci (così parevano) esperimenti; ma subito dopo l'enciclica Rerum novarum (15 maggio 1891) di Leone XIII indicava ai cattolici, come strumenti per una società cristiana, oltre ai sindacati (sodalitia) confessionali, proprio delle corporazioni miste atte a procurare che ‟ordo alter accedat ad alterum". Sulla base di siffatto autorevole incoraggiamento, al nuovo Congresso dei cattolici italiani (Genova 1892) si fece gran parlare - quantunque in modo molto vago - delle corporazioni medievali e si manifestò grande favore per quelle che furono chiamate ‟rappresentanze di interessi", contrapponendole alla ‟rappresentanza democratica" (designata come ‟rappresentanza del numero volubile e artefatta") nella prospettiva di una ‟società organica". In tal modo si venne a fissare una prospettiva sostanzialmente istituzionalistica nel corporativismo dei cattolici italiani.
All'inizio del secolo, nel 1903, si ebbe il punto più alto dell'elaborazione dottrinaria: il manifesto di Giuseppe Toniolo e il Congresso dei cattolici italiani che recepì il manifesto stesso. Toniolo si proponeva di conciliare il sindacalismo cattolico organizzato su base non corporativa, e cioè attraverso sindacati di soli lavoratori (i cosiddetti ‛sindacati bianchi'), con la concezione corporativistica oramai prevalente tra gli intellettuali cattolici e incoraggiata dalle encicliche: sulla linea di questo tentativo di conciliazione, egli proponeva sindacati paralleli non corporativi alla base e organizzazione corporativa al vertice. Si prospettavano perciò sindacati paralleli di lavoratori e di datori di lavoro, che avrebbero poi trovato collegamento in ‛commissioni miste', le quali unendosi a loro volta avrebbero dato luogo a ‛corporazioni' diverse secondo i settori professionali e produttivi, ma tutte collegate tra loro al vertice. Tali corporazioni collegate avrebbero avuto compiti giurisdizionali di soluzione dei conflitti tra lavoratori e datori di lavoro, ricorrendo al principio cristiano della ‛giusta mercede'. Questi atteggiamenti ideologici del Toniolo e del Congresso dei cattolici italiani erano destinati a diventare patrimonio comune del sindacalismo cattolico europeo. L'ispirazione nettamente anticlassista e il favore per giurisdizioni di tipo arbitrale saranno il contrassegno del sindacalismo dei cattolici, anche se nella pratica le corporazioni cattoliche non si sarebbero realizzate. Nel 1911 si costituì un vero e proprio sindacato dei lavoratori cattolici, la Unione economico-sociale dei lavoratori italiani, che fu il primo nucleo di quella che nel 1918 diverrà la CIL.
Diverso esito ebbe un altro filone di sindacalismo corporativo, quello dei nazionalisti italiani - in parte ispirato da quello cattolico - destinato a fornire schemi concettuali al corporativismo autoritario e istituzionalizzato del regime fascista. Anche il corporativismo dei nazionalisti ebbe origine in una netta contrapposizione ideologica alla concezione classista della società. Nel 1909 il Gruppo nazionalistico di Torino si dava uno statuto nel quale si poteva leggere che ‟la lotta di classe deve essere contenuta entro i limiti della solidarietà nazionale". Alle spalle di questa formulazione, oltre agli atteggiamenti del corporativismo cattolico, stava una lunga tradizione di pensiero giuridico italiano, impropriamente designato come ‛socialismo giuridico' e più propriamente di indirizzo corporativistico, il cui messaggio può vedersi nella seguente formulazione di Enrico Cimbali: ‟L'alto ufficio di moderatore e pacificatore fra le classi sociali contendenti compete, per sua natura, allo Stato, agente e organo supremo dell'unità nazionale". Di ispirazione corporativistica e autoritaria è l'ideologia del Movimento nazionalista italiano (costituitosi a Firenze nel 1910), il cui esponente più importante è Enrico Corradini, e del Gruppo tricolore (organizzato a Torino da Mario Viana) che si qualificò ‛sindacalismo borghese': un insieme di movimenti che confluiscono nel programma del Partito Nazionalista Italiano col congresso di Milano del 1914, in cui prevale l'impostazione di Alfredo Rocco. E nel 1914 che Rocco elabora la sua dottrina corporativa, in cui il supporto dell'organo moderatore e arbitro dei conflitti sociali è individuato nel principio di ‛interesse nazionale' che coincide senza residui con l'interesse della produzione espresso dai capi della produzione stessa. Rocco prospetta ‟corporazioni miste" che producano regole e norme atte a disciplinare non già ‟un'assurda eguaglianza" bensì le differenze; corporazioni che siano organi dello Stato, e a questo assicurino il controllo della produzione configurando ‟gli intraprenditori e i capitalisti come organi dell'interesse nazionale". Rocco auspica che il nazionalismo ‟crei il movimento corporativista come la forma più pura e più perfetta del sindacalismo nazionale".
Con le formulazioni nazionaliste il sindacalismo corporativo si atteggia, prima della guerra, in senso nettamente istituzionale e prefigura il sindacato-organo dello Stato che sarà tipico, tra le due guerre, dell'organizzazione fascista.
c) Il sindacalismo di mestiere
Il sindacalismo di mestiere è stato, cronologicamente, il primo modo di manifestarsi dell'associazionismo industriale con caratteri difensivi, ed è rimasto tipico dell'esperienza dei paesi anglosassoni anche in questo secolo. Alle spalle del sindacalismo di mestiere sta tutta la lunga tradizione di esperimenti, variamente compiuti da gruppi di lavoratori volti ad associarsi per contrastare nei modi più vari gli effetti del libero mercato del lavoro. Nel continente europeo la lontana origine di movimenti sindacalistici di questo tipo va ricercata ad esempio nei movimenti per le Società di mutuo soccorso e nel formarsi di Leghe di resistenza. Come è evidente, nel sindacalismo di mestiere, almeno in una prima fase, si organizzano solo gli strati superiori degli operai, che godono di situazioni privilegiate o comunque forti sul mercato del lavoro, in relazione al possesso di una professionalità tecnica elevata. In questa prospettiva, appare scarsamente sorprendente che le espressioni ideologiche dell'associazionismo di mestiere - di solito non articolatissime - siano manifestazioni di difesa di tipo ‛proprietario' del ruolo e della professionalità, della ‛proprietà del mestiere'; e che, d'altra parte, attorno al mestiere si formi una forte coscienza di gruppo, una forte solidarietà e spirito di unione.
Nel continente europeo, peraltro, ogni articolata espressione ideologica di sindacalismo cessa di fare riferimento al ‛mestiere' ben prima dell'inizio di questo secolo. Non così in Inghilterra e negli Stati Uniti d'America, ove le espressioni ideologiche dell'associazionismo operaio anche nei tempi più recenti portano, in misura maggiore o minore, qualche carattere originario del sindacalismo di mestiere.
In Inghilterra la forma del sindacalismo di mestiere è originariamente la Trade Union, letteralmente ‛unione di commercio', cioè unione di lavoratori con fini di rafforzamento della propria posizione nel mercato. Le Unions mostrarono, sino dalla metà dell'Ottocento, una serie di caratteri tipici: attività di solidarietà e agitazione nelle singole unità produttive in periferia; tendenza ad associarsi tra di loro al centro, per funzionare come gruppo di pressione politico in favore di riforme; assoluto disinteresse per le espressioni ideologiche complesse e per ogni non sporadico collegamento con il movimento operaio internazionale. L'elemento su cui è bene richiamare l'attenzione è il secondo; a partire dal 1845 le varie Unions si raggrupparono in associazioni nazionali (1845 mestieri riuniti, 1851 meccanici, e così via), che ebbero dirigenti residenti a Londra, i quali si collegarono tra loro in una Giunta delle Unions. Questa Giunta nel 1867 convocò una Conferenza delle unioni miste che chiese il riconoscimento giuridico delle Unions. Si manifestò così, e si cristallizzò, la scelta legalitaria, riformista, non aliena dal chiedere una legislazione di sostegno, che avrebbe caratterizzato il sindacalismo inglese. Anche sul piano politico le Unions manifestarono presto il loro partecipazionismo, appoggiando l'entrata di loro diretti rappresentanti operai nella Camera bassa (furono due nel 1874, ben dieci nel 1886). Alla fine degli anni ottanta si manifestò un allargamento dell'unionismo ai lavoratori non specializzati, i quali diedero vita a molte Unions che divennero presto simili alle precedenti Unions di mestieri specializzati, con le quali si associarono.
Con un tale passato, le Trade Unions si affacciano al XX secolo come un movimento sindacale organizzato in senso verticale con le associazioni nazionali e in senso orizzontale, ai vertici, con le associazioni interunionistiche; privilegia la contrattazione economica, avvalendosi dell'arma dello sciopero, presso le unità produttive o i luoghi geografici di produzione, di solito circoscritto al mestiere, e privilegia al centro l'azione politica in senso liberale e democratico; tende a essere legalitario specialmente al vertice, ed è disposto ad accettare - e in qualche caso a pretendere - una legislazione di sostegno; si esprime come riformismo e tende a considerare apolitica la Union (lo slogan è: ‟No politics within the Union") mentre le associazioni delle Unions possono esercitare pressioni politiche sul Parlamento.
È sulla base di quest'ultimo principio d'azione che, all'inizio del secolo, le Unions esprimono un partito, il Partito Laburista, che intendono come braccio politico dei sindacati e perciò dipendente da questi. Il 27 febbraio 1900 le Unions si alleano con tre formazioni politiche di sinistra, e precisamente la Federazione Socialdemocratica (fondata da Hyndman), la Fabian Society (fondata nel 1884), e il Partito Indipendente del Lavoro (fondato da J. K. Hardie nel 1893), per costituire un blocco elettorale che venne chiamato Labour representation committee; nelle successive elezioni del 1906, questo blocco elettorale ottenne un ragguardevole successo e, nello stesso anno, il comitato elettorale si trasformò in partito, assumendo il nome di Labour Party. Per statuto, gli organi direttivi del partito includevano rappresentanti delle Unions, talchè il rapporto organico sindacato-partito e la dipendenza del partito dal sindacato (più precisamente dalle associazioni orizzontali di vertice) risultarono codificati: implicitamente risultò codificata anche la scelta legalitaria, riformista, o favorevole alla legislazione di sostegno delle espressioni centrali di un sindacalismo che, alla base e in periferia, restava in gran parte sindacato di mestiere, apolitico, e con finalità di difesa e di rivendicazione economica di gruppi circoscritti dal mestiere o - nel caso degli unskilled workers - dalla singola unità produttiva o sede di lavoro (per esempio, docks di Londra, facchini di Liverpool).
d) Il sindacalismo riformista di classe
Il sindacalismo riformista di classe costituisce, nei primi decenni del secolo, il filone principale del sindacalismo europeo. Esso costituisce la risultante di due tradizioni che si intrecciano fittamente nella seconda metà del secolo precedente: da un lato la tradizione, prevalentemente ideologico-dottrinaria, del socialismo marxista, con la teorizzazione della divisione della società in classi e l'individuazione della classe proletaria come soggetto politico generale; dall'altro lato la tradizione, prevalentemente pratica, dell'associazionismo sindacale operaio con fini di resistenza economica e di contrattazione, su scala sempre più ampia, delle paghe. Si tratta perciò di un sindacalismo per il quale la base di aggregazione è la classe e il fine dell'azione sindacale è la rivendicazione economica; un sindacalismo che intrattiene fitti rapporti con formazioni politiche socialistiche, in particolare con quelle di indirizzo riformistico; che tende a darsi organizzazioni federative, sia orizzontali che verticali; che tende ad accettare, e talvolta a pretendere, una legislazione di sostegno.
Storicamente, il sindacalismo riformista di classe si identifica con il sindacalismo socialdemocratico dei paesi dell'Europa continentale, e in particolare con gli atteggiamenti nei confronti della natura e dei fini del sindacato elaborati dalla Seconda Internazionale. Nel Congresso costitutivo della Seconda Internazionale (Parigi, 14 luglio 1889) si fissò da un lato un collegamento tra sindacati e partiti socialistici e un collegamento internazionale orizzontale tra i partiti e i sindacati aderenti; dall'altro lato si fissarono i punti programmatici basilari, che caratterizzarono l'intero movimento in senso legalitario e riformista. Si decise di sostenere in tutti i paesi un programma di legislazione sociale a difesa del lavoro, e in particolare per la giornata lavorativa di otto ore. Il programma del sindacalismo socialista democratico venne poi precisandosi (non senza aspri dibattiti) lungo il corso della Seconda Internazionale, specialmente nei Congressi (del 1891 a Bruxelles, che espulse gli anarchici; del 1893 a Zurigo; del 1896 a Londra; del 1900 a Parigi; del 1904 ad Amsterdam; del 1907 a Stuttgart; del 1910 a Copenhagen; del 1912 a Basilea): ripudio dello sciopero generale e in genere delle armi sindacali miranti a determinare crisi economica; conquista del potere da parte del proletariato con strumenti di democrazia parlamentare e perciò attraverso la conquista della maggioranza; preparazione di quadri tecnici e amministrativi da parte dei sindacati; antimilitarismo e antibellicismo (a partire dal Congresso di Stuttgart). Ma, soprattutto, divenne caratteristica del sindacalismo riformista di classe la propensione a vedere nella contrattazione collettiva - contrapposta a quella individuale - del salario e dell'orario lo strumento principale dell'elevazione della situazione operaia e perciò l'arma principale del sindacalismo. Da quest'ultimo punto programmatico derivò, per tutto il movimento, un atteggiamento di estrema attenzione per l'organizzazione giuridica dei vari paesi, dato che i modi e le forme - e le possibilità operative - della contrattazione collettiva sono essenzialmente determinate dal diritto; e derivò anche un'accentuazione del programma federativo, con tensioni tra verticalismo e orizzontalismo anche in rapporto alla situazione giuridica dei vari paesi.
Nel caso italiano, all'inizio del secolo la tendenza federativa ebbe come esito la composizione e conciliazione delle tensioni tra orizzontalismo e verticalismo. L'orizzontalismo era caratteristico delle Camere del lavoro, che erano venute a organizzarsi a partire dal 1891, dapprima sul modello delle Borse del lavoro francesi e poco dopo differenziandosene attraverso l'accentuazione non solo della funzione di collocamento (tipica delle Borse francesi) ma anche di quelle rivendicative con connotati classisti. Il primo Congresso federativo delle Camere del lavoro si tenne a Parma nel 1893, dominato dalle figure di O. Gnocchi Viani e A. Cabrini, e decise di addivenire alla Federazione italiana delle Camere del lavoro, la quale si diede uno statuto col quarto congresso (Reggio Emilia, ottobre 1901). Le Camere del lavoro territoriali e a prevalenza contadina (gran parte delle leghe contadine aderivano alle Camere del lavoro) furono sin dall'inizio molto influenzate da esponenti del sindacalismo rivoluzionario. Il verticalismo era rappresentato dalle federazioni e sindacati di mestiere o, come si incominciava a dire, ‛di categoria', tra cui primeggiava per importanza la federazione dei metallurgici di chiara tendenza riformista. Per iniziativa di questa federazione fu preparato un Congresso per il coordinamento di tutto il movimento sindacale di classe (esclusi cioè i sindacati bianchi), che si tenne a Milano, nell'ottobre 1906, con la partecipazione di 58 Camere del lavoro e 14 federazioni (metallurgici, tessili, gasisti, muratori, litografi, panettieri, infermieri, calzolai, ceramisti, stovigliai, lavoratori dello Stato, lavoratori del legno, bottigliai, chimici e ferrovieri): al congresso fu fondata la Confederazione Generale del Lavoro, di cui fu segretario generale R. Rigola (sino al 1918, quando fu eletto L. D'Aragona). Gli scopi statutari della CGL furono del tutto aderenti all'indirizzo riformistico internazionale, e cioè promuovere e coordinare ogni iniziativa legislativa a favore dei lavoratori, sostenere il movimento di difesa economica dei lavoratori in stretta relazione con le federazioni e anche con le associazioni di società mutualistiche e cooperative, mantenere collegamenti a questo fine con tutti i partiti che svolgessero azione a favore della classe lavoratrice, escludendo rapporti organici privilegiati con un singolo partito, indirizzare tutti gli strumenti al miglioramento economico, morale e intellettuale dei lavoratori, sviluppare i vincoli di solidarietà di classe sul piano sia nazionale che internazionale. La CGL realizzò un effettivo coordinamento tra orizzontalismo e verticalismo, in cui prevalse l'elemento riformistico, legalitario, economistico e tendenzialmente apolitico che era proprio delle federazioni verticali; gli elementi rivoluzionari, peraltro, restarono nell'ambito dell'organizzazione, tanto che sino al 1918 gli esponenti del sindacalismo rivoluzionario, forti specialmente nelle Camere del lavoro, non si scissero organizzativamente.
e) Il sindacalismo rivoluzionario di classe
Un importante atteggiamento ideologico, che all'inizio del secolo ispirò larghi settori del movimento sindacale in Francia e in Italia, è il cosiddetto ‛sindacalismo rivoluzionario'. Alcuni aspetti dell'atteggiamento sindacalista rivoluzionario tendono a manifestarsi, entro i movimenti politici e sindacali europei continentali, in tutti i momenti di grave crisi delle istituzioni.
In quanto movimento sindacale effettivo, il sindacalismo rivoluzionario ebbe il periodo di massimo sviluppo in Francia tra il 1905 e il 1908, e fissò il suo programma nel Congresso sindacale di Amiens nel 1906; tale programma (conosciuto come Carta di Amiens) contiene i punti qualificanti del movimento: 1) il sindacato è della classe operaia e di tutta la classe operaia (dovere di ogni lavoratore di appartenere al sindacato); 2) il sindacato non ha rapporti con altre organizzazioni politiche ed è rispetto a esse indifferente (il lavoratore sindacalizzato è libero di ogni azione politica fuori dal sindacato ed è tenuto a sua volta a non introdurre nel sindacato le opinioni che egli professa fuori); 3) il sindacato tende a diventare organo della produzione e prefigura una società sindacale (‟il Sindacato, che oggi è organizzazione di resistenza sarà, nel futuro, l'organo della produzione e riproduzione, momento dell'organizzazione sociale"); 4) strumento essenziale dell'azione sindacale è lo sciopero generale.
In quanto ideologia, il sindacalismo rivoluzionario viene ricondotto, generalmente, al pensiero politico di Georges Sorel. Punto di partenza di Sorel è una concezione classista della società (di chiara origine marxista) rigorosamente binaria: le classi sono solo due, quella dei proletari e quella dei capitalisti. Da questa premessa scaturisce la conseguenza che non vi sono mai interessi né valori comuni alle due classi; l'azione degli organi della classe proletaria non può avere fini parziali o circoscritti, e non può trovare ‛alleati', ma deve essere totale e rivoluzionaria, mirando a sostituire il potere proletario al potere capitalistico. Perciò il sindacato, che è la società organica dei lavoratori, non può (se non vuole tradire la sua natura) avere fini di resistenza, economici, rivendicativi, ma deve avere fini politici generali. Il sindacato è una società totale, la società totale dei lavoratori, con la sua cultura e i suoi valori, le sue forme economiche e organizzative, che sono prodotto autonomo e spontaneo dei lavoratori. La rivoluzione (e l'azione sindacale, dato che sono la stessa cosa) è possibile attraverso il blocco del meccanismo generale di riproduzione capitalistica che si attua con lo sciopero generale: lo sciopero generale dà il via allo spontaneismo eroico del popolo, all'insurrezione popolare e, alla fine, all'espropriazione degli espropriatori.
Indipendentemente dalla fortuna effettiva del movimento, e dalla grande ma effimera influenza dell'ideologia soreliana in Francia e, soprattutto, in Italia nei primi due decenni del secolo, è necessario osservare come il sindacalismo rivoluzionario abbia messo in circolazione un modello di sindacalismo che è perdurante nella cultura europea continentale e che, in forme diverse, risorge continuamente: il modello secondo cui solo il sindacato rappresenta il lavoratore come salariato, solo esso esprime (autonomamente e spontaneamente) i valori e l'organizzazione del mondo del lavoro. Il sindacato è società totale che si contrappone allo Stato, non ha alleati, non ha rapporti con partiti, ecc.
Come abbiamo visto, in Italia elementi di un'ideologia sindacal-rivoluzionaria, molto vistosi nelle Camere del lavoro, restano sino a tutto il periodo bellico, e precisamente sino al 1918, entro l'organizzazione della CGL. Alcuni esponenti del sindacalismo rivoluzionario si sarebbero poi inoltrati per strade corporativistiche, come A. De Ambris nell'esperienza fiumana di D'Annunzio, e come F. Corridoni, E. Rossoni e M. Bianchi nel corporativismo fascista.
4. Tra le due guerre
a) Tendenza generale
Tra le due guerre si manifesta, in ordine al sindacalismo, una tendenza generale: la tendenza al depotenziamento politico del sindacato e all'imbrigliamento delle potenzialità eversive che il sindacalismo mostra rispetto ad altri soggetti politici. Questa tendenza generale mostra facce diverse sia nella teoria che nella pratica sindacale, in relazione ai contesti ideologici in cui la teoria viene elaborata e alle situazioni politiche in cui il sindacato si trova: ma la univocità di fondo, al di sotto delle varianze imposte dai condizionamenti del contesto, è impressionante.
Se si assume come criterio di classificazione l'ideologia, le varianti sono: a) la concezione del sindacato come organo del partito; b) la concezione del sindacato come organo dello Stato; c) la concezione del sindacato come strumento di contrattazione esclusivamente economica e sprovvisto di fini politici generali.
b) Il sindacato organo del partito
La tendenza generale al depotenziamento politico del sindacato, che prevale tra le due guerre, ha una delle più elaborate espressioni ideologiche (che diviene prassi dei sindacati che l'adottano) nella concezione leninista, e in generale comunista, delle funzioni del sindacato e dei rapporti tra il sindacato e il partito. Caratteristica del leninismo è la connotazione negativa di ogni spontaneismo nel conflitto di classe e di ogni aggregazione, nell'ambito del movimento dei lavoratori, che non sia saldamente inserita nel movimento comunista, cioè sotto la guida e il controllo dell'unico soggetto politico della classe, che è il partito. In base a questa ideologia, dal punto di vista dei lavoratori (così come è individuato nell'ideologia) tutto ciò che accade non solo ‛contro', non solo ‛fuori da', ma semplicemente ‛senza' il partito, è non solo ‛errore' ma addirittura ‛tradimento' della classe operaia. In questo modo tutta la fenomenologia sindacale viene spartita in due settori: il primo settore, che corrisponde a tutto il sindacalismo non comunista e non guidato o trainato dal sindacalismo comunista, è visto come strumento del sistema capitalistico; il secondo settore, che corrisponde al sindacato comunista o guidato da comunisti, è visto come strumento al servizio della strategia del partito, e perciò come non dotato di autonomia e fini propri, bensì malleabile esecutore e veicolo (cinghia di trasmissione) di qualunque parola d'ordine, anche contingente e temporanea, del partito.
Tale concezione del sindacalismo, evidentemente, comporta la più grande diversificazione nella pratica, a seconda delle situazioni in cui il partito si trova a operare. Nell'Unione Sovietica l'organizzazione sindacale diviene tutt'uno, di fatto, con l'organizzazione del lavoro e, dietro la facciata, il sindacato, ormai compiutamente istituzionalizzato, diviene vero e proprio organo dello Stato sovietico. Processo destinato a ripetersi, dopo la seconda guerra mondiale, in tutte le democrazie popolari. Nei paesi dell'Europa continentale non investiti dalla rivoluzione, la concezione leninista del sindacato diede luogo, ispirandole, a pratiche diverse in corrispondenza delle situazioni politiche. In un primo momento, nell'ambito dei movimenti comunisti si manifestarono tendenze al consiliarismo, cioè a strutture di democrazia di base più o meno plastiche rispetto alle sedi e ai modi della produzione: consiliarismo accettato in base alla prospettiva leninista solo in quanto, e sino a quando, strumento della politica del partito, ma ripudiato nella sua essenza autonomistica e spontaneistica. In Italia i comunisti restarono nella CGL, come minoranza e in opposizione alla dirigenza di L. D'Aragona, dall'ottobre 1918 allo scioglimento avvenuto in pieno regime fascista il 4 gennaio 1927, e ricostituirono una CGL clandestina, nel febbraio 1927, assieme ai socialisti. Tale sindacato clandestino operò peraltro poco come organismo del partito, e il suo carattere unitario fu il risvolto sindacale di una delle prime espressioni di una strategia dell'unitarismo propria del partito. Più tardi la strategia del partito si espresse nella parola d'ordine ‟entrare nei sindacati fascisti", di nuovo espressione di una linea nuova del Partito Comunista in Italia.
Anche al livello dell'associazionismo internazionale il sindacalismo comunista risentì delle differenziazioni che le diverse situazioni politiche imponevano alla strategia del Partito Comunista. Cosicché il legame associativo internazionale che fu deciso nel Secondo congresso della Terza Internazionale (luglio-agosto 1920) e che diede luogo alla cosiddetta Internazionale Sindacale Rossa (o Profintern), restò molto evanescente: la politica dell'Internazionale Sindacale Rossa era attestata sulla linea di far rimanere i quadri sindacali comunisti entro le organizzazioni sindacali esistenti nei vari paesi, creando in tali organizzazioni dei nuclei comunisti, che lavorassero in stretto contatto con i partiti comunisti (anche clandestini) al fine politico generale di sostenere il movimento di classe internazionale e perciò - concretamente - di aiutare il rafforzamento dell'Unione Sovietica. In tal modo il Comitato d'azione sindacale internazionale restava una mera facciata, mentre le strategie dei partiti comunisti, plastiche rispetto alle varie situazioni nazionali, dettavano il comportamento dei nuclei sindacali comunisti.
I fini sindacali di difesa economica dei lavoratori, in tal modo, diventano strumentali e ancillari, rispetto ai fini politici generali, nazionali e internazionali, dei partiti comunisti.
c) Il sindacato organo dello Stato
La tendenza a depotenziare il sindacato in senso politico, riassorbendolo nel quadro di altri soggetti politici, trova l'esito più compiuto nel corporativismo di Stato, che è proprio del regime fascista in Italia. Le origini del processo che porta al corporativismo di Stato vanno viste nell'ideologia sindacalista corporativista dei nazionalisti, e in particolare di A. Rocco. Dopo la guerra questi fece approvare dal Congresso nazionalista di Roma un documento molto interessante, nel quale si prospettava l'integrazione delle classi attraverso strumenti giuridici: si trattava cioè di delineare la struttura giuridica di un corporativismo autoritario. Il sindacato, non più di classe, doveva diventare ‟attraverso una robusta disciplina di tutte le classi produttrici, organizzazione integrale della produzione nazionale che ne racchiude in sé tutti gli elementi: gli organizzatori, i tecnici, i lavoratori manuali, uniti insieme dal legame indissolubile dell'interesse comune"; in tal modo, anche ‟gli insopprimibili organismi di classe, sottratti allo sfruttamento politico dei demagoghi professionali, trovano un'automatica composizione e disciplina, per assicurare la quale deve intervenire energicamente lo Stato". Tale composizione automatica, con l'ausilio di un intervento statale energico, avvenendo in forme giuridiche, avrebbe assicurato anche la soppressione della democrazia bollata di atomismo; infatti Rocco voleva ‟l'organizzazione legale delle classi produttrici e la loro partecipazione, come tali, alla vita dello Stato, eliminando il sistema democratico dell'atomismo suffragistico". Un importante documento corporativista del periodo è costituito dalla cosiddetta Carta del Carnaro, cioè dalla parte sociale degli Statuti della Reggenza del Carnaro di Gabriele D'Annunzio che è prevalentemente opera del sindacalista anarchico Alceste De Ambris, poi esule antifascista, e che può ricondursi al corporativismo politico e giuridico pluralistico. Dopo questo episodio, la storia delle dottrine e delle istituzioni corporativiste in Italia coincide con la storia delle dottrine e del regime fascista.
Il corporativismo fascista, come dottrina, consiste in gran parte nella giustapposizione del sindacalismo di Edmondo Rossoni e del nazionalismo autoritario di Alfredo Rocco. Le istituzioni corporative che progressivamente il regime fascista ha realizzato sono state condizionate non solo dalla matrice dottrinaria menzionata, ma anche, in larga misura, da ragioni politiche contingenti e occasionali.
Durante il 1921 si erano creati sindacati (misti) fascisti, in modo piuttosto vario. Nell'ottobre Rossoni aveva indetto un convegno a Ferrara per costituire un'organizzazione comune. Lo statuto del PNF del 27-12-1921 additava la corporazione come strumento della solidarietà nazionale per lo sviluppo della produzione. Nel Congresso di Bologna del gennaio 1922 si deliberò di ‟costituire in Corporazioni nazionali facenti capo a un organismo centrale dominante, l'Unione federale italiana delle Corporazioni, tutti quei sindacati il cui programma e la cui attività si informano sostanzialmente al programma e agli statuti del PNF". Si costituì così la Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali (che erano la corporazione nazionale del lavoro industriale, la corporazione nazionale del lavoro agricolo, la corporazione nazionale delle classi medie e intellettuali e la corporazione nazionale della gente di mare) e Rossoni ne divenne segretario. Idea fondamentale di Rossoni era quella di un sindacato strumentalmente misto, ideologicamente qualificato come fascista e politicamente unico. La qualificazione ideologica, in sé piuttosto imprecisa almeno nel 1922, si riassumeva nella caratteristica politica dell'unicità. Unicità voleva dire anzitutto che non doveva essere permesso altro sindacato oltre a quello fascista, e che il sindacato fascista si proponeva non già di assorbire, bensì di distruggere (non giuridicamente, ma di fatto) ogni altro sindacato. Nella riunione convocata da Mussolini al Grand Hotel di Roma il 15 dicembre 1922, i convenuti presero atto dell'annuncio di Rossoni secondo cui le corporazioni sindacali avrebbero assunto la qualificazione di ‛corporazioni fasciste' per evitare ogni tentativo di addivenire a un'unificazione sindacale entro un quadro istituzionale giuridico. Identiche preoccupazioni muovevano Rossoni durante i lavori della cosiddetta Commissione dei Diciotto (nominata dal presidente del Consiglio il 31-1-1923 per studiare i ‟rapporti fondamentali tra lo Stato e le forze che esso deve contenere e garantire", al fine di preparare un progetto di riforma costituzionale); egli non voleva il riconoscimento giuridico dei sindacati per timore della pluralità sindacale entro gli organi di diritto pubblico. Tuttavia l'evolvere della situazione politica doveva modificare in breve questo atteggiamento di Rossoni e del sindacato fascista. Infatti l'alleanza tra fascismo e industriali portava come conseguenza la permanenza dell'associazione degli industriali e la riduzione nei fatti del sindacalismo fascista a organizzazione poliziesca dei soli lavoratori. Con i due accordi tra Rossoni e gli industriali, quello di Palazzo Chigi del 20 dicembre 1923 e quello di Palazzo Vidoni del 2 ottobre 1925, le due parti contraenti, e cioè la Confederazione delle corporazioni fasciste e la Confederazione generale dell'industria italiana, si spartirono il monopolio sindacale riconoscendosi reciprocamente rappresentanti esclusivi dei lavoratori e dei datori di lavoro dell'industria. Il progredire del corporativismo giuridico doveva passare attraverso l'estinzione di fatto dei sindacati dei lavoratori non fascisti e la fascistizzazione della Confindustria. Ciò che avvenne nei mesi seguenti costituì il presupposto per il regime giuridico instaurato nel 1926. Nel 1926 apparvero, contemporaneamente, una disciplina giuridico-istituzionale e un documento ideologico, entrambi corporativisti ed entrambi fascisti, ma piuttosto diversi tra loro. Parte della confusione che ha regnato, e forse era all'inizio voluta da Mussolini, circa la natura del corporativismo fascista, deriva da questa diversità. Si tratta da una parte di un complesso di leggi che andarono subito in vigore (legge 3-4-1926, n. 563; R.D. 1-7-1926, n. 1130; R.D. 2-7-1926, n. 1131; circolare Rocco 26-4-1926 ai procuratori generali delle Corti d'appello), e dall'altra parte della cosiddetta Carta del lavoro, che era destinata ad acquistare vigenza come legge dell'ordinamento dello Stato solo con la legge 30-1-1941. Le leggi del 1926 prevedevano il riconoscimento giuridico (come persone giuridiche) di associazioni sindacali o dei lavoratori o dei datori di lavoro o dei liberi esercenti un'arte o una professione su base geografica (dal comune all'intera nazione), su presupposti tali da includere solo sindacati fascisti; i sindacati legalmente riconosciuti avevano facoltà di imporre un contributo annuo ai membri della rispettiva categoria anche non iscritti; avevano presidenti o segretari, approvati con regio decreto su proposta del ministro competente di concerto col ministro dell'Interno, e sempre revocabili; potevano concludere contratti collettivi con le controparti sindacali, e ai contratti era attribuita efficacia erga omnes. Le associazioni sindacali non riconosciute potevano - secondo la legge - continuare a esistere come associazioni di mero fatto (mentre, nei fatti, la violenza fascista impediva loro ovviamente di continuare a esistere). Le controversie relative ai rapporti collettivi di lavoro, sia giuridiche (su contratti esistenti) sia economiche, erano devolute a una magistratura speciale, cioè le Corti d'appello funzionanti come ‛magistratura del lavoro', e per i conflitti individuali questa magistratura funzionava da giudice d'appello. Si elevarono lo sciopero e la serrata a reato, che comportava per i capi e i promotori pene anche detentive.
Le corporazioni (non dotate di personalità giuridica in quanto organi dello Stato) dovevano, con decreto del ministro per le Corporazioni, stabilire organi di collegamento tra i sindacati. Presso il Ministero delle Corporazioni doveva essere costituito il Consiglio nazionale delle corporazioni. I dirigenti delle associazioni e delle corporazioni non sarebbero stati eletti, ma nominati dalle associazioni di grado superiore. Tutta questa bardatura giuridica funzionava nei fatti solo nel senso di abolire la libertà e pluralità sindacale e le libertà sindacali e di sciopero, e nel senso di consentire l'efficacia erga omnes di contratti collettivi elaborati tra associazioni sindacali contrapposte, di cui quella padronale era in grado di imporre le proprie condizioni.
La Carta del lavoro è invece un documento ideologico in cui si proclama che ‟la Nazione italiana è un organismo avente fini, vita, mezzi di azione superiori a quelli degli individui divisi o raggruppati che la compongono. È una unità morale, politica ed economica che si realizza integralmente nello Stato fascista" (art. 1); eleva il lavoro a dovere sociale (art. 2); consacra l'organizzazione giuridica corporativa (artt. 3-6); qualifica l'iniziativa economica privata come strumento dell'interesse nazionale e la rende responsabile di fronte allo Stato, funzionalizzando la proprietà e l'impresa (art. 7). Questo documento ideologico per alcuni anni restò un semplice proclama, anche ufficialmente.
L'organizzazione giuridica corporativa fu attuata compiutamente con la legge 5-2-1934, n. 163, che istituì le corporazioni in numero di ventidue e costituì il Consiglio nazionale delle corporazioni con potere normativo in materie non disciplinate da leggi o regolamenti. Successivamente le istituzioni corporative divennero elementi non solo amministrativi, ma anche costituzionali dello Stato. Con la legge 19-1-1939, n. 129, infatti, la Camera fu costituita dai componenti del Consiglio nazionale delle corporazioni, dai componenti del Gran Consiglio del fascismo e del Consiglio nazionale del PNF. La già citata legge 30-1-1941 attribuì alla Carta del lavoro carattere di espressione dei ‟principi generali dell'ordinamento giuridico dello Stato" in modo che costituissero il ‟criterio direttivo per l'interpretazione e l'applicazione della legge".
In effetti il Codice civile del 1942 si ispira, nel Libro del lavoro e nella sua architettura, alle espressioni corporativistiche della Carta del lavoro. In particolare, oltre al vero e proprio diritto corporativo, vanno ascritte all'ispirazione corporativista le discipline della proprietà e dei rapporti commerciali. Infatti la disciplina della proprietà scompare per lasciare il posto, nella stessa formulazione verbale, alla disciplina dei poteri del proprietario; mentre alla disciplina dell'atto di commercio viene sostituita la disciplina dell'imprenditore. In entrambi i casi si tratta di uno spostamento della disciplina dal momento oggettivo al momento soggettivo che, se sotto il profilo verbale si rifà a modi espressivi precedenti la codificazione napoleonica, sotto il profilo politico indica il diritto civile come disciplina dei rapporti tra soggetti inquadrati in corporazioni. La persistente vigenza del codice fascista, una volta travolto l'ordinamento corporativo, costringe i giuristi a sforzi di ginnastica mentale per dimostrare che la proprietà del codice del 1942 è simile a quella del vecchio codice, e che la disciplina dell'impresa non risponde alla logica della politica economica del fascismo.
Forme di reggimento corporativistico accentrato si ebbero, nel periodo del trionfo effimero dei regimi fascisti in senso proprio, in diversi paesi europei.
Sotto un certo aspetto, dottrine corporativiste circolarono nel movimento nazista e qualche istituzione corporativa ebbe un ruolo nella struttura del Terzo Reich: occorre tuttavia molta cautela nel parlare a questo proposito di corporativismo senza altre qualificazioni, perché si tratta di dottrine e di istituzioni piuttosto lontane da quelle fasciste italiane (v. nazionalsocialismo). Si tratta, in ogni caso, di dottrine e istituzioni circoscritte all'organizzazione del lavoro industriale, sulla linea della concezione organica dell'impresa che era tradizionale nella cultura tedesca anche dell'Ottocento: ma, per quanto concerne il concetto di ‛corpo', nella dottrina nazista l'unico vero ‛corpo' politico e giuridico era costituito dalla nazione tedesca e dal suo capo (Volk e Führer). L'organizzazione nazista del lavoro iniziò nel 1933 con una lega politica tra preesistenti associazioni di lavoratori e di datori di lavoro, chiamata Fronte del lavoro. Nel 1934 si ebbe una importante legge sulla organizzazione del lavoro nazionale, ispirata al principio secondo cui i rapporti tra i lavoratori di ciascuna impresa (Gefolgschaft) e il capo (Führer) dell'impresa stessa sono improntati alla ‛fedeltà'; tale fedeltà era garantita dalla presenza in ciascuna impresa di un ‛fiduciario per il lavoro' (Treuhänder der Arbeit) di nomina politica. Con la ‛cooperazione' di quest'ultimo organo venivano stipulati contratti di lavoro aziendali. Nel campo della produzione agricola fu istituita, sempre nel 1934, una corporazione nazionale mista comprendente tutti i fattori della produzione, e denominata Reichsnährstand.
In Portogallo, dopo l'ascesa al potere di Salazar, nel 1934, fu introdotto uno Statuto del lavoro nazionale che sotto veste di istituire associazioni di categoria si limitava a proibire lo sciopero e la serrata. Solo in senso molto lato si può parlare in questo caso di istituzioni politiche e giuridiche corporative mentre è palese che a un'ideologia genericamente corporativista autoritaria si è ispirato anche il regime di Salazar.
In Spagna venne elaborata una ideologia corporativista da Gil Robles, poi confluita con altri elementi a costituire l'ideologia del regime di Franco. Sotto il profilo giuridico-istituzionale, sono ispirate a principi corporativisti la Carta del 1938, detta Fuero del trabajo, e la nuova Costituzione spagnola.
Un'ideologia corporativista di stampo fascista fu elaborata da Manoilescu e presiedette al regime fascista instaurato dallo stesso Manoilescu in Romania.
d) Il sindacalismo contrattualistico
La tendenza a considerare il sindacato sprovvisto di fini politici generali, e a circoscriverne il funzionamento e i fini entro precise coordinate istituzionali, si manifesta anche nei paesi anglosassoni, quantunque in modi molto diversi da quelli del continente europeo. Da un lato, nei paesi anglosassoni, le teorizzazioni e le dottrine del sindacalismo sono andate nel senso di privilegiare finalità economiche; dall'altro lato, la struttura che si sono dati i sindacati in quei paesi è del tutto funzionale a operazioni di contrattazione economica.
Sul versante ideologico vediamo come i maggiori teorici del tradeunionismo inglese (la cui influenza fu massima tra le due guerre), i coniugi Sydney e Beatrice Webb, concepiscono il sindacato come strumento di difesa economica degli operai nell'ambito del mercato, e assumono che l'azione sindacale sia delimitata da una duplice compatibilità, quella con la produttività dell'impresa e quella con lo sviluppo economico generale: concezione evidentemente atta a delegittimare l'assunzione, da parte del sindacato, di fini politici generali in conflitto con quelli di altri - e più rilevanti - soggetti politici che dominano congiuntamente l'assetto del paese. Negli Stati Uniti, dopo il New Deal, vediamo formarsi quell'ideologia pancontrattualistica che troverà compiuta espressione teorica - nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale - negli scritti di S. Perlman, che costituiscono l'ideologia del cosiddetto business unionism.
In questa concezione, l'associazione sindacale nasce da una mentalità sindacale operaia la cui caratteristica principale è la consapevolezza della scarsità delle occasioni economiche (cioè, per gli operai, i posti di lavoro); il fine del sindacato è quello di monopolizzare la forza lavoro, a tutti i livelli (di azienda, di località, di settore), per negoziare i massimi vantaggi ottenibili e distribuire poi tali vantaggi - essenzialmente posti di lavoro e condizioni economiche del lavoro - tra i propri associati.
Una simile concezione delegittima il sindacato come portatore di interessi politici generali: la sola attività politica in senso stretto che un sindacato così concepito può svolgere, senza contraddire la propria ragion d'essere, è l'attività di gruppo di pressione anche nelle sedi di decisione politica; come, ad esempio, premere per commesse pubbliche a imprese fornitrici, in funzione dell'ottenimento di più posti di lavoro o di migliori paghe nel settore così favorito, ecc. In questa concezione, l'elaborazione di programmi politici generali, anche in materia economica, è addirittura repugnante alla natura del sindacato: cosicché la delegittimazione del sindacato come soggetto politico è elemento intrinseco dell'ideologia sindacale americana.
5. Il secondo dopoguerra
Nel secondo dopoguerra non è agevole, e probabilmente è impossibile, trovare una linea di tendenza generale sia nelle proiezioni ideologiche che nelle pratiche effettive del sindacalismo. Anzitutto la divisione del mondo industrializzato in due blocchi, caratterizzati da organizzazioni politiche radicalmente diverse, ha determinato una profonda divaricazione tra le rispettive realtà sindacali. Nell'Unione Sovietica permane la riduzione del sindacato a vero e proprio organo del regime, dello Stato e del partito, e il modello sovietico è stato replicato in tutte le democrazie popolari dell'Europa Orientale senza apprezzabili novità, se si eccettua il fenomeno, ancora in nuce e sui cui sviluppi non è ancora possibile fare ragionevoli previsioni, del sindacato autonomo e spontaneo polacco, chiamato Solidarność, il quale si colloca in evidente contrasto con il modello organizzativo impostato sulla concezione leninista del rapporto tra sindacato e partito. Nei paesi dell'Occidente europeo si sono avute esperienze molto diverse, anche in relazione alle molto differenziate situazioni politiche; sotto taluni profili, come in particolare quello della pluralità e concorrenzialità dei sindacati o dell'unità monopolistica dell'organizzazione sindacale, potrebbero individuarsi, per periodi determinati, linee di tendenza per gruppi di paesi, come da un lato i paesi latini e dall'altro le socialdemocrazie nordiche e la Germania Federale; o, al livello delle proiezioni ideologiche, potrebbero individuarsi linee di tendenza all'accettazione o al rifiuto di collaborazione di tipo cogestionario sulla dimensione di impresa, per gruppi di paesi. La pluralità di punti di vista partendo dai quali le esperienze reali e le proiezioni ideologiche del sindacalismo lasciano individuare aree distinte, nell'Occidente industrializzato, suggerisce di concentrare l'attenzione su tre linee di tendenza corrispondenti al sindacalismo di tre gruppi di paesi. E precisamente: il sindacalismo statunitense, il sindacalismo dei paesi del Nord Europa, il sindacalismo dei paesi latini.
a) Il sindacalismo statunitense
Il sindacalismo statunitense, la cui più articolata proiezione ideologica è, come si è ricordato, quella di S. Perlman, si caratterizza dal punto di vista strutturale soprattutto per l'alto grado di decentramento della sua azione, o - da altro punto di vista - per il radicato atomismo del sindacato. Quantunque associati su base federativa, i nuclei portanti del sindacato sono unità di fabbrica e, molto spesso, di fabbrica e di mestiere. La necessità di qualche struttura federativa, e il supporto delle grandi federazioni (AFLCIO), non sono tanto costituiti dall'opportunità di condurre politiche di vasto raggio o di organizzare l'amministrazione di fondi sindacali (anche se queste opportunità giocano un ruolo), bensì, principalmente, dal fatto che un gran numero di imprese operano in settori industriali diversi talché la contrattazione di impresa è inizialmente nella competenza disgiunta di sindacati diversi: ciò comporta la necessità di una qualche struttura federativa che consenta un'azione contrattuale unitaria per tutta l'impresa; di qui un limite all'atomismo che peraltro rimane la struttura portante di base.
Dal punto di vista dell'azione sindacale, il sindacato americano privilegia il contratto collettivo e in particolare il contratto di impresa. Il contratto è considerato il regolamento, a titolo esclusivo, di tutto l'insieme delle condizioni di lavoro, comprese quelle relative alle ferie, alle pensioni, alle assicurazioni contro le malattie, ecc., cioè anche quegli aspetti che nella tradizione organizzativa dell'Europa continentale sono stati oggetto di amplissima legislazione. In tal modo il sindacato americano ha di fatto assunto un atteggiamento di rifiuto non solo di ogni istituzionalizzazione, ma anche di ogni legislazione in materia di lavoro e addirittura di ogni legislazione sociale, per non parlare di una legislazione di sostegno dell'azione sindacale. A sua volta, questo atteggiamento del sindacato è stato determinante nell'evoluzione del sistema giuridico statunitense, che è caratterizzato da una quasi totale inesistenza di legislazione sul lavoro e da una efficientissima strumentazione della rapida esecutività di ogni azione legale fondata sul contratto.
Alla struttura marcatamente atomistica e al privilegiamento del contratto di impresa vanno collegati gli altri aspetti peculiari del sindacalismo americano. Il primo di questi aspetti è che il sindacato americano rappresenta e assume di rappresentare solo gli interessi dei propri associati, cioè non si pone come portatore di un interesse extrassociativo, come l'interesse dei lavoratori non sindacalizzati o l'interesse di tutti i lavoratori o l'interesse di una collettività comunque individuata o tantomeno un interesse di classe. Il secondo, direttamente dipendente dal primo, è l'inesistenza di una linea di politica generale del sindacato, il quale partecipa a tutti i livelli alla formazione di decisioni politiche, ma solo in qualità di gruppo di pressione non diverso dagli altri gruppi di pressione: di volta in volta il sindacato, come nucleo o come federazione, eserciterà pressioni per un programma autostradale, o per una pianificazione urbana, o per sovvenzioni alle industrie acrospaziali, e così via, per consentire migliori possibilità di contrattazione ai propri associati, perché essi partecipino ai benefici di un'impresa o delle imprese di un settore, ma sempre entro la prospettiva della contrattazione di più paghe, più posti, migliori condizioni, e mai in funzione di un programma politico generale. In questo quadro, il sindacalismo americano è autarchico, cioè non ha collegamenti organici con partiti politici, con i quali può però stabilire ragnatele di rapporti clientelari in quanto gruppo di pressione; non è, propriamente parlando, un sindacato ‛riformista' e non è nemmeno, in senso politico, un sindacato ‛partecipazionista'. Anche se gli effetti dell'azione sindacale sono talvolta di tipo corporativista, il sindacalismo americano non può nemmeno dirsi ‛corporativista' in alcuno dei significati abituali del vocabolo.
b) Il sindacalismo dei paesi del Nord Europa
Alcuni tratti comuni sono identificabili nelle organizzazioni sindacali e nelle ideologie (implicite e in molti casi anche esplicite) sui fini sindacali dei paesi del Nord Europa: cioè Austria, Repubblica Federale Tedesca, Olanda, Belgio, Danimarca, Svezia e Norvegia. I tratti comuni dei sindacalismi caratteristici di questi paesi vanno, in parte, riferiti alla tradizione storica, che è quella del sindacalismo socialdemocratico: ovunque i legami con i partiti socialdemocratici, quantunque di solito non istituzionalizzati, sono profondi; ovunque il sindacato si dà strutture federative tanto orizzontali quanto verticali; ovunque il sindacato è legalitario e riformista; ovunque il sindacato pretende e promuove - peraltro in modi diversi nei diversi paesi - legislazioni di sostegno; ovunque il movimento sindacale esprime nel suo seno tendenze verso l'istituzionalizzazione giuridica; ovunque si manifesta la tendenza del sindacato a partecipare a decisioni economiche sia nazionali che di impresa in una prospettiva sostanzialmente collaborativa, relegando il momento conflittuale nelle procedure di elaborazione delle decisioni; ovunque gli esiti dell'azione sindacale protratta per decenni hanno dato luogo a quelle strutture politiche che, in questi ultimi anni, molti studiosi designano compendiosamente (anche se con qualche equivoco) come neocorporativismo. È del tutto evidente che l'insieme di questi tratti comuni del sindacalismo nordeuropeo, quantunque geneticamente riconducibile alla tradizione del sindacalismo socialdemocratico, richiede - come condizione di possibilità - un sindacato di fatto monopolista e non una situazione di pluralità sindacale e di concorrenza tra sindacati o tra federazioni o confederazioni di sindacati; questa condizione di possibilità si è verificata nelle democrazie del Nord Europa, a differenza di quanto è avvenuto nei grandi paesi latini, Francia e Italia, nel secondo dopoguerra, e questa è probabilmente la seconda ragione (dopo quella del collegamento del più grande sindacato dei paesi latini con un partito comunista anziché con un partito socialdemocratico) della diversa evoluzione dell'esperienza sindacale nei due gruppi di paesi.
In linea generale si può dire che la tendenza del sindacalismo nordeuropeo, tanto nei fatti quanto nelle proiezioni ideologiche, sia riconducibile al modello seguente: 1) si accetta come fine sindacale lo stabilimento di un alto grado di cooperazione del sistema sindacale con altri soggetti politici, in particolare sistema-Stato e sistema-imprese, nell'elaborazione delle politiche economiche nazionali e nel sostegno della produzione; 2) si promuove, a tutti i livelli, un alto grado di istituzionalizzazione dei rapporti tra l'organizzazione sindacale e lo Stato, mediante la creazione di organismi pubblici stabili con la partecipazione di rappresentanti sindacali; 3) si stabilisce una dialettica tra organizzazione sindacale e un partito politico, di solito quello socialdemocratico, per cui il sindacato rafforza quel partito il quale, a sua volta, promuove riforme legislative e amministrative atte a potenziare e a moltiplicare gli organi pubblici a rappresentanza sindacale, anche con l'effetto di limitare - di fatto - i poteri del legislativo e del governo nonché del sistema dei partiti. In tal modo si esprime una linea di tendenza che è, in prospettiva, compiutamente corporativistica.
L'elemento su cui, nell'ambito del sindacalismo nordeuropeo, sembra potersi tracciare una distinzione riguarda il rapporto di integrazione decisionale del sindacato a livello di singola impresa. Ad esempio il sindacalismo belga e quello olandese, che sono tra i più ispirati da atteggiamenti partecipativi e di ‛collaborazione economica', tendono verso forme neocorporativistiche solo a livello di decisioni politiche macroeconomiche, in forma di consigli paritetici, ma non hanno, né forse vogliono, esperienze di cogestione a livello di impresa. Del tutto diverso è, a questo proposito, l'atteggiamento del sindacalismo tedesco che, essendosi trovato per ragioni storico-politiche, subito dopo la guerra, di fronte a istituti cogestionari in un settore industriale rilevante, li ha sostanzialmente fatti propri - sia pure non senza che si sviluppassero tensioni - e ha incluso il potenziamento e la diffusione della cogestione nel proprio quadro di riferimento ideologico. La genesi dell'esperienza di cogestione germanica va rintracciata in decisioni dell'autorità di occupazione inglese, nella cui zona era la Ruhr, relative alla gestione delle imprese carbosiderurgiche le cui dirigenze avevano sostenuto il regime nazista: l'autorità inglese chiamò una rappresentanza operaia a partecipare alle decisioni di impresa. Su questa base fu elaborata una proposta di legge sulla co-decisione (Mitbestimmung) che fu promulgata nel 1951 e che sanciva la presenza di una rappresentanza dei lavoratori paritetica nei consigli d'amministrazione delle società che esercitano imprese carbosiderurgiche (con l'aggiunta di un membro esterno nominato di comune accordo da capitale e lavoro); sanciva anche la presenza nella direzione aziendale, accanto al direttore o ai direttori, di un ‛direttore del lavoro' (Arbeitsdirektor) designato dal personale. Dopo la legge del 1951, con leggi successive, la cogestione fu estesa ad altri settori industriali. Non v'è dubbio che l'accettazione, da parte del sindacato, dell'esperienza cogestionaria abbia rinforzato a sua volta le tendenze ‛partecipative' già presenti nel sindacalismo germanico: così come la stessa organizzazione giuridica, e la cultura dei giuristi germanici, che tendono a privilegiare come valore la ‛pace sociale' e a deprivilegiare come fatto patologico il ‛conflitto', hanno senza dubbio assecondato e agevolato il prevalere nel sindacalismo germanico di uno spirito di collaborazione non solo a livello di decisioni macroeconomiche e di assunzione di responsabilità nell'elaborazione della politica economica nazionale, ma anche a livello di impresa.
c) Il sindacalismo dei paesi latini, con particolare riguardo al sindacalismo italiano
A differenza di quanto accade nei paesi del Nord Europa, nei paesi latini che nel secondo dopoguerra hanno regimi democratici, la Francia e l'Italia, esiste una pluralità di organizzazioni sindacali. In Francia il sindacalismo dei lavoratori confluisce, sostanzialmente, in due confederazioni orizzontali che sono rispettivamente la Confédération Générale du Travail (CGT), di ispirazione comunista e associata alla Federazione Sindacale Mondiale, e la Section Française de l'Internationale Ouvrière (SFIO). In Italia l'unità sindacale, che si era avuta durante la lotta al fascismo, ebbe breve durata: su questa vicenda vanno ricordati alcuni punti essenziali.
L'unità sindacale viene stabilita, sulla base di un'esigenza scaturita dalla comune lotta antifascista, con il cosiddetto Patto di Roma tra gli esponenti dei tre principali movimenti sindacali - e cioè il sindacalismo comunista (firmatario G. Di Vittorio), il sindacalismo socialista (firmatario E. Canevari) e il sindacalismo democratico-cristiano (firmatario A. Grandi) -, patto che si pretende firmato il 3 giugno 1944 (cioè ancora sotto l'occupazione tedesca), ma in realtà firmato qualche giorno dopo, il 9 giugno. Con tale patto si diede vita alla Confederazione Generale Italiana del Lavoro (CGIL) che adottò un programma molto generico proprio perché fosse unitario, proclamò la massima libertà di espressione al suo interno, l'assoluta indipendenza da ogni partito, la disponibilità a prendere tuttavia posizione su tutti i problemi politici che interessano la generalità dei lavoratori e, con accordo politico interno tra le componenti, si avviò verso una prassi di decisioni prese su basi paritetiche. Peraltro il carattere unitario della CGIL era profondamente insidiato da una serie di realtà oggettive tanto interne alla confederazione quanto esterne. Anzitutto, dal punto di vista dell'ideologia sindacale dei quadri, le tre componenti divergevano irrimediabilmente: a) le componenti comunista e socialista pensavano in termini di sindacalismo di classe, mentre la componente democratico-cristiana e specificamente cattolica rifiutava una concezione classista della società e perciò un sindacato ‛di classe'; le componenti comunista e socialista tendevano, allora, a vedere come fine solo immediato del sindacato la rivendicazione e la difesa economica dei lavoratori, e come fine ultimo la costruzione di una società diversa, e molti quadri comunisti e socialisti non escludevano, in prospettiva, lo strumento rivoluzionario, mentre la componente democratico-cristiana aveva alle spalle una storia di concezioni corporativistiche del sindacato e, parlando in prospettiva di ‛partecipazione agli utili' e di ‛trasformazione del proletario in proprietario', rifiutava in sostanza la finalizzazione a radicali mutamenti della società; b) la componente comunista accettava solo in funzione tattica la separazione del sindacato dal partito, nel senso che il partito voleva che il sindacato fosse unitario e la separazione costituiva il mezzo per ottenere un sindacato unitario, ma al fine di portare tutto il sindacato unitario sulle posizioni politiche del partito assecondandone le azioni anche contingenti, mentre la componente socialista non aveva nel suo bagaglio ideologico la stretta dipendenza del sindacato dal partito, e la componente democratico-cristiana aveva già - e la storia successiva lo mostra con chiarezza - la tendenza a esaltare (contro le pretese del partito democristiano e anche in taluni momenti contro i suggerimenti ecclesiali) l'autonomia del sindacato. In secondo luogo, lo stato di inferiorità numerica della componente democratico-cristiana nei settori industriali costituiva un'oggettiva causa di malessere. In terzo luogo, il vizio di origine dell'unità sindacale, di essere la proiezione sindacale di un momento di collaborazione politica dei partiti nella Resistenza, pesava sull'unità sindacale stessa rendendola sensibile alle sollecitazioni provenienti dall'esterno, cioè da un contesto politico in cui la collaborazione era destinata a venir presto meno.
L'unità sindacale venne meno quando, dopo lunghe polemiche, il 15 luglio 1948, gli undici membri democratico-cristiani del comitato direttivo della CGIL si riunirono nella sede romana delle Associazioni Cristiane dei Lavoratori Italiani (ACLI) e diedero vita a una nuova confederazione chiamata Libera Confederazione Generale del Lavoro (LCGIL). Il 4 giugno 1949 i lavoratori socialisti democratici (cioè aderenti al PSLI, nato con la scissione socialista) e repubblicani diedero vita a un'altra confederazione, la Federazione Italiana del Lavoro (FIL). Le due nuove confederazioni si fusero il 1° maggio 1950, dando vita alla Confederazione Italiana Sindacati Lavoratori (CISL), ma gran parte della base della FIL contestò i dirigenti, specialmente per le resistenze di molti lavoratori repubblicani e socialdemocratici a riconoscersi in una organizzazione a prevalenza cattolica, e ancor prima della fusione costituì, unendosi a un nuovo gruppo di espulsi dalla CGIL, una terza confederazione, l'Unione Italiana del Lavoro (UIL).
In tal modo, a partire dall'inizio del decennio cinquanta, l'esperienza italiana è caratterizzata dalla presenza di tre confederazioni, cioè di tre associazioni orizzontali a cui si rapportano le rispettive federazioni verticali di settore, la CGIL, la CISL e la UIL, che, concorrenziali tra di loro, danno vita a un genere particolare di pluralismo sindacale, su cui torneremo tra poco. A queste tre confederazioni si aggiunge, con scarsa consistenza numerica e senza importanza politico-sindacale anche perché costantemente emarginata dalle altre confederazioni, dalle associazioni padronali e dal potere politico, la CISNAL, che si collega al corporativismo fascista. Si sono inoltre avute, in tempi diversi, associazioni di tipo confederale tra sindacati autonomi di settore, o di particolari posizioni nel settore, che sono fiorite soprattutto nel pubblico impiego. Tuttavia si può dire che la storia del sindacalismo italiano in questo secondo dopoguerra si risolve sostanzialmente, senza residui, nella storia delle tre confederazioni menzionate per prime, sicché occorre considerare attentamente la loro struttura.
Le tre principali confederazioni sono strutturate come organizzazioni orizzontali di vertice rispetto alle unioni sindacali provinciali (le unioni provinciali che fanno capo alla CGIL conservano il nome tradizionale di Camera del lavoro); inoltre, sono anche strutturate come vertice di un'articolazione verticale che parte dai sindacati provinciali ‛di categoria', passa per le federazioni ‛di categoria' e termina, appunto, nella confederazione.
In altre parole, la confederazione è il vero punto di contatto dell'organizzazione orizzontale e di quella verticale, e tutta la strutturazione con cui il sindacato italiano si presenta alle soglie del decennio 1950-1960 è atta ad agevolare un modo di concepire il sindacato per cui l'elemento trainante, l'elemento che elabora la politica sindacale, è il vertice confederale: cioè atta a prefigurare un sindacalismo orizzontale nazionale. Inoltre va considerato il fatto che la divisione delle confederazioni sindacali dei lavoratori si era verificata essenzialmente sulla base delle ideologie politiche e partitiche dei dirigenti sindacali e degli stessi lavoratori affiliati, tanto che le confederazioni non solo aderivano a diverse associazioni internazionali (la CGIL alla Federazione Sindacale Mondiale, la CISL alla CISL internazionale), ma i rapporti con i partiti erano strettissimi (comunisti e socialisti - questi ultimi integralmente, all'epoca del fronte popolare e sino alla riunificazione socialista - nella CGIL, i democratico-cristiani nella CISL, quasi tutti i socialdemocratici e tutti i repubblicani nella UIL): anche sotto questo rispetto, dunque, era sollecitata una concezione dell'attività sindacale come guidata dai vertici e in funzione della politica generale nazionale. A tutto ciò si aggiunga che, per tutto il primo decennio considerato, il tasso di sindacalizzazione specialmente fuori dell'industria metalmeccanica del triangolo industriale era eccezionalmente basso, i quadri sindacali periferici molto sovente scarsi, poco sperimentati e soprattutto presi di peso dai partiti e messi a fare i sindacalisti, tanto che anche alle periferie della struttura orizzontale e alla base di quella verticale l'elaborazione di linee di attività sindacale, oltreché scoraggiata, era contrastata dalla pigrizia della ‛disciplina di partito'.
A un analogo risultato porta la considerazione di quali erano, nel decennio 1950-1960, gli sbocchi dell'attività sindacale. Nel periodo della crisi post-bellica e della ricostruzione, le sole effettive possibilità contrattuali erano offerte dalla contrattazione nazionale dei minimi di categoria. Ciò dipendeva in parte dalla strutturazione che si era dato l'associazionismo sindacale del padronato: esso era organizzato, tradizionalmente, in confederazioni orizzontali di vertice per grandi settori economici (Confindustria, Confagricoltura, Confcommercio) le quali confederazioni, attraverso sezioni distinte, trattavano contratti nazionali (metalmeccanico, tessile, ecc.).
Da tutto questo insieme di fattori deriva che il sindacalismo italiano nel dopoguerra sviluppò una concezione caratterizzata da estrema politicizzazione e stretto collegamento con i partiti, da assoluto verticismo orizzontale, da una visione dell'attività contrattuale come limitata alla contrattazione nazionale dei minimi in situazione di oggettiva debolezza, da inesistente - anche se non colpevole - presenza sui posti di lavoro e scarso contatto con il mondo del lavoro. La mobilitazione di massa, inoltre, da parte della più grande confederazione, la CGIL, venne sovente sollecitata e attuata per questioni del tutto irrelate alla difesa sindacale dei lavoratori (contro l'entrata nella NATO, per protesta contro la visita di Eisenhower, ecc.). A causa delle pesanti discriminazioni, il solo punto veramente riconducibile a una strategia sindacale fu, per la CGIL, la lotta contro la discriminazione del lavoratore, e specialmente del sindacalista, nel lavoro e dal lavoro.
A questa situazione di fatto e a questa ideologia implicita nell'azione sindacale si manifestò una reazione, prima a livello delle elaborazioni ideologiche e successivamente a livello della prassi, da parte delle dirigenze della CISL, nel periodo intercorrente tra la fine degli anni cinquanta e l'autunno caldo del 1969. Si tratta di una nuova elaborazione ideologica, basata su alcune ragioni attinenti al contesto sociopolitico. Anzitutto, le dirigenze cisline divengono sempre più insofferenti delle pretese che il partito democratico-cristiano e i governi democratico-cristiani avanzano, di guidare l'azione sindacale della CISL piegandola a ragioni di politica governativa contingente e impedendo così un'efficace concorrenza, a livello puramente sindacale, nei confronti del sindacato socialcomunista.
Su tale insofferenza si innesta tutta un'elaborazione dottrinale relativa alla necessaria ‛autonomia' del sindacato dal partito e all'incompatibilità tra cariche di partito e cariche di sindacato, che viene a caratterizzare nettamente la CISL come sindacato apartitico ed elaboratore di strategie sindacali irrelate alle contingenze partitiche. In secondo luogo, le dirigenze cisline abbandonano ogni richiamo alle ideologie corporativistiche tradizionali del sindacalismo cattolico e accentuano le caratteristiche del sindacato secondo precise finalità di difesa e di progresso dei lavoratori essenzialmente sotto il profilo economico. In terzo luogo, di fronte a uno sviluppo economico notevole ma concentrato in alcune regioni del paese e in alcuni settori dell'industria, le dirigenze cisline percepiscono che da un lato, nelle zone favorite, i lavoratori possono ottenere attraverso l'azione sindacale di più, e dall'altro lato la generalizzazione dei vantaggi dei lavoratori favoriti a tutto il territorio nazionale e a tutti i settori avrebbe determinato una crisi economica ovvero innescato un processo di desindacalizzazione. Per uscire da simile dilemma e offrire un'alternativa programmatica, rispetto a quella del sindacato socialcomunista, le dirigenze cisline elaborarono la strategia, e poi inaugurarono la prassi, del contratto collettivo di impresa; in ciò furono agevolate da un parallelo manifestarsi di propensione al contratto collettivo di impresa da parte del sindacato dei datori di lavoro Intersind, che era venuto a inquadrare le imprese a partecipazione statale del gruppo IRI (a prescindere dal settore di produzione) dopo il distacco delle partecipazioni statali dalla Confindustria.
Con il contratto collettivo di impresa si realizzò l'articolazione della contrattazione collettiva, basata su due livelli, e cioè il contratto nazionale di categoria e il contratto di impresa, con un sistema di rinvii dall'uno all'altro e con un principio di avvicinamento del sindacato alla singola impresa: articolazione della contrattazione alla quale furono inevitabilmente trascinate anche le altre confederazioni. In quarto luogo, le dirigenze cisline manifestarono diffidenza e rifiuto rispetto allo strumento legislativo, e in particolare di fronte a ogni legislazione di sostegno, come corollario della divaricazione tra azione sindacale autonoma articolata e contrattualista da un lato e azione partitica dall'altro lato. Come è evidente, simile concezione e simile prassi erano solidali con un adattamento alla situazione italiana del modello contrattualistico americano secondo le teorizzazioni di Periman lette attraverso gli occhiali del professor G. Giugni, che fu il teorico e l'ispiratore di questa elaborazione strategica della CISL anche attraverso la scuola quadri di questa confederazione in Firenze. Il successo di questa linea comportò, per il sindacalismo italiano, oltre all'articolazione della contrattazione, anche un'accentuazione del verticalismo e dell'importanza delle federazioni rispetto alle confederazioni.
Questo nuovo modello di sindacalismo sarebbe stato destinato a realizzare da un lato una depoliticizzazione del sindacato rispetto alla politica economica nazionale oggetto di deliberazione parlamentare e dall'altro lato un'assunzione di responsabilità economica, un atteggiamento di partecipazione e di collaborazione in vista di vantaggi contrattati per i lavoratori a livello di impresa. Tuttavia questa linea di sviluppo era destinata a essere interrotta sul nascere dalla profonda modificazione del mondo del lavoro avvenuta dopo il 1969. Un altro elemento ostativo della linea di sviluppo del modello cislino era costituito dalla tendenza all'unità sindacale che, per ovvie ragioni di aggregazione rivendicativa, era venuta manifestandosi nelle tre confederazioni, con un processo di intese progressive, a partire dal 1966: tendenza unitaria che era destinata a rafforzarsi in seguito alle vicende dell'autunno caldo.
A partire dalla fine del 1966 si manifestano tra i lavoratori dell'industria, prima sporadicamente poi con frequenza sino a divenire generalizzati nel 1969, comportamenti di lotta sindacale particolarmente duri e talora - come nel caso del sabotaggio e del danneggiamento - palesemente illeciti, non solo al di fuori ma contro la volontà delle centrali sindacali; su questi comportamenti si innestano, in rapporto di interrelazione a doppio senso, elaborazioni dottrinarie e predicazioni di movimenti intellettuali di estrema sinistra che teorizzano l'‛autonomia dei comportamenti della classe operaia' rispetto non solo allo Stato, ma anche ai sindacati confederali, che vengono concepiti e additati come strumenti della repressione di classe. Attorno al 1969 si generano spontaneamente, all'interno delle singole unità produttive, nuove entità sindacali come i delegati di linea, di squadra e di reparto, e i comitati unitari di base: si tratta di una proliferazione di forme di auto-organizzazione di base che non si inquadra nelle organizzazioni sindacali esistenti. Le confederazioni e le federazioni tentano di assumere il controllo di queste nuove entità sindacali spontanee attraverso diversi strumenti, di cui il principale è un'ulteriore articolazione della contrattazione collettiva, attuata imponendo alla controparte nei contratti il riconoscimento delle nuove unità di base e il rinvio a esse per ulteriori livelli di microcontrattazione; e il sussidiario è la spinta alla omogeneizzazione di queste unità sindacali di base in una istituzione generalizzata che è il consiglio di fabbrica.
Ma la necessità di penetrare nella fabbrica induce il sindacalismo confederale ad accettare la legislazione di sostegno del sindacato che i successivi ministri del Lavoro Brodolini e Donat Cattin venivano affannosamente preparando (con la consulenza di Gino Giugni): si trattava dello Statuto dei lavoratori, legge 20 maggio 1970, n. 300, che tra l'altro prefigurava un'ulteriore entità sindacale e cioè la ‛rappresentanza sindacale aziendale' (delle confederazioni o di associazioni non confederali firmatarie di contratti collettivi nazionali o provinciali).
Tutta questa serie di fenomeni, anche dopo spenta la carica anarco-sindacalista e rivoluzionaria del 1969-1970, hanno determinato conseguenze di notevole portata nel sindacalismo italiano. In particolare un nuovo incremento del verticalismo e l'articolazione sino a livello di fabbrica; inoltre la riassunzione, da parte delle confederazioni e del vertice unitario delle tre confederazioni, di fini di politica economica generale (casa, trasporti, scuola, sanità, Mezzogiorno), anche per rispondere in termini di politica economica generale alle dirompenti pressioni della base sindacale. Dal punto di vista della sociologia delle organizzazioni va inoltre rilevato come, a partire dal 1970 e con il riassorbimento dei movimenti di base nelle confederazioni, progressivamente il personale sindacale delle federazioni, a livello di quadri intermedi, è venuto a essere formato in larga parte da personale di origine anarco-sindacalista (quantunque riciclato), tale da portare nel sindacato una mentalità diffusa favorevole a un esasperato conflittualismo.
L'assunzione di fini di politica economica nazionale, da parte del sindacalismo confederale, si è tradotta in forme e formule di tipo vertenziale e conflittuale. In questo senso non può dirsi che il sindacalismo italiano manifesti una tendenza verso modelli neocorporativistici simili a quelli del sindacalismo nordeuropeo: apparentemente, a partire dal 1970, i sindacati confederali individuano nel governo non un interlocutore ma una ‛controparte' verso cui avanzare rivendicazioni trasferendo la propria forza contrattuale nel sistema politico ed esercitando, rispetto ad altri soggetti politici, funzioni di supplenza ovunque possibile. In senso diverso potrebbe essere valutata la sempre più massiccia partecipazione del sindacato a organi amministrativi: la partecipazione maggioritaria alla gestione dell'INPS, i rappresentanti sindacali nei consigli d'amministrazione di aziende statali (Poste e Telecomunicazioni, Ferrovie) e di enti dell'amministrazione periferica. Si tratta, almeno nelle forme, di una rete di canali di partecipazione del sindacato al controllo e alla gestione della spesa pubblica, che esso cerca di potenziare e di ampliare, tanto da dare l'impressione che si sia in presenza di una vera e propria strategia di partecipazione collaborativa almeno per quanto riguarda il settore pubblico dell'economia: peraltro la strategia non è esplicitata e l'attività delle rappresentanze sindacali negli organi di gestione sembra limitata da una visuale ristretta alla considerazione degli interessi del personale degli enti.
Il fiorire di sindacati autonomi, oramai non solo nel pubblico impiego, che sono evidentemente portatori di interessi settoriali e corporativi e non sono inclini a strategie di tipo neocorporativistico, conforta l'impressione che il sindacalismo dei paesi latini, e quello italiano in modo particolare, non si muova, attualmente, verso schemi e modelli affini a quelli propri del sindacalismo nordeuropeo.
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