Sindacalismo
Al principio del 21° sec., il movimento sindacale italiano era appesantito da divisioni, polemiche e faticose ricuciture. Fu una fase contrassegnata, in coerenza con gli orientamenti dei governi di centrodestra, dalla fine di quella concertazione che aveva caratterizzato gli anni Novanta del secolo precedente, attraverso estesi accordi triangolari tra governo, imprenditori e sindacati. Questi ultimi erano impegnati soprattutto in grandi movimenti di resistenza, più che in iniziative e rivendicazioni innovative. Trovavano così una seria difficoltà sia a riproporsi come importante interlocutore politico, sia ad affermarsi come autorevole soggetto contrattuale in un mondo del lavoro sempre più frammentato e trasformato.
Il principale ostacolo nei rapporti intersindacali fu dapprima il contratto separato per un'importante categoria, vale a dire quella dei metalmeccanici. Nel luglio 2001 (come poi nuovamente nel 2003) la FIOM (Federazione Impiegati Operai Metallurgici), in contrasto con FIM-CISL (Federazione Italiana Metalmeccanici) e UILM-UIL (Unione Italiana Lavoratori Metalmeccanici), non accettò l'intesa, denunciò la scarsità delle offerte salariali avanzate dalla Federmeccanica (Federazione Sindacale dell'Industria Metalmeccanica Italiana) e propose, senza esito, un ricorso al referendum tra i lavoratori. Infine predispose una campagna per ottenere accordi di risarcimento, con proprie azioni rivendicative, all'interno delle diverse imprese.
Un anno dopo, nel luglio 2002, si aprì una frattura ancora più grande. Questa volta non si trattava di sindacati di categoria, ma delle stesse confederazioni: la CISL (Confederazione Italiana Sindacati Lavoratori) e la UIL (Unione Italiana del Lavoro) siglarono con il nuovo governo di centrodestra presieduto da S. Berlusconi un accordo complessivo denominato Patto per l'Italia. Questo accordo rappresentava il punto di arrivo della linea di condotta adottata dalla coalizione di centrodestra vincitrice delle elezioni del 2001, che, sin dal convegno svoltosi il 16 marzo dello stesso anno a Parma, aveva stretto un'alleanza (che assunse il nome, appunto, di Patto di Parma) con la nuova Confindustria (Confederazione Generale dell'Industria Italiana) presieduta da A. D'Amato. L'11 ottobre 2001 il nuovo ministro del Welfare, R. Maroni, presentò alle parti sociali un Libro bianco sul mercato del lavoro in Italia, redatto con la collaborazione di un gruppo di studiosi tra i quali il professor M. Biagi, che aveva prestato la sua opera anche nell'ambito di governi di centrosinistra. Il volume delineava alcuni interventi complessivi nel mercato del lavoro e abbandonava esplicitamente il metodo della concertazione con imprenditori e sindacati nell'affrontare i problemi sociali. Si preferiva parlare di dialogo, di consultazione. Emergeva altresì evidente il tentativo di dividere le rappresentanze del mondo del lavoro, puntando a un isolamento della CGIL (Confederazione Generale Italiana Lavoratori). Un'ambiziosa volontà che si innestava nel clima di aspra tensione presente nel Paese: nel luglio, in occasione di una riunione del G8 a Genova, i manifestanti no global si erano scontrati con le forze dell'ordine e un giovane, C. Giuliani, era rimasto ucciso; nel settembre si era verificata l'immane tragedia dell'attentato alle Twin Towers di New York.
Il 5 luglio 2002 avvenne la firma separata del Patto per l'Italia. I commenti favorevoli di CISL e UIL erano indirizzati a sottolineare come in tal modo venisse salvaguardato il metodo della concertazione tra le parti sociali. Non era questo il parere della CGIL che puntava l'indice, tra l'altro, sulla formula adottata nell'accordo riguardo all'art. 18 dello Statuto dei lavoratori, la norma che impone all'imprenditore di un'azienda con più di quindici dipendenti (o di cinque nel caso delle aziende agricole) di reintegrare un lavoratore licenziato senza una giusta motivazione. I toni della polemica furono altissimi. S. Cofferati (eletto segretario della CGIL dopo B. Trentin) definì "scellerata" la scelta di CISL e UIL, mentre il segretario della CISL S. Pezzotta (succeduto a S. D'Antoni) accusò Cofferati di voler strumentalizzare la tutela dei lavoratori per ambizioni politiche personali.
Lo scontro si fece più pesante con l'irruzione, nello scenario politico-sindacale, del terrorismo brigatista. Il 19 marzo, Biagi, lo studioso che aveva collaborato alla stesura del Libro bianco, venne assassinato a Bologna. Una morte terribile che ricordava quella di altri intellettuali, tutti studiosi dei problemi del lavoro, come M. D'Antona ed E. Tarantelli. Nel Paese una polemica aspra, attraverso alcuni organi di stampa e commenti di esponenti governativi, puntò l'indice sulla CGIL di Cofferati, accusata quasi di fomentare il ritorno a forme delittuose. Nonostante tale strumentale scenario, il principale sindacato italiano decise di ricorrere a una forma di protesta di massa, che ebbe luogo a Roma al Circo Massimo, con tre milioni di partecipanti secondo gli organizzatori (ma 700.000 secondo la questura): un evento che rappresentò (a prescindere dai dati diversi sull'entità della partecipazione) la più grande manifestazione sindacale del dopoguerra. Le parole d'ordine principali furono dirette contro il terrorismo (con riferimento all'assassinio di Biagi) e contro la modifica dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori.
La battaglia su questa norma venne collocata dalla CGIL nell'ambito dei diritti della persona in generale, dei diritti di libertà e di dignità. Essa mobilitò le strutture del sindacato, come in altre più eccezionali occasioni del dopoguerra, e raccolse l'adesione di numerosi intellettuali nel campo di sinistra.
La modifica dell'art. 18 - poi mai ridimensionato come era nelle prime intenzioni - non fu l'unica scelta perseguita dal governo. Un più completo intervento sui vari aspetti del mercato del lavoro arrivò con il varo della l. 30 (14 febbr. 2003) formulata sempre in collegamento al Libro bianco. Si trattava di un insieme di norme, poi entrate nel linguaggio comune come legge Biagi, che prevedevano, tra l'altro, una moltiplicazione delle forme contrattuali flessibili adottabili dagli imprenditori. L'obiettivo del governo era quello di favorire così l'aumento dell'occupazione e il superamento dei rapporti di lavoro irregolari, nonché di abbassare i costi per i datori di lavoro. Anche su questo provvedimento le forze sindacali si divisero. Apparve più ottimista la CISL, che colse alcuni aspetti positivi, per es., nel passaggio dal 'contratto coordinato continuativo' (i cosiddetti Co.Co.Co.) al 'contratto a progetto' o nelle misure relative agli 'enti bilaterali' (tra imprenditori e sindacati) per il governo del mercato del lavoro. Un rifiuto netto venne opposto invece dalla CGIL, che denunciò da subito il rischio di una profonda precarizzazione dei rapporti di lavoro.
Centrale, in questi anni, fu la figura di Cofferati, un leader sindacale che acquistò notorietà e vaste adesioni nel mondo della sinistra in generale per il suo ruolo intransigente nella guida di un movimento assai ampio. La CGIL, di fronte alla crisi dei partiti e alle loro divisioni, sembrò porsi alla testa dell'opposizione al governo di centrodestra: secondo alcuni si trattò di una sorta di 'supplenza politica'. E furono numerosi, nella sinistra, ad auspicare un passaggio dello stesso leader della CGIL nel campo più propriamente politico: ciò che avvenne, in una certa misura, allorché Cofferati accettò di concorrere alle elezioni per il comune di Bologna, dove venne eletto sindaco. Gli successe nella CGIL G. Epifani, nominato il 20 settembre 2002. La novità di questa scelta stava nel fatto che per la prima volta ad assumere tale carica era un dirigente proveniente dalle file socialiste.
Allo stesso tempo nella CISL acquistò autorevolezza Pezzotta, eletto nel dicembre 2000, mentre nella UIL il posto di P. Larizza fu preso da L. Angeletti. Il sindacato dalla forte componente cattolica fu costretto ad affrontare prove non facili, per cercare di mantenere fede alla propria vocazione autonoma e contrattualista, nonché orientata alla partecipazione. La fiducia posta nel governo di centrodestra, anche attraverso la firma del Patto per l'Italia, non trovò in seguito le necessarie conferme. Il governo dimostrò di non considerare i sindacati come veri interlocutori con i quali predisporre le scelte economico-sociali più importanti, per es., in occasione delle annuali discussioni sulla legge finanziaria o nella definizione del tasso di inflazione, il parametro per le richieste salariali delle diverse categorie. La reazione della CISL, accanto a quelle di CGIL e UIL, sarà sempre più improntata a durezza, anche se meno propensa all'uso dello sciopero. Non meno facili le prove per la CGIL di Epifani. Tra queste occorre citare il nuovo contratto separato per i metalmeccanici (maggio 2003) e il referendum sull'art. 18 (giugno 2003). Una scelta voluta dal Partito della rifondazione comunista e dalla FIOM, mentre la CGIL finì con lo schierarsi per il 'sì'. L'obiettivo era quello di estendere l'articolo che il governo intendeva ridimensionare anche alle aziende con pochissimi occupati. Ma il quorum necessario non venne raggiunto: l'affluenza fu del 25,7%, i 'sì' furono 10.245.809 (l'87,4% del totale).
La gestione di Epifani, favorita dall'incapacità del governo di costruire rapporti positivi con le organizzazioni sociali, portò a un dialogo più intenso con le altre confederazioni. L'ultimo sciopero generale proclamato dalla sola CGIL ebbe luogo il 18 ottobre 2002, mentre nel 2003, dopo un secondo contratto separato per i metalmeccanici, ritornò la stagione degli accordi unitari con un'intesa sulla competitività siglata tra Confindustria, CGIL, CISL e UIL. Nel testo concordato si tratta nuovamente di politica dei redditi e di un orientamento comune per evitare il declino dell'apparato produttivo italiano. Lo stabilirsi di nuovi rapporti tra le parti sociali sarà favorito poi dall'ascesa alla presidenza della Confindustria di L. Cordero di Montezemolo al posto di D'Amato: una scelta che mirava al dialogo con i sindacati, CGIL compresa, e al recupero del metodo della concertazione.
L'accentuarsi della crisi economica, accompagnata al fenomeno del carovita, diede adito, nei primi anni del 21° sec., a una serie di azioni sindacali settoriali ma fortemente combattive. Fu il caso degli operai della FIAT, a Torino e a Melfi, impegnati in una serie di iniziative di protesta per le proprie condizioni di lavoro e di difesa e rilancio della casa automobilistica, in quel momento in grave difficoltà. E fu il caso dei lavoratori delle Acciaierie di Terni, alle prese con disegni di ridimensionamento. Sono solo gli esempi più eclatanti, connessi a un tessuto ind ustriale che mostrava ogni giorno segnali di cedimento. Altre esplosioni di protesta si registrarono poi nei servizi, spesso per un prolungato ritardo nel rinnovo dei contratti di lavoro. Così tra gli autoferrotranvieri, nei trasporti in generale e tra i lavoratori pubblici, scuola compresa. Molte di queste vicende spinsero i sindacati a una riflessione circa la necessità di dar vita a un nuovo modello contrattuale, da costruire sulla base di quello stabilito nel lontano 1992-93, che aveva abolito la scala mobile per recepire due livelli di contrattazione, nazionale e aziendale.
La CISL fu impegnata in modo particolare in questa elaborazione. Lo scopo era tra l'altro quello di ottenere una dilatazione della contrattazione nei territori in cui maggiore era il numero delle piccole aziende non soggette, data la scarsa presenza sindacale, agli accordi integrativi, ovvero al secondo livello di contrattazione. La CGIL non rifiutò la discussione su tale tematica, manifestando però una costante preoccupazione sul possibile rischio di passare a un ridimensionamento del peso del contratto nazionale. Tutto ciò a scapito del lavoro collocato nel Mezzogiorno, in zone dove era pressoché assente la contrattazione sindacale.
Prese il via in questo stesso periodo un dibattito concernente il rapporto tra movimento sindacale nel suo insieme e il bipolarismo politico instaurato nel Paese (la cosiddetta seconda Repubblica). La scomparsa dei partiti tradizionali (il PCI, Partito Comunista Italiano; la DC, Democrazia Cristiana; il PSI, Partito Socialista Italiano; il PRI, Partito Repubblicano Italiano) e la nascita di nuovi soggetti politici poneva nuovi problemi alle tre principali confederazioni sindacali: non perché prive di una loro autonomia faticosamente conquistata, ma perché tutte e tre avevano intessuto nel passato un rapporto dialettico con il mondo della politica trovando interlocutori adeguati. La nuova geografia politica complicò tale interlocuzione e la via d'uscita parve essere quella, certamente difficoltosa, di un'adeguata elaborazione programmatica autonoma da poter mettere a confronto con lo schieramento politico.
In vista delle elezioni del 2006, tuttavia, e di fronte a un bilancio economico-sociale considerato assai negativo, la CGIL (non seguita in questa strada dalla CISL) preferì aggiungere al confronto programmatico una propria preferenza esplicita per lo schieramento di centrosinistra. La CISL, nel congresso svoltosi nel 2005, riconfermata la leadership di Pezzotta, condivise in larga misura il giudizio della CGIL sul bilancio economico-sociale, marcando però alcune differenze. La l. 30, che aveva rivoluzionato il mercato del lavoro, secondo il sindacato guidato da Epifani andava cancellata, mentre secondo l'organizzazione guidata da Pezzotta era solo da correggere. Sempre nel congresso della CISL venne in qualche modo sancito l'addio a un'ipotesi di unità sindacale organica e si scelse la formula del 'pluralismo convergente', mentre la CGIL, annunciando il congresso del 2006, propose la stesura di una carta dei valori comuni fra le principali confederazioni. L'assise della CGIL si preannunciava all'insegna di un rafforzamento dell'unità interna, poiché le tesi erano state votate dal gruppo dirigente senza eccezioni, mentre venivano sottoposti al vaglio congressuale emendamenti sui temi della democrazia e della contrattazione: si trattava di correzioni firmate dalle aree considerate più a sinistra, da una parte quella guidata da G. Rinaldini, segretario generale della FIOM, e dall'altra quella guidata da G.P. Patta, membro della Segreteria confederale della CGIL.
Non è facile individuare le prospettive possibili del s. italiano, costretto a fare i conti con i fenomeni della globalizzazione, della tumultuosa trasformazione del lavoro, nell'impatto con un sistema politico molto ondivago. È da segnalare a questo proposito l'iniziativa, affidata al coordinamento di un dirigente sindacale italiano, E. Gabaglio (già segretario generale della Confederazione europea dei sindacati), per la costruzione di un'unica organizzazione sindacale internazionale con la partecipazione della CISL internazionale (Confédération Internationale des Syndicats Libres), nella quale già era presente la CGIL, nonché della CMT (Confederazione Mondiale del Lavoro) e di numerose organizzazioni sparse nei vari continenti e che non aderivano a nessuna centrale.
Tra le sfide che mettono alla prova il s. nel 21° sec. secolo una fondamentale riguarda il crescente mutamento della composizione del mondo del lavoro. Le cifre relative alle dimensioni del fenomeno in Italia sono spesso oscillanti e imprecise. Il rapporto ISTAT 2005 riferisce di due milioni di lavoratori non standard, cioè non facenti parte dell'esercito dei lavoratori regolari. Tra questi l'ISTAT cita 650.000 collaboratori, 150.000 lavoratori in somministrazione (i lavoratori 'in affitto', un tempo chiamati interinali), e 110.000 prestatori d'opera occasionali. La Corte dei Conti espone dati diversi, stimando in almeno 200.000 i collaboratori nella sola pubblica amministrazione, università e ricerca escluse. Resta il fatto che dal 1999 al 2003 gli iscritti al fondo INPS parasubordinati, secondo i dati forniti dalle NIDIL-CGIL (Nuove Identità di Lavoro) - l'organizzazione che insieme all'ALAI-CISL (Associazione Lavoratori Atipici e Interinali) e al CPO-UIL (Coordinamento per l'Occupazione dei Lavoratori Atipici) si occupa di questo settore - sono cresciuti del 61,53%, arrivando a circa tre milioni. Per quanto riguarda inoltre i lavoratori in somministrazione (ex interinali), le associazioni di categoria delle imprese di fornitura di lavoro temporaneo (APLA, Agenzie per il Lavoro Associate; CONFINTERIM, Confederazione Italiana delle Associazioni delle Imprese Fornitrici di Lavoro Temporaneo; AILT, Associazione Nazionale delle Imprese di Fornitura di Lavoro Temporaneo) calcolano per il 2004 un totale complessivo di 502.000 lavoratori interessati.
Sono processi di frammentazione del lavoro che danno luogo ad analisi e proposte diverse. Un giuslavorista come P. Ichino, considera, per es., la precarietà di una metà dei lavoratori italiani come conseguenza di un'iperprotezione dell'altra metà e propone come rimedio, per superare l'enorme sperequazione tra le due parti, non un'equiparazione bensì una redistribuzione delle tutele. Un altro studioso, R. Dore, sostiene che in tutto il mondo si va verso una minore protezione di coloro che hanno scarso potere di mercato, verso una minore redistribuzione e una disuguaglianza crescente. E in ciò ha un peso anche il declino del potere del sindacato.
bibliografia
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L. Gallino, Il costo umano della flessibilità, Roma-Bari 2001.
G. Baglioni, Fare sindacato oggi, Roma 2004.
R. Dore, New forms and meanings of work in an increasingly globalized world, Geneve 2004 (trad. it. Il lavoro nel mondo che cambia, Bologna 2005).
B. Trentin, La libertà viene prima, la libertà come posta in gioco nel conflitto sociale, Roma 2004.
P. Ichino, A che cosa serve il sindacato?, Milano 2005.
M. Magno, La parabola del lavoro nel riformismo italiano, Roma 2005.
Il lavoro che cambia, a cura di M. Carrieri, C. Damiano, B. Ugolini, Roma 2005.