Sindacalismo
(XXXI, p. 830, App. II, ii, p. 831; III, ii, p. 747; IV, iii, p. 333; V, iv, p. 774)
La fine del secolo ha visto le tre Confederazioni sindacali italiane (CGIL, CISL e UIL) alle prese con le molteplici trasformazioni sia del mondo del lavoro sia della realtà politica ed economica del paese. In questi anni i sindacati si sono impegnati nella faticosa ricerca di un ruolo realmente rappresentativo non solo attraverso la ribadita prassi della concertazione con governo e imprenditori, ma anche cercando un collegamento con aree sempre più estese di nuove forme di lavoro (v. lavoro, in questa Appendice). A tale sforzo si è accompagnato un ulteriore impegno nella costruzione di una centrale unitaria così da far fronte all'estendersi di organizzazioni con caratteristiche spesso corporative.
Nel corso degli anni Novanta i sindacati svolsero un ruolo di confronto con la coalizione di centro-destra e con quella di centro-sinistra, influendo sugli sviluppi della stessa situazione politica. Tra i temi in discussione figuravano quelli concernenti la riforma dello stato sociale e quelli derivanti dal crescente incremento della disoccupazione. Il dialogo aperto con il governo presieduto da S. Berlusconi, proprio sul primo punto, precipitò in una rottura nell'autunno del 1994. Le tre Confederazioni maggiormente rappresentative, CGIL, CISL e UIL, organizzarono a Roma una delle più grandi manifestazioni del dopoguerra, con una partecipazione complessiva, secondo le valutazioni sindacali, di un milione di persone. Pochi mesi più tardi (maggio del 1995) i sindacati riuscirono invece a trovare un accordo con il nuovo governo Dini sul sistema delle pensioni. Il governo di centro-sinistra presieduto da R. Prodi, sorto in seguito alle elezioni del 21 aprile 1996, riprese poi lo stesso tema, raggiungendo con i sindacati un ulteriore accordo.
La nuova situazione politica poneva però al movimento sindacale italiano alcuni problemi di non piccola dimensione. Tutte e tre le centrali sindacali avevano infatti espresso un parere favorevole alla vittoria elettorale dell'Ulivo capeggiato da Prodi. Un tale atto rendeva in qualche modo, dopo il verdetto delle urne, più che mai necessaria l'affermazione dell'autonomia del movimento sindacale stesso. Esso doveva fare i conti, tra l'altro, con una platea di iscritti non sempre in sintonia con gli orientamenti politici dei gruppi dirigenti confederali. Il confronto con il governo riuscì a evitare, in una certa misura, il rischio della dipendenza dal 'governo amico', come documentano le tante occasioni anche di scontro e di polemica. Una serie di momenti dialettici ebbe come teatro il congresso della CGIL il 2 luglio 1996 a Rimini; quello della CISL il 21 maggio 1997 a Roma; quello della UIL il 18 febbraio 1998 a Bologna. Le discussioni toccarono i temi dell'attualità, dal rispetto dei patti anti-inflazione, alle misure per l'occupazione, alla questione delle trentacinque ore. Il rapporto sindacati-governo, in questo scorcio di anni Novanta, fu in ogni caso mantenuto nei binari della correttezza, senza esasperazioni e rotture clamorose. I sindacati contribuirono così al rispetto dei parametri di Maastricht e all'entrata dell'Italia nell'Europa monetaria (maggio 1998).
L'espansione economica degli anni Ottanta e i processi di ristrutturazione non avevano portato a una crescita degli iscritti al sindacato, ma avevano contribuito piuttosto a una progressiva emorragia. Oltre alla diminuzione degli occupati delle grandi fabbriche, dove era più forte l'insediamento di CGIL, CISL, UIL, si verificarono altri fenomeni che scalfirono la capacità di allargare la rappresentanza sindacale: la crescente diffusione di una rete di piccole aziende; l'avviamento al lavoro di giovani in più tarda età rispetto al passato; e, in generale, le trasformazioni del mercato del lavoro che tendevano a ridurre l'area degli addetti a un posto di lavoro fisso e permanente. Secondo alcuni calcoli di fonte sindacale, alla fine degli anni Novanta esistevano in Italia undici milioni di lavoratori occupati, non tutelati dallo Statuto dei lavoratori; in tale calcolo erano incluse le masse di quanti prestavano la loro opera senza aver stipulato normali contratti, i cosiddetti lavoratori in nero. C'era poi da tenere conto della crescente diffusione di forme contrattuali diverse da quelle tradizionali, come i contratti a part time, di formazione e lavoro, d'apprendistato, e forme di lavoro stagionali, in affitto (leasing). Un'altra figura di lavoratore diffusasi con rapidità era quella del cosiddetto lavoratore autonomo di seconda generazione, un operatore spesso adibito a lavori a domicilio, con scarse possibilità di contatti con associazioni sindacali. Altri tipi di lavori nuovi o atipici erano quelli collegati con il cosiddetto ricorso allo outsourcing, ovverosia all'affidamento di molte attività da parte delle imprese all'esterno delle fabbriche.
Le tre Confederazioni cominciarono a gettare le basi di un loro collegamento con le forze nuove del mondo del lavoro attraverso scelte non omogenee. La CGIL, per es., puntò molto sul ruolo delle Camere del lavoro come nuove sedi di negoziazione territoriale, chiamate a organizzare anche le figure professionali a metà tra il lavoro autonomo e quello subordinato. La stessa CGIL diede il via, nel 1997, alla costruzione di un'associazione collaterale, Pegasus, allo scopo di far aderire gli addetti al lavoro autonomo di seconda generazione. Nel 1998 la stessa CGIL costituì un nuovo organismo (NIDL, Nuove Identità del Lavoro), volto a organizzare e rappresentare i lavoratori cosiddetti interinali, quelli con partita IVA ma sostanzialmente dipendenti da un fornitore di lavoro e i collaboratori: i lavoratori, insomma, non inseriti nella sfera del posto fisso e permanente. Anche CISL e UIL assunsero iniziative non dissimili. La CISL, però, fece propria anche un'altra impostazione, iniziando a stringere patti di collaborazione con diverse associazioni, quali le ACLI e la Compagnia delle Opere. Il progetto era teso a costruire un'alleanza per il lavoro non solo dipendente, capace di sollecitare anche una ricomposizione del mondo cattolico diversamente impegnato nel campo sociale. La CISL, in ogni caso, apparve più impegnata a individuare nella concertazione tra parti sociali e governo la strada maestra per vedere legittimato il proprio ruolo di sindacato rappresentativo.
Tale differenza di orientamenti spiega anche il dibattito persistente tra la Confederazione diretta da S. D'Antoni e quella capeggiata da S. Cofferati, con la UIL di P. Larizza destinata a un ruolo di mediazione. Il motivo essenziale del contendere investiva, tra l'altro, la possibilità o meno di far promuovere dal Parlamento una legge destinata a disciplinare i problemi della rappresentanza sindacale. Sono questi i temi su cui si giocherà il futuro del movimento sindacale italiano. Un contributo importante sarà dato dalla riforma e dall'aggiornamento dello Statuto del lavoro, previo lo scioglimento di alcune differenze d'opinione, tra chi, per es., ipotizzava uno Statuto provvisorio, riservato solo ai 'nuovi lavori', e chi contrapponeva l'esigenza di un riesame complessivo, per realizzare un nuovo Statuto generale. Questa seconda ipotesi era fondata su un'analisi che abbracciava i mutamenti avvenuti nell'intera sfera lavorativa e non solo in una sua appendice.
L'ascesa del governo Prodi, il delinearsi di un sistema bipolare, la stessa discussione parlamentare sulle riforme istituzionali incisero profondamente sulla fisionomia delle tre Confederazioni italiane. Si delineò nella CISL, ma anche nella UIL, la tentazione di trasformare le organizzazioni sindacali in soggetti d'impropria rappresentanza politica, attraverso fondazioni o movimenti. La CGIL s'impegnò a superare, non solo statutariamente, le correnti ideologiche e partitiche del passato che si richiamavano ai comunisti e ai socialisti. Tale impegno passò attraverso la definizione di un 'sindacato di programma', con una propria autonomia culturale capace di metterlo al riparo da incursioni esterne: ciò tuttavia non impedì la nascita di due correnti di minoranza, entrambe collegate a Rifondazione Comunista.
La CISL, come si è già detto, considerò la concertazione, ovverosia la definizione di accordi attraverso un negoziato tra parti sociali e governo, la prassi essenziale per far fronte ai complessi stimoli dell'epoca, puntando più sulla partecipazione che sul conflitto. Il sindacato di D'Antoni giunse a battersi affinché la commissione della Bicamerale, chiamata a tracciare ipotesi poi accantonate di riforma istituzionale (nel 1997 e 1998), procedesse a una 'costituzionalizzazione' della concertazione. Tale scelta, in un certo senso, avrebbe portato i sindacati a rendere ogni volta obbligatorio l'accordo con parti sociali e governo. La CGIL preferì considerare la concertazione triangolare non come un fine a sé stante, bensì come uno degli strumenti possibili, evitando il rischio di creare un centro decisionale di tipo neocorporativo che avrebbe esautorato il potere del Parlamento. Queste diverse posizioni ribadivano comunque la necessità di avviare al più presto un chiarimento su questo fondamentale e complesso tema.
L'inizio del 1998 segnò, a seguito delle vicende riguardanti l'appoggio del governo Prodi a favore di una legge sulle trentacinque ore, l'avvio di colloqui tesi a definire meglio regole e ambiti sia della concertazione, sia del sistema contrattuale vigente. L'accordo triangolare stipulato nel 1993 tra governo Ciampi, sindacati e Confindustria aveva stabilito di creare, al posto dell'abolita scala mobile, due livelli di contrattazione, uno nazionale e uno decentrato. L'intento, per una parte degli imprenditori, era quello di giungere, se non all'eliminazione di uno dei due livelli, almeno a una migliore definizione delle materie da trattare per evitare una sovrapposizione delle richieste, soprattutto di carattere salariale. I sindacati, dal canto loro, non nascondevano l'esigenza di adeguare i contratti nazionali alla realtà del mondo del lavoro in rapida trasformazione.
I contenuti dei possibili nuovi metodi contrattuali non possono non investire due tematiche strettamente collegate, quella degli orari di lavoro e quella della flessibilità nell'uso della forza lavoro. Uno stimolo forte è venuto dalla polemica sul dispositivo di legge per l'attuazione della settimana lavorativa di trentacinque ore, da attuarsi entro il 2001. L'annuncio del governo, a seguito di un accordo con Rifondazione Comunista (guidata dall'ex segretario CGIL, F. Bertinotti) che salvò lo stesso governo da una crisi, fu dato nel 1997, mentre il Parlamento iniziò la discussione sulla legge nel 1998. Le posizioni dei sindacati, rispetto a una scelta non chiaramente concertata, misero in risalto la necessità di un obiettivo legislativo capace di alimentare e non impedire la contrattazione azienda per azienda sulla realizzazione della nuova settimana di lavoro. La Confindustria, dal canto suo, promosse una dura campagna contro le trentacinque ore ventilando l'ipotesi di un referendum abrogativo. Qualunque sia l'esito di un confronto così complesso, i due temi degli orari e della flessibilità sono destinati a dominare le future fasi dei rapporti sindacali. Molte misure di flessibilità furono introdotte nei cosiddetti contratti d'area, inerenti soprattutto ad alcune zone del Mezzogiorno, previsti dall'accordo sul lavoro stipulato nell'autunno del 1996; altre ancora potrebbero essere realizzate con l'attuazione di una settimana a orari ridotti. È da segnalare, anche su questo tema, una differenziazione tra la CISL e la CGIL: la prima più disponibile a forme nuove come i cosiddetti salari d'ingresso riservati ai giovani nuovi assunti; la seconda, invece, tesa a difendere i cosiddetti minimi contrattuali, uguali per tutti, cercando altre soluzioni per i nuovi ingressi nel lavoro, come il ricorso a contratti di formazione e lavoro. Tale differenza si manifestò anche in occasione del Patto per lo sviluppo e l'occupazione siglato alla fine del 1998 con il nuovo governo presieduto da M. D'Alema e succeduto al governo Prodi (dimessosi in seguito all'uscita dalla coalizione di Rifondazione Comunista).
Ospedali, scuole, trasporti, uffici furono i settori più esposti al conflitto sindacale in questa fase. Molti studiosi hanno così parlato di terziarizzazione del conflitto. Le diverse sigle, secondo una valutazione della Commissione di Garanzia sullo sciopero nei servizi essenziali, superarono le 300; i due terzi rientravano nella costellazione degli extraconfederali. C'è da operare una schematica differenziazione, in questo campo, tra organizzazioni di mestiere e professionali (macchinisti delle ferrovie, piloti) e altri organismi legati a un'antica tradizione del s. nel pubblico impiego.
Un tentativo di coordinare questo variegato mondo autonomo era avvenuto nel 1992 con la nascita dell'ISA (Intesa Sindacati Autonomi), e poi con la costituzione dell'UGL (Unione Generale del Lavoro), guidata da U. Nobilia, sorta nel 1996 sulle ceneri della CISNAL. L'UGL raccolse le adesioni di una trentina di sigle, provenienti principalmente da settori come le poste, la sanità, gli autoferrotranvieri, il pubblico impiego. Una sfida d'altro genere al s. confederale fu lanciata, nel corso del 1996-97, dalla Lega Nord, con la costituzione di un sindacato territoriale. Già negli anni precedenti un analogo intento era stato perseguito, senza grande successo, con la nascita del SAL (Sindacato Autonomista Lombardo). Il tentativo di trasferire il consenso politico alla Lega in campo sindacale fu ripetuto, alla fine del 1996, dal SINPA (Sindacato Padano Autonomo). Il lancio dell'operazione ebbe il suo culmine nel settembre 1997, con l'iniziativa dei gazebo installati per bruciare le tessere di CGIL, CISL e UIL. La manifestazione, che venne organizzata a Milano il 20 settembre 1997 da CGIL, CISL e UIL, per bloccare sul nascere il nuovo sindacato, rappresentò di fatto una risposta al secessionismo.
I pronunciamenti unitari che avevano contrassegnato i Congressi delle tre Confederazioni, alla fine degli anni Novanta, non trovarono gli sbocchi invocati. Un allarme sulla possibile caduta della tensione unitaria apparve, nel maggio 1998, con il consolidamento dei 'patti' tra la CISL e altre organizzazioni cattoliche, interpretato da molti osservatori come il sostegno alla costruzione di una 'grande CISL'. L'inizio del 2000 vide l'inasprimento delle polemiche tra le tre Confederazioni sindacali, anche attraverso accordi separati, come il 'patto di Milano', firmato nel febbraio del 2000 da CISL, UIL, Assolombarda e Comune. Altri motivi di contrapposizione vennero dalle diverse proposte relative al completamento della riforma dello Stato sociale, nonché all'atteggiamento da adottare nei confronti del governo presieduto da D'Alema. La CISL di D'Antoni, in particolare, decise di imboccare la strada della cosiddetta unità competitiva, accusando la CGIL di non aver voluto realizzare l'unità organica e di voler porre una sorta di veto a ogni scelta innovativa. L'ostacolo primario fu rintracciato nell'esistenza di diverse concezioni del sindacato, inerenti al 'chi' rappresentare (nel mondo del lavoro) e 'per che cosa'. Altri ostacoli al processo unitario erano dati dalle differenze d'opinione sul ricorso alla concertazione e dalla reale difficoltà ad affrontare un necessario snellimento di apparati burocratici, spesso elefantiaci, per realizzare un solo strumento organizzativo. Il rischio, all'aprirsi del nuovo secolo, era quello di dar vita solo a una precaria ed episodica unità d'azione fra le tre principali Confederazioni, con caratteristiche difensive, non certo in grado di evitare la crescita di fenomeni di s. corporativo.
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