Hitchcock, Sir Alfred (propr. Alfred Joseph)
Regista cinematografico e sceneggiatore inglese, naturalizzato statunitense nel 1955, nato a Leytonstone (Londra) il 13 agosto 1899 e morto a Hollywood il 29 aprile 1980. Il prestigio, guadagnato nel tempo, di indiscusso maestro nell'orchestrare la suspense all'interno della struttura del film, non si limita al virtuosismo dispiegato nel genere del thriller ma si fonda sulla creazione di un mondo immaginario, la cui riconoscibilità è tale da essere racchiusa in una cifra stilistica inconfondibile. La struttura narrativa del film ‒ inquadratura, montaggio, sequenza ‒ non narra soltanto il dato esibito ma traccia un imprevedibile percorso che finge di essere narrazione per introdurre in un'operazione metalinguistica che sposta l'intrigo da decifrare tutto sul piano dei 'meccanismi' filmici e visivi, sganciandoli dalle mere figure narrative del genere giallo o thriller. L'importanza del cinema di H. non venne inizialmente colta dalla critica che mostrò anche diffidenza e fraintendimento rispetto alla sua opera. Fu soltanto negli anni Cinquanta-Sessanta che una lettura coraggiosa e innovativa come quella dei critici-cineasti della Nouvelle vague (anzitutto François Truffaut e Claude Chabrol) evidenziò il valore della sua lezione di stile, riconosciuto tardivamente anche mediante l'Irving G. Thalberg Memorial Award assegnatogli nel 1968, nell'ambito degli Academy Awards, dopo sei nominations all'Oscar, ottenute in precedenza. Nel 1980 la regina Elisabetta II gli conferì il titolo di Sir.
Nato da genitori cattolici, H. studiò presso i gesuiti del St. Ignatius College e nel 1914, dopo la morte del padre, si iscrisse alla School of Engineering and Navigation; a 19 anni trovò lavoro in una compagnia telegrafica, la Henley, e seguì corsi di disegno all'Università di Londra che gli permisero di entrare anche nel mondo della pubblicità. Dal 1920 al 1922 cominciò a lavorare nel campo cinematografico realizzando bozzetti e ricoprendo la mansione di caporeparto titoli e didascalie presso gli stabilimenti a Islington di proprietà della prestigiosa società statunitense Famous Players-Lasky, nonché iniziando in proprio la lavorazione di Number thirteen, film che però resterà incompiuto per mancanza di finanziamenti. Nel 1924, su incarico di Michael Balcon (che aveva rilevato gli studi di Islington, fondando la Gainsborough Pictures), e concluso un accordo con il produttore tedesco Erich Pommer, si recò a Berlino presso gli studi dell'UFA, come aiuto regista di Graham Cutts. Qui conobbe Friedrich Wilhelm Murnau e l'incontro con il mondo del grande regista tedesco, come con il cinema espressionista di Fritz Lang e Paul Muni, segnerà incontestabilmente tutta la sua produzione successiva conferendole quella dimensione onirica e metafisica inserita nel tessuto delle immagini e nella costruzione della suspense dei suoi thriller. Nel 1925-26 H. tornò alla regia con due coproduzioni anglo-tedesche, The pleasure garden (uscito solo nel 1927) e The lodger (noto anche con il titolo The lodger ‒ A story of the London fog, 1926; Il pensionante), film, quest'ultimo, che rivela il suo talento nel suggerire atmosfere di mistero in una variazione del caso di Jack Lo Squartatore. Nella costruzione visiva del film si affastellano i temi, che saranno tipicamente hitchcockiani, del dubbio, del falso colpevole, della persecuzione mentale, dell'ossessione psicologica che 'minaccia' dall'interno del pensiero e 'dietro lo sguardo' dei personaggi tutto lo svolgersi dei fatti. I 'fatti' che si accumulano contro il protagonista di The lodger, fino al tentativo di linciaggio, sono le congetture pensate, le supposizioni del poliziotto, fidanzato della protagonista, che per gelosia stravolge l'ordine delle cose, sono i 'falsi ingressi' di una storia che si costruisce 'fuori' dalla narrazione, in un luogo di ipotesi dove i fatti diventano teoria e supposizione, segni e indizi disseminati nella diegesi. Dopo The ring (1927; Vinci per me!) H. si affermò definitivamente con Blackmail (1929), che girò muto e che venne poi distribuito post-sonorizzato, e con Murder! (1930; Omicidio), esempio di whodunit (intrigo basato sull'interrogativo del 'chi ha commesso il delitto') ambientato nel mondo del teatro, come sarà per Stage fright (1950; Paura in palcoscenico). Ma la maestria del regista si confermerà, coniugando un sottile humour a un calibrato e abilissimo senso dell'intrigo e della suspense, con i più significativi tra i film che compongono il suo periodo inglese: The 39 steps (1935; Il club dei trentanove), dalla perfetta struttura 'a inseguimento', lo spionistico Secret agent (1936; L'agente segreto o Amore e mistero), Sabotage (1936; Sabotaggio), tratto da The secret agent di J. Conrad e cadenzato con un ritmo implacabile, Young and innocent (1937; Giovane e innocente) miscela di causticità e invenzioni visive in un intrigo persecutorio, e The lady vanishes (1938; La signora scompare) che caratterizza il meccanismo hitchcockiano di indagine e suspense intorno al 'mistero cifrato' in una notazione musicale, già presente nella prima versione di The man who knew too much (1934; L'uomo che sapeva troppo). Il successo anche commerciale di questi film assicurò a H. un avvenire a Hollywood e il periodo statunitense si aprì con Rebecca (1940; Rebecca, la prima moglie), tratto da un romanzo di D. Du Maurier (da un'altra opera della stessa scrittrice aveva anche tratto l'ultimo film del periodo inglese, l'onirico e trasgressivo Jamaica Inn, 1939, La taverna della Giamaica). Al film prodotto da David O. Selznick, che unisce il romanticismo gotico e il senso del melodramma a una atmosfera di angosciose allusioni e interrogativi inquietanti, fece seguito una serie di opere di grande successo come Foreign correspondent (1940; Il prigioniero di Amsterdam), Mr. and Mrs. Smith (1941; Il signore e la signora Smith), Saboteur (1942; Sabotatori), Lifeboat (1944; Prigionieri dell'oceano), ma soprattutto Suspicion (1941; Il sospetto), Shadow of a doubt (1943; L'ombra del dubbio) e Spellbound (1945; Io ti salverò), film in cui emergono con forza le figure hitchcockiane per eccellenza: il senso di colpa e di pericolo, la persecuzione minacciosa, i meandri congetturali della mente, l'ombra del peccato, le ambiguità morali, sempre regolati da un perfetto meccanismo thrilling e racchiusi in una 'paranoia dello sguardo' dove ogni dettaglio è significante. In Suspicion ogni fatto è 'supposto', proiezione di un'avventura del pensiero, astratta ricomposizione di un dato che prescinde da ciò che accade e appare. Il racconto della moglie che sospetta che il marito voglia ucciderla è il pretesto per l'itinerario di uno sguardo che 'modifica' il reale, lo 'fraintende', per cui sarà sempre l'entrata di un elemento che interrompe lo svolgimento normale dei fatti a creare la sorpresa, la 'macchia', l'anti fisis, l'elemento risolutivo di un'indagine tutta psicologica.
L'opera di H. si andò delineando soprattutto attraverso la messa a punto di spazi e tempi, di figure stilistiche, di movimenti di macchina capaci di implicare emozionalmente e direttamente lo spettatore nella soluzione dell'intrigo. Da film di spionaggio come il celebre Notorious (1946; Notorius ‒ L'amante perduta), dove un crudele sarcasmo si unisce all'accensione del mélo passionale in cui è coinvolta la figlia di un nazista condannato negli Stati Uniti subito dopo il conflitto mondiale, interpretata da Ingrid Bergman, al dramma giudiziario The Paradine case (1947; Il caso Paradine), con una torbida moglie (Alida Valli) incriminata di uxoricidio, all'inquietante Rope (1948; Nodo alla gola o Cocktail per un cadavere), vicenda tutta racchiusa nel 'luogo deputato' di un appartamento, teatro del 'delitto gratuito' perpetrato da due giovani omosessuali e girata con la tecnica particolare di una catena di lunghi piani-sequenza, ciascuno della durata di dieci minuti, in modo da dare continuità e compattezza alla tensione incalzante, messa in atto da una regia abilissima e millimetrica risolta nelle congetture mentali dei personaggi. Tensione che sarebbe ritornata in Dial M for murder (1954; Il delitto perfetto) dove H. sperimentò l'effetto del 3D e dove l'abilità tecnica risulta riversata in una densa concentrazione della messinscena di un crimine familiare all'interno dello spazio serrato di un salotto borghese. Invenzioni visive, preziosità nella costruzione dei piani-sequenza, dimensioni lacerate dal senso del peccato o della trasgressione, atmosfere ambigue e risvolti oscuramente etici caratterizzarono diversamente il trascurato film in costume Under Capricorn (1949; Il peccato di lady Considine, noto anche come Sotto il capricorno), dove il mistero si sublima tutto nel paradosso di una 'macabra vicenda' matrimoniale, Strangers on a train (1951; L'altro uomo, noto anche con il titolo Delitto per delitto), sceneggiato da Raymond Chandler sulla base di un romanzo di P. Highsmith, dove il gioco è tutto nell'intercambiabilità tra colpa e innocenza, e il tormentato ritratto umano di I confess (1953; Io confesso) interpretato da Montgomery Clift nelle vesti di un sacerdote in bilico tra sospetto e infrazione. A quel periodo risalgono i capolavori Rear window (1954; La finestra sul cortile), indagine e riflessione sulla funzione dello sguardo, To catch a thief (1955; Caccia al ladro), variazione sul tema dell'ambiguità in cui risplende la raffinata Grace Kelly, la commedia nera percorsa da un irresistibile cinismo e da un sovvertimento onirico (e insieme lucido della logica) The trouble with Harry (1955; La congiura degli innocenti), la seconda versione di The man who knew too much (1956; L'uomo che sapeva troppo), dalla magistrale e incalzante cronometria della suspense, sino allo straordinario Vertigo (1958; La donna che visse due volte) e al vertiginoso North by Northwest (1959; Intrigo internazionale). Su queste opere e su quelle che seguiranno ‒ Psycho (1960; Psyco), The birds (1963; Gli uccelli) e Marnie (1964) sino a Frenzy (1972) e a Fami-ly plot (1976; Complotto di famiglia) ‒ si è andata costruendo la tessitura hitchcockiana. Tesi e antitesi si identificano, nei film di H., con il luogo mostrato e il luogo occultato: da una parte un codice fortemente esibito attraverso il potenziamento dei fatti, narrati come peripezie, e dall'altra un 'codice sottratto' attraverso la riduzione del narrativo a supposizione, la ricerca geometrica delle forme, il raggiro semantico, disseminando i film di falsi ingressi, nel labirinto dei fatti, in ogni caso rassicuranti per la loro verosimiglianza. Il cinema di H. obbedisce a questa legge: più una situazione sembra naturale, familiare, normale, più è suscettibile di diventare inquietante, di aprire trabocchetti impensati. In Rear window tutto vive nel pensiero del protagonista (James Stewart): è lui che, immobilizzato su una sedia a rotelle e intento a osservare da una finestra la macchinazione di un delitto, inventa un'indagine supponendo una serie di atti in un gioco geometrico dentro una visuale verticale, dove si inabissa la finzione quasi replicando la costrizione immaginaria dello spettatore in una sala cinematografica, come quando il rosso della brace di sigaretta nella stanza dell'omicida avvolta dal buio affascina il protagonista e denuncia il crimine supposto e la sua mostruosità, la sua devianza. Anche The trouble with Harry si muove in un impianto teatrale, nella ricostruzione artificiale dominata dalla volontà del regista-demiurgo, dove i personaggi entrano ed escono 'di scena', nel gioco macabro di un cadavere sotterrato e dissotterrato nella cornice di un bosco autunnale, percorso da figure con la coscienza sporca, in uno spazio esteriore che sembra un set, in un paesaggio che nasconde nelle pieghe la carica misteriosa di una scena sognata. Quel continuo andare e venire del morto ha un fascino macabro che si spegne nell'assurdo dell'ironia, e si riflette nello sguardo attonito, nelle azzurre pupille spalancate della protagonista (Shirley MacLaine). Nei film di H. l'oggetto della rappresentazione si fa simulacro, diviene 'qualcosa', il cosiddetto macguffin, motore virtuale e pretestuoso dell'intrigo, che anche quando muove in direzione mimetica, astrae, si carica di simboli, di irrazionalità. La protagonista (Kim Novak) di Vertigo, la donna amata che muore gettandosi da un campanile e che ritorna sulla scena sotto altro sembiante, trascinando il protagonista in un vero delirio, non è ciò che si vede ma ciò che si vuol far vedere, una simulazione continua, un inganno che si avvolge nel mistero della ricerca, che entra ed esce dalla dimensione del sogno. Inganna con il suo 'commercio con i morti', con un passato che indossa come un abito, e che si dà come illusione; retaggio che nasconde un intrigo mortale, che è poi uno sporco e cinico affare di eredità. Lo sguardo ignaro del protagonista (James Stewart) e lo sguardo consapevole dello spettatore che invece sa o crede di sapere divergono fino alla perfida conclusione, che rovescia semanticamente i segni della scrittura filmica, nelle figure della 'vertigine' e della caduta. Più approfondito nella dimensione del sogno, North by Northwest sembra scandito sui ritmi di un fuggire continuo, quello del protagonista ancora una volta suo malgrado coinvolto in una colpa che non ha commesso (come accadeva anche nella implacabile struttura persecutoriamente kafkiana del precedente The wrong man, 1956, Il ladro), implicato in un intrigo spionistico, immerso quasi in una condizione sonnambulica, in corsa da un luogo a un altro, sui vagoni di un treno, o in fuga nei campi braccato da un aereo, assurdo quanto misterioso. L'incubo verosimile assedia il film, gli dà una dimensione avventurosa, in un delirio di potenza in cui il protagonista si protrae sino al risveglio, nella caduta dal letto del wagon-lit. Tutto vero e tutto falso, il meccanismo riporta a zero l'analisi e l'introspezione, nulla sembra essere cambiato perché nulla è avvenuto veramente, nonostante i morti, gli intrighi, gli scontri. Il cinema di H. è in questo senso riflessione, critica, ragionamento sui meccanismi della visione, e si racchiude in una sorta di 'paranoia dello sguardo' in cui tutto diviene, nel dettaglio, diegesi, forma narrativa che si fa filmica, svelando così ancor più il suo carattere di linguaggio, di costruzione di pensiero. Come in Psycho, dove, al di là dell'intrigo, tutto accade quasi in un processo ottico di fissazione 'eidetica', nella pura percezione soggettiva, dove il meccanismo si dipana a partire dalla fuga di una donna, per riversarsi poi nella costruzione abilissima della scena del delitto, immersa nel sinistro motel gestito dal giovane psicopatico (Anthony Perkins). In The birds, da un racconto di D. Du Maurier, la psicosi diventa collettiva e si carica di paura con la misteriosa minaccia di neri uccelli che riempiono il cielo, richiamando le allucinazioni degli 'incubi alati' di A. Artaud, uomini e bestie si saldano in un incubo, imprevedibile e inesorabile, un terrore dai cieli che attanaglia la comunità. Marnie individua un personaggio di donna chiusa nel rifiuto della sessualità, narra le peripezie del suo comportamento schizofrenico di ladra e bugiarda, sino all'entrata in scena di un marito che restituisce significato ai suoi rifiuti irrazionali, svelando un trauma infantile che nasce dalla difesa del corpo violato della madre. In Torn curtain (1966; Il sipario strappato) e in Topaz (1969) anche gli avvenimenti del mondo in clima di guerra fredda e la nevrosi bellica diventano complessa metafora che irretisce la trama e lo spettatore in avventure pregne di suspense e humour nero; e in Frenzy, che segnò un suo ritorno in Gran Bretagna, o nel suo ultimo film Family plot H. disegna una vera geometria dell'angoscia, incrociando il visibile e l'invisibile, in un gioco perfetto di rimandi anche figurativi, in un'astrazione stilistica che ha la perfezione del classico.
F. Truffaut, Le cinéma selon Hitchcock, Paris 1966 (trad. it. Parma 1987).
R. Durgnat, The strange case of Alfred Hitchcock, London 1974.
D. Spoto, The art of Alfred Hitchcock: fifty years of his motion pictures, New York 1976.
J.R. Taylor, The life & times of Alfred Hitchcock, New York 1978.
Tutti i film di Hitchcock, a cura di R. Rosetti, Roma 1980.
Alfred Hitchcock, a cura di E. Bruno, Montepulciano 1981.
Alfred Hitchcock, la critica, il pubblico, le fonti letterarie, a cura di R. Salvadori, Firenze 1981.
"Filmcritica", gennaio 1981, 311, nr. monografico (v. in partic. i saggi di P. Bonitzer, E. Bruno, J. Narboni, R. Rosetti).
D. Spoto, The dark side of genius: the life of Alfred Hitchcock, New York 1983 (trad. it. Torino 1999).
Hitchcock et l'art: coincidences fatales, éd. D. Paini, G. Cogeval, Milano 2000.