Vedi Siria dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
La Siria è uno dei paesi più importanti dell’area del Medio Oriente. Damasco possiede una serie di peculiarità che lo rendono unico nella regione, sia dal punto di vista storico sia rispetto alle dinamiche geopolitiche contemporanee. Situata tra Iraq, Turchia, Libano, Israele e Giordania, la Siria ha sempre giocato un ruolo di fondamentale importanza nella definizione degli equilibri regionali. Prima di essere spartita tra Regno Unito e Francia in seguito al cosiddetto accordo Sykes-Pickot, firmato durante la Prima guerra mondiale per definire le rispettive sfere di influenza sul Medio Oriente, la regione siriana, sotto l’Impero ottomano, includeva anche l’attuale Libano. Ottenuta l’indipendenza dal mandato francese nel 1946, subì diversi colpi di stato. La svolta avvenne con la nascita del partito panarabista Ba’th, dalle cui fila è emersa la figura di Hafez al-Assad che, nel 1970, ha preso il potere con un ennesimo golpe e lo ha mantenuto fino alla morte, nel 2000. Hafez al-Assad ha governato con il pugno di ferro, ben coperto dalle sue istanze laiciste: la rivolta scoppiata nel 1982 e sostenuta dai Fratelli musulmani, fu soffocata in un bagno di sangue che culminò con la strage degli abitanti di Hama (secondo l’agenzia «Reuters» potrebbero essere stati uccisi 30.000 cittadini).
Alla sua morte, ha preso la guida del paese il figlio Bashar, che ha subito deluso le speranze di un processo di democratizzazione, nonostante le vaste aperture iniziali di credito. Nel periodo della Guerra fredda, la Siria era definita la ‘Cuba del Medio Oriente’, dal momento che rappresentava il satellite più importante dell’Unione Sovietica nella regione, soprattutto in contrapposizione alla filoccidentale Turchia. Nel periodo successivo alla Guerra fredda Damasco ha affrontato una complessa transizione durante il quale ha fortificato la propria alleanza con l’Iran formando il cosiddetto ‘Fronte della resistenza’, che comprende anche Hezbollah in Libano. Questa alleanza politico-strategica ha avuto come scopo principale la costituzione, all’interno della regione mediorientale, di un polo alternativo a paesi come l’Egitto di Hosni Mubarak e le monarchie del Golfo, strettamente legate all’Occidente, e in particolare agli Stati Uniti e Israele, considerati fautori di una politica imperialista. L’alleanza Hezbollah-Siria-Iran si è trovata in numerose occasioni in contrapposizione con Usa ed Europa su numerosi fronti, quali la questione del programma nucleare iraniano, l’assassinio nel 2005 di Rafiq Hariri – il leader libanese sostenuto dall’Arabia Saudita – e la guerra tra Hezbollah e Israele del 2006.
La politica estera del presidente Bashar al-Assad dal 2005 ha mirato in primo luogo a consolidare di fronte alla comunità internazionale la propria legittimità, indebolita dalle accuse di aver avuto parte attiva nell’attentato contro il premier libanese Hariri. Funzionali a questo scopo sono stati il ritiro delle truppe dal Libano, il nuovo ruolo di stabilizzazione giocato nell’Iraq post-bellico e i tentativi di negoziati indiretti con Israele attraverso la mediazione turca. Lo stato ebraico ha sempre rappresentato il vicino più problematico per la Siria, dal momento che i due paesi risultano ancora formalmente in guerra, dopo aver già combattuto due conflitti armati nel 1967 e nel 1973. Fino allo scoppio della guerra civile, le possibilità di un nuovo scontro non erano del tutto scongiurate. Anche i rapporti con Washington avevano visto un parziale riavvicinamento, con la visita del segretario di stato Hilary Clinton nel 2010 e l’invio di un nuovo ambasciatore americano a Damasco dopo anni di assenza.
Fattore centrale della nuova politica regionale siriana era anche costituito dal rilancio delle relazioni con la Turchia, paese confinante con cui la Siria aveva avuto rapporti tradizionalmente molto tesi a causa dell’adesione ai due opposti blocchi durante la Guerra fredda. Ankara e Damasco si erano rese protagoniste di un progressivo e profondo avvicinamento che – riguardando i settori energetico, economico, politico e strategico – avevano sollecitato un’asse di cooperazione di primaria importanza nello scacchiere regionale. Tale relazione privilegiata è stata però messa in discussione dalla repressione del regime siriano nei confronti della popolazione durante la rivolta scoppiata nel 2011, a seguito della quale il governo turco ha pubblicamente condannato il governo di Assad. A partire dal 2011 – in concomitanza con lo scoppio di diverse rivolte popolari in tutto il mondo arabo che hanno portato alla fine di decennali regimi come quello di Ben Ali in Tunisia e quello di Mubarak in Egitto – la Siria è scivolata progressivamente nel caos per una rivolta degenerata in pochi mesi in guerra civile. Per tutto il 2013 il regime di Bashar al-Assad (esponente della minoranza alauita) ha dovuto fronteggiare l’opposizione armata, composta prevalentemente dalla maggioranza sunnita del paese. La rivolta, nata – analogamente ai casi tunisino ed egiziano – da cause socioeconomiche (corruzione, disoccupazione, disuguaglianze sociali) ha assunto nuovi caratteri in pochi mesi. Nel confronto che contrappone la maggioranza sunnita al regime di Assad, che si è sempre posto come ‘protettore’ delle minoranze religiose del paese (alauita, cristiana, sciita), le istanze laiche e democratiche hanno via via perso terreno, mentre le atrocità si sono moltiplicate su entrambi i fronti fino a creare una delle maggiori catastrofi umanitarie della contemporaneità. A velocizzare la degenerazione settaria del conflitto si è aggiunto l’intervento di numerosi gruppi della galassia jihadista internazionale, giunti in Siria da molte parti del mondo: ciò ha conferito alla ribellione un carattere marcatamente religioso. In più il sostegno logistico e militare fornito al regime di Assad da parte del gruppo sciita libanese Hezbollah e dall’Iran ha internazionalizzato il conflitto.
Il carattere non locale della guerra è stato ribadito dall’intervento di potenze regionali come Arabia Saudita, Qatar, Emirati e Turchia che hanno sostenuto l’opposizione, mentre, appunto, l’Iran e, in misura minore, l’Iraq hanno sempre sostenuto con forza l’alleato Assad. Sul piano internazionale, Assad ha ricevuto il determinante aiuto della Russia di Vladimir Putin che si è opposta numerose volte in sede di Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite a qualsiasi risoluzione potesse prevedere un intervento dell’Un contro il regime.
L’opposizione, che dalla fine del 2012 viene rappresentata dalla coalizione nazionale siriana (Cns), ha ricevuto sostegno politico dall’Occidente (in particolare da Usa, Francia e Regno Unito). I paesi occidentali si sono però mostrati sempre più riluttante a fornire all’Esercito libero siriano (Els) armamenti pesanti con il crescere della presenza dei jihadisti. Una momentanea inversione di tendenza è avvenuta alla fine dell’agosto 2013, quando numerosi attivisti hanno parlato di uso di armi chimiche durante un attacco condotto (secondo la maggior parte delle fonti) dall’esercito di Assad, che ha ucciso oltre 1.400 persone. Il presidente americano Barack Obama, che nel 2012 aveva posto come ‘linea rossa’ insuperabile per il regime siriano l’uso delle armi chimiche, è arrivato molto vicino a ordinare un intervento ‘punitivo’ nei confronti del regime siriano. Si è poi tirato indietro dopo la defezione del Regno Unito e il raggiungimento di un accordo con il regime di Damasco per lo smantellamento dell’arsenale chimico siriano, ottenuto attraverso la mediazione russa. Dopo il raggiungimento dello storico accordo sul nucleare iraniano, l’Iran e l’Occidente stanno collaborando per una conferenza di pace da tenersi a Ginevra nel 2014 che dovrebbe portare alla fine della guerra civile siriana. Alla fine del 2013 il regime è apparso in vantaggio sia militarmente sia diplomaticamente, probabile garanzia di continuità di potere per Bashar al-Assad, anche se notevolmente indebolito.
La popolazione siriana, composta da quasi 21 milioni di persone, aveva registrato, prima della guerra civile, una notevole crescita rispetto agli anni Novanta (12 milioni di abitanti). Il tasso di crescita era elevato (3,26% tra il 2005 e il 2010), così come il tasso di fecondità (pari, nel 2010, a 2,9 figli per donna). Inoltre, più del 50% della popolazione aveva meno di 22 anni.
La maggior parte della popolazione è araba, vi è poi una cospicua minoranza curda (circa il 10%) e minoranze turcomanne, assire e armene. I curdi siriani non hanno avuto diritto allo status di cittadini siriani fino al 2011, quando il presidente Assad ha concesso loro la cittadinanza. La Siria ospitava fino all’inizio del conflitto civile una delle comunità di rifugiati più ampie del mondo, composta, secondo le stime dell’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite (Unhcr), da mezzo milione di palestinesi e più di un milione di iracheni.
Gli alauiti, corrente minoritaria dell’islam sciita cui aderisce la famiglia del presidente Assad, costituiscono solo il 14% della popolazione, ma hanno detenuto finora le leve della politica nazionale. La maggioranza della popolazione è musulmano-sunnita (72%). Vi sono cospicue minoranze di cristiani (12%) e drusi (3%). La costituzione garantisce la libertà religiosa, generalmente rispettata, ma prevede che il presidente debba essere musulmano. Gli appartenenti ai movimenti di ispirazione islamica, come i Fratelli musulmani, erano considerati fuorilegge già prima del conflitto civile.
Sebbene le varie etnie e comunità religiose del paese abitassero tradizionalmente in zone specifiche – o in determinati quartieri delle grandi città – a partire dall’indipendenza si era assistito a un notevole amalgamarsi tra i diversi gruppi, soprattutto all’interno dei grandi centri urbani. Il conflitto civile scoppiato nel 2011 – che a fine 2013 aveva causato 150.000 vittime accertate – ha però spinto a fuggire circa un quarto della popolazione all’interno dello stesso territorio nazionale. Il fenomeno dei ‘rifugiati interni’ è stato caratterizzato da uno svuotarsi dei quartieri e delle zone abitati dalle minoranze, i cui membri hanno spesso preferito trovare riparo nelle zone in cui la propria comunità è maggioritaria. Infine, circa 2,2 milioni di rifugiati sono espatriati, soprattutto verso i campi profughi di Turchia, Giordania, Libano e Iraq, mentre una parte rilevante della popolazione più benestante si è trasferita in Egitto o nei paesi occidentali.
Il tasso di alfabetizzazione è piuttosto elevato (84%), soprattutto per i giovani (più del 90% sia per gli uomini sia per le donne). La disparità di genere nell’istruzione andava riducendosi: la proporzione di bambine iscritte alla scuola primaria rispetto ai bambini era salita dal 90,3% nel 2004 al 95,6% nel 2009. La guerra civile ha sconvolto tutto. Secondo il rapporto «Syria Crisis: Education interrupted » , promosso dall’Unicef e pubblicato nel dicembre 2013, dal 2011 circa 3 milioni di bambini hanno smesso di andare a scuola per colpa dei combattimenti e questo ha annullato le conquiste della decade precedente.
Dal 1963 al 2011 in Siria è stato in vigore un decreto legislativo che imponeva lo stato di emergenza in presenza di una minaccia all’integrità dello stato. Ciò ha permesso al governo di effettuare arresti arbitrari di oppositori politici, attivisti per i diritti umani e giornalisti. Il decreto è stato poi revocato durante le rivolte iniziate nel 2011, nel tentativo di venire incontro alle richieste dei manifestanti.
La Costituzione garantisce teoricamente la libertà di espressione e di stampa, che però erano molto limitate anche prima dell’aggravarsi della guerra civile. Una legge del 2001 vieta di svelare informazioni su questioni di sicurezza nazionale e di unità nazionale, a pena di sanzioni elevate. Nel 2008 gli utenti internet – mezzo sempre più usato dai giornalisti, ma anch’esso controllato dal governo – erano il 17,3%. La rete ha rappresentato uno dei veicoli di comunicazione e organizzazione più efficienti per i manifestanti durante le rivolte del 2011 e tra i gruppi combattenti ribelli dopo la militarizzazione della rivolta.
Fino all’inizio del conflitto la Siria è stata un modesto produttore ed esportatore di petrolio, anche se nell’ultimo quinquennio aveva dovuto affrontare il costante declino della produzione, sviluppando altri settori dell’economia. L’industria del petrolio, del gas e del fosfato rappresentava comunque la principale risorsa economica assieme al settore agricolo, che contava per il 21% del pil e contribuiva alle esportazioni di prodotti agricoli, cotone e tessili. Il turismo rappresentava un’altra risorsa importante, mentre fino al 2011 stavano acquisendo sempre maggior peso i servizi finanziari (nel 2009 la Borsa di Damasco ha iniziato a operare dopo 46 anni di chiusura), le telecomunicazioni e il commercio.
Il legame con l’Unione Sovietica ha improntato l’economia pianificata siriana sino all’inizio degli anni Novanta. Da allora era stato invece avviato un processo di liberalizzazione e privatizzazione. Il dibattito era stato tuttavia acceso nell’ambito del partito Ba’th e le riforme avevano proceduto lentamente. Nel settore bancario, la prima banca privata ha aperto nel 2004, seguita da altre, ma la Banca centrale siriana ha continuato per certi aspetti a vincolarne il budget e le strategie imprenditoriali. Nel settore petrolifero, la compagnia siriana, braccio del ministero per il petrolio e le risorse minerarie, controlla circa la metà della produzione nazionale, anche se gli investimenti esteri (tra cui Shell e l’impresa cinese Cnpc) erano stati importanti per incrementare i livelli di produzione. La Siria aveva attratto meno investimenti esteri rispetto ad altri paesi del Medio Oriente, a causa di infrastrutture inadeguate e di una diffusa corruzione, che aveva così costituito un freno allo sviluppo. Il paese aveva fatto richiesta di adesione all’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) nel 2001, ma gli Usa avevano mostrato dei segnali di apertura soltanto negli anni precedenti il conflitto civile, per esempio acconsentendo a concedere al paese lo status di osservatore nel maggio 2010.
L’economia siriana non aveva risentito particolarmente della crisi del 2009 e aveva registrato, nell’anno successivo, una crescita del 4%. Prima dell’inizio del conflitto il sistema economico era ancora relativamente chiuso, sebbene il paese avesse rapporti commerciali con i vicini Iraq, Turchia, Libano ed Egitto, ma anche con Cina e Unione Europea (Germania e Italia in primis) – primo partner commerciale della Siria con 5,4 miliardi di dollari di interscambio nel 2009 (equivalenti al 23% del commercio siriano). Il commercio con gli Stati Uniti era invece limitato dalle sanzioni. Secondo i dati dell’Undp del 2005, il 30% dei siriani (più di 5 milioni) viveva in povertà, mentre l’11% in estrema povertà. Tale dato è legato anche alle limitate risorse idriche e all’impatto di fenomeni come la siccità e la desertificazione, che hanno conseguenze negative sulla produzione agricola e contribuiscono al processo di ‘urbanizzazione della povertà’. Il PIL pro capite, pari a circa 4.700 dollari prima della guerra, era già tra i più bassi dei paesi del Medio Oriente. Certamente la miseria è stata tra le cause della rivolta. Ma la guerra ha fatto precipitare la situazione: il pil nazionale è crollato del 14,4% nel 2012 e del 13,9% nel 2013.
La Siria produceva quantità modeste di petrolio: 400.000 barili al giorno nel 2009, crollati a 20.000 nel 2013 quando gran parte dei giacimenti sono caduti nelle mani dei ribelli. Già prima si trattava di una produzione ben limitata rispetto ai vicini del Golfo Persico e il declino avrebbe comunque reso in futuro il paese un importatore netto. Per compensare tale fattore nel mix energetico, il paese prevedeva di aumentare la produzione di gas (circa 7 miliardi di metri cubi nel 2009), avendo riserve per 280 miliardi di metri cubi. La Siria è collocata in una posizione strategica per il transito del gas: ciò sarebbe stato di grande vantaggio. Nel 2008 è stato aperto il collegamento in Siria dell’Arab Gas Pipeline (proveniente dall’Egitto) e vi erano progetti – tutti bloccati – di approfondire la cooperazione regionale con l’espansione dei gasdotti verso Turchia, Iraq e Iran. In base a un accordo con la Turchia del 2009, con l’apertura della sezione Siria-Turchia dell’Arab Gas Pipeline la Siria avrebbe potuto importare quasi un miliardo di metri cubi di gas. L’obiettivo sarebbe stato diventare uno stato di transito per il gas egiziano, iracheno, iraniano e potenzialmente dell’Azerbaigian, traendo così maggiori entrate e aumentando la propria disponibilità di gas.
Il lento processo di modernizzazione economica e infrastrutturale è stato però drasticamente interrotto dal conflitto civile che ha distrutto gran parte dell’industria e delle infrastrutture. Secondo la commissione delle Nazioni Uniti per gli affari economici e sociali dell’Asia occidentale, la spesa a cui si andrebbe incontro per la ricostruzione è di circa 80 miliardi di dollari, di cui 28 solo per rifare 1,2 milioni di case dotate di infrastrutture. Un tale sforzo comporterebbe anche problemi dal punto di vista del reperimento delle materie prime; servirebbero quasi 30 milioni di tonnellate di cemento all’anno – più di tre volte la quantità di cui il paese necessitava prima dell’inizio del conflitto – per produrre le quali occorrerebbero più di un miliardo di metri cubi d’acqua, una risorsa preziosa e scarsa in Siria. Secondo il report 2013 della «Carnegie Endowment for International Peace» anche le strutture industriali e le infrastrutture sono inservibili. Le cifre ufficiali hanno parlato, per il 2013, di un’inflazione al 68%, ma nella realtà il tasso è di gran lunga superiore. A fine 2013 l’Unione Europea ha stanziato la cifra record di 147 milioni di euro per sostenere le popolazioni vittime del conflitto.
L’apparato militare siriano era ritenuto non all’avanguardia, soprattutto considerando che il maggiore fornitore di armi di Damasco è stata storicamente l’Unione Sovietica. Come retaggio della presenza sovietica, inoltre, la Siria ospita una base navale nel porto di Tartus, che è operativa come base mediterranea della Federazione russa. Nel corso della guerra civile l’esercito siriano è stato ancora equipaggiato da armamenti di derivazione sovietica piuttosto obsoleti, anche se, soprattutto in virtù delle sue dotazioni aereonautiche e di artiglieria pesante è tuttora tatticamente di gran lunga superiore alle forze ribelli che lo contrastano. Damasco ha inoltre un discreto arsenale missilistico, grazie alla collaborazione nel settore con Iran e Corea del Nord. Tra 2012 e 2013 l’esercito siriano è stato molto danneggiato dalle defezioni, soprattutto dei soldati semplici e degli ufficiali di grado più basso, appartenenti alla comunità sunnita. Ciò ha spinto Assad a contare sempre di più sulle proprie truppe speciali, e soprattutto sulla guardia presidenziale, un corpo d’élite composto quasi totalmente da alauiti e comandato dal fratello Maher al-Assad. Il fatto di poter contare su un numero assai ristretto di uomini fidati ha comportato l’impossibilità dell’esercito regolare di controllare completamente il territorio: all’inizio del 2013 il regime ha quasi totalmente perso il controllo del nord del paese e di buona parte della città di Aleppo. Il resto del paese è controllato a macchie di leopardo, con ampie zone del territorio lasciate ai ribelli o, nel nord-est, alle milizie curde. Le forze del regime al momento si concentrano nella capitale e sul controllo delle principali vie di comunicazione nordsud.
Durante il 2012 l’esercito siriano è arrivato a un passo da confronto militare con la Turchia, a causa di un’escalation di tensione politica che ha raggiunto il suo apice in seguito all’esplosione di alcuni mortai in territorio turco, che hanno ucciso cinque civili. In seguito a questo episodio e alla recrudescenza degli attacchi dei gruppi ribelli curdi in Turchia – che secondo il governo del primo ministro Erdoğan erano direttamente sostenuti da Damasco – Ankara aveva chiesto alla Nato il supporto per l’installazione di batterie di missili a lunga gittata Patriot sul confine siriano a scopo di deterrenza. L’altro confine storicamente delicato – soprattutto a causa della contesa sulle alture del Golan – è quello con lo stato di Israele, che si è mantenuto perlopiù neutrale durante tutto il conflitto civile in corso, limitandosi a minacciare un intervento militare qualora l’arsenale chimico di cui Assad disponeva rischiasse di cadere nelle mani di estremisti ostili a Tel Aviv, oppure di Hezbollah.
Dopo aver subito pesanti sconfitte nel 2012 a opera dell’opposizione, l’esercito del regime si è trovato nel 2013 in una posizione di forza. L’accordo sullo smantellamento delle armi chimiche raggiunto con le potenze occidentali (presentato nei dettagli il 18 dicembre 2013, prevede la distruzione di circa 1300 tonnellate di materiale entro il giugno 2014) e il successivo accordo di Ginevra con l’Iran ha di fatto comportato un raffreddamento dei rapporti fra i gruppi armati ribelli e le potenze internazionali che li avevano fino a quel momento sostenuti. Solo l’Arabia Saudita continua a rifornire l’opposizione armata con armi e fondi ma l’aiuto non sembra sufficiente. Grazie all’intervento diretto delle milizie del gruppo libanese Hezbollah il regime siriano ha riconquistato nel 2013 gran parte delle zone di confine con il Libano – zona strategica per il passaggio di rifornimenti – ed è arrivato ad assediare Homs, una delle roccaforti dei ribelli. Nel nord l’opposizione è in difficoltà nel tenere Aleppo e le zone circostanti a causa delle nuove offensive del regime e delle divisioni che si sono creati tra gli stessi gruppi ribelli, mentre la parte nordorientale è ormai di fatto sotto il controllo delle milizie curde.
Situato nella fascia nordorientale del paese, il Kurdistan siriano è noto tra la popolazione curda semplicemente con il termine Rojava, ‘Occidente’, in quanto rappresenta la parte occidentale della nazione curda, il cui territorio è diviso fra Turchia, Iraq, Iran e, appunto, Siria. Secondo stime non ufficiali i Curdi rappresentano circa il 10% della popolazione, anche se il loro numero reale non è noto alle autorità. Fino al 2011, i curdi non hanno goduto della cittadinanza siriana e non hanno fatto parte delle statistiche ufficiali. Dopo l’inizio della rivolta nel 2011 il regime ha però repentinamente deciso di concedere loro la cittadinanza per evitare che si unissero alle forze ribelli. Questo tacito accordo di non belligeranza fra Curdi e regime ha retto durante i tre anni di conflitto. Nel 2013 le milizie del Consiglio nazionale curdo (organizzazione che riunisce le principali forze politiche curde) controllavano gran parte dei territori abitati dalla popolazione curdo-siriana e hanno spesso combattuto contro le fazioni fondamentaliste dei ribelli che desideravano appropriarsene (soprattutto nella regione attorno a Dayr az-Zwar, dove si trovano i pozzi petroliferi della Siria). Obiettivo delle fazioni curde è ottenere un’ampia autonomia nell’assetto istituzionale del paese, una volta che il conflitto sarà concluso. Per riuscirci i partiti curdi dovranno però superare le divisioni interne, soprattutto quelle fra il PYD legato al PKK e maggioritario tra i curdi siriani, e le fazioni minori sostenute dal presidente del Kurdistan iracheno Barzani.
Jabhat al-Nusra e lo Stato Islamico in Iraq e nel Levante (ISIS) sono le due principali organizzazioni che rappresentano il network di al-Qaida nel conflitto siriano. La loro presenza, per quanto numericamente assai minoritaria rispetto alla somma delle forze che combattono il regime di Bashar al-Assad, è stata però fonte di crescenti preoccupazioni sia a livello regionale, sia a quello internazionale. Le due organizzazioni sono spesso composte da combattenti di professione, veterani di diversi scenari di guerra come la Libia, l’Afghanistan o l’Iraq, e sono dotate di reti di finanziamento autonome e ben collaudate. Tra le due organizzazioni, Jabhat al-Nusra (nome completo Jabhat al-Nusra li-Ahl al-Sham, fronte al-Nusra per il sostegno alle genti del Levante) è sicuramente il gruppo più radicato all’interno della società siriana. È nato in Siria nel gennaio 2012 sotto la guida di Abu Mohammad al-Jawlani, jihadista siriano il quale ha raggruppato intorno a sé un gruppo di militanti sia locali sia internazionali. Il gruppo si è distinto immediatamente per le sue capacità militari, grazie all’esperienza e all’addestramento degli affiliati. Uno dei tratti specifici di al-Nusra è stata la capacità di attirare anche molti siriani tra le sue fila, comprese persone che non si identificavano nella cultura religiosa salafita. Molti nuovi combattenti hanno affermato di aver aderito perché il gruppo sarebbe il solo in grado di garantire un adeguato addestramento e armamenti sufficienti per combattere con efficacia il regime. Lo stesso non può essere invece affermato dell’ISIS, il quale è stato assai meno in grado di farsi accettare dalla popolazione locale e che rimane composto soprattutto da combattenti stranieri. All’inizio del 2012 il leader dell’allora stato Islamico in Iraq Abu Bakr al-Baghdadi aveva affermato che Jabhat al-Nusra non era altro che il ramo siriano della sua organizzazione. Pur confermando l’appartenenza ad al-Qaida, la leadership di al-Nusra aveva però subito smentito di far capo all’organizzazione di al-Baghdadi. Per questo l’esponente politico iracheno avrebbe deciso di creare l’ISIS e di iniziare a operare anche in territorio siriano. Dall’inizio delle sue attività l’ISIS è stata protagonista di numerose operazioni contro le minoranze religiose siriane, comprese quelle cristiane con aggressioni, intimidazioni e rapimenti di esponenti di spicco delle comunità. Tra le vittime, anche il gesuita italiano Paolo Dall’Oglio. Da metà 2013 le relazioni tra al-Nusra, l’ISIS e il resto dei gruppi armati anti-Assad si sono notevolmente deteriorate. Schermaglie e scontri fra qaidisti e i gruppi più laici sono stati registrati in tutto il territorio siriano, mentre vere e proprie battaglie sono avvenute nel nord-est del paese fra elementi legati alle due organizzazioni qaidiste e le milizie curde.
L’accordo sulla distruzione dell’arsenale chimico siriano è stato raggiunto nel settembre 2013 in seguito alla Risoluzione 2118 del Consiglio di sicurezza dell’UN. Tale risoluzione incarica l’organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (OPCW) di mettere in atto il suo piano di individuazione e distruzione dell’arsenale chimico detenuto dal regime siriano entro la metà del 2014. L’accordo è il risultato di un intenso lavoro diplomatico della Russia. Mosca intendeva così evitare che USA e Francia mettessero in atto la minaccia di bombardare obiettivi sensibili del regime siriano in seguito all’attacco con armi chimiche, avvenuto nel sobborgo damasceno di Ghouta, il 21 agosto 2013, e costato la vita a circa 1.400 persone. Questo attacco aveva rappresentato, secondo l’amministrazione americana, il superamento della ‘linea rossa’ fissata dal Barack Obama nel 2012 nei confronti del regime di Bashar al-Assad. Il presidente statunitense aveva ingiunto al regime di non ricorrere per alcun motivo all’uso di armi di distruzione di massa nei confronti dei ribelli e della popolazione civile. Le autorità di Damasco hanno da subito accusato
l’opposizione di aver organizzato l’attacco di Ghouta per provocare l’intervento americano. Le prove raccolte dagli ispettori UN nei giorni seguenti sembrerebbero però confermare la colpevolezza del regime.
di Eugenio Dacrema
Bashar al-Assad è un uomo fortunato. Lo è perché, dopo essere rimasto a lungo soltanto un secondogenito in ombra, si è visto regalare la presidenza da un incidente stradale che ha tolto di mezzo Basil al-Assad, suo fratello maggiore e delfino del padre. Ma lo è soprattutto perché, in qualche modo, ogni volta che commette enormi errori di calcolo nella sua gestione del potere, emerge immediatamente un salvifico intreccio d’interessi internazionali che lo toglie dai guai. Era successo già nel 2005. Lo spettacolare omicidio di Rafik Hariri, primo ministro libanese anti-siriano saltato in aria nel centro di Beirut, non aveva portato a quella svolta politica favorevole a Damasco e ai suoi alleati locali (Hezbollah) in cui probabilmente speravano gli autori dell’attentato. Era esplosa, invece, l’indignazione della popolazione locale e della comunità internazionale portando alla cacciata delle truppe di Damasco dal paese dei cedri. L’attentato contro Hariri, di cui, anche se forse non era direttamente responsabile, il regime siriano non poteva non essere a conoscenza, si era rivelato un clamoroso autogol per Assad e sembrava aver relegato la Siria al ruolo di paria sulla scena internazionale. Lo scacco alla classe dirigente del regime era stato grande, e il rischio di delegittimazione interna era concreto. Ma entro un paio d’anni un inaspettato salvagente venne lanciato al giovane dittatore, quando la Francia del presidente Nicolas Sarkozy, che da tempo cercava un ventre molle nel Mediterraneo da cui partire per costruirsi un ruolo di protagonista nella regione, decise che sdoganare Assad le avrebbe permesso di guadagnare a buon mercato un alleato strategico nel cuore del Medio Oriente. La Francia fece da apripista, e uno dopo l’altro gli altri stati europei tornarono a considerare Assad come un interlocutore autorevole: nel marzo 2010, l’Italia lo nominò addirittura cavaliere di gran croce, decorato di gran cordone dell’ordine al merito della repubblica italiana (onorificenza ritirata in gran fretta dal presidente Giorgio Napolitano nell’ottobre 2012 su sollecitazione di 22 senatori). Difficile dire se Assad avesse compreso di aver fatto un grande errore di calcolo che solo per caso si era risolto a suo favore. Di sicuro questa vicenda non l’ha reso più scaltro politicamente. Qualche anno dopo, nel 2011, quando le prime proteste spuntarono anche in Siria dopo aver travolto Tunisia, Libia e Egitto, il dittatore di Damasco fece ancora una volta un errore potenzialmente fatale. Era il 30 marzo 2011 e c’erano appena state le prime manifestazioni nel corso delle quali era stato chiesto rispettosamente qualche riforma e la fine dello stato di emergenza. Bashar al-Assad apparve di fronte al parlamento siriano. Chi osservava e conosceva bene la Siria era convinto che avrebbe concesso qualche riforma cosmetica, qualche briciola per accontentare un paese che in fondo aveva ancora fede nella sua volontà di riformare nel lungo termine il regime: il momento era perfetto, bastava solo saperlo cogliere. Il discorso fu invece una farsa. I manifestanti furono definiti terroristi, nessuna riforma fu annunciata e la protesta venne liquidata come etero-diretta e criminale. La spirale che s’innescò in seguito si racconta da sé. Nuove manifestazioni, nuovi scontri, morti e feriti in un vortice inarrestabile che nemmeno le concessioni fatte in seguito sono state più in grado di fermare, fino alla vera e propria guerra civile. Chiunque abbia seguito questi tre anni di tragedia siriana sa che quella data ha cambiato tutto. Il dittatore aveva avuto una chance, ma non era stato in grado di vederla e di agguantarla. A fine 2013, quasi tre anni dopo, un paese semidistrutto, 150.000 morti e 2 milioni e mezzo di profughi, sembra che la fortuna stia di nuovo salvando Bashar dal suo auto-procurato destino. Questa volta è l’America di Barack Obama, quella che fino al settembre 2013 sembrava essere sul punto di dichiarargli guerra, che, più di tutti, sembra dare una nuova chance al dittatore di Damasco. Il miraggio di un grande risultato in politica estera con il raggiungimento dell’accordo sul nucleare iraniano e la preoccupazione per la crescente presenza di al-Qaida tra le file dell’opposizione hanno di fatto portato Washington a scaricare la coalizione anti-Assad. L’accordo sulle armi chimiche raggiunto grazie alla mediazione di Putin non è altro che un riconoscimento de facto del regime come interlocutore e co-firmatario bilaterale. Non solo. Perché lo smantellamento dell’arsenale vada a buon fine è necessario – per quanto non pubblicamente riconosciuto – che il regime resti al potere per molti mesi: in sostanza la fine di qualunque serio appoggio occidentale al rovesciamento di Assad. L’opposizione è rimasta quindi nelle mani dei suoi alleati del Golfo, sauditi in testa. Riyadh ha sostenuto la formazione del Fronte islamico, un nuovo cappello per tutte le milizie salafite o comunque islamiste non collegate ad al-Qaida. Questa nuova organizzazione ha monopolizzato il sostegno finanziario militare dell’Arabia Saudita e sta progressivamente soppiantando sul terreno le forze laiche dell’Esercito libero siriano, l’organizzazione autoctona e autentica della rivolta armata siriana, lentamente abbandonata nel silenzio generale dall’Occidente, dal Golfo e dalla Turchia. Dopo questa svolta islamista e le divisioni interne alla Coalizione nazionale siriana – principale rappresentante all’estero dell’opposizione – la credibilità dei nemici di Assad è scesa ai minimi storici, e poche sembrano a fine 2013 le possibilità di una inversione di tendenza. Le ambizioni diplomatiche statunitensi, la svolta iraniana, e la ritrovata voglia di protagonismo di Mosca stanno quindi in apparenza salvando nuovamente Assad dalla sua inettitudine politica e mancanza di strategia. A settembre 2013 la risposta violenta e monocorde del regime alla ribellione sembrava averlo condotto a una guerra senza speranza contro l’America. Pochi mesi dopo, sembra condurlo alla vittoria. Ovviamente niente è cambiato radicalmente dentro la Siria. La semplice verità della lunga partita siriana è che i match decisivi sono sempre stati giocati all’esterno: a Mosca, a Riyadh, a Parigi, a Doha, ad Ankara, a Washington e a Teheran.