Sistema di logica come teoria del conoscere
Il primo volume del Sistema di logica come teoria del conoscere fu pubblicato da Giovanni Gentile nel 1917, l’anno successivo a quello di pubblicazione della Teoria generale dello spirito come atto puro. Il secondo volume vide la luce sei anni dopo, nel 1923, un volume di cui una piccola parte era stata anticipata nel numero che, nel 1920, inaugurò il «Giornale critico della filosofia italiana». Una vicenda abbastanza singolare se si pensa alla foga e alla velocità (segnalata dai suoi manoscritti, quasi sempre privi di ripensamenti) con la quale il filosofo scriveva i suoi libri. Gentile avanzò, per questo ritardo, delle ragioni che non c’è motivo di mettere in dubbio – «aver cambiato università e materia d’insegnamento e altre cure mi distraevano da questo lavoro» (G. Gentile, Sistema di logica come teoria del conoscere, 1° vol., 3a ed. riveduta, 1940, p. V) –, ma si riceve l’impressione che per il filosofo fosse urgente (dal punto di vista della rappresentazione del suo pensiero e della discussione pubblica) far seguire in tempi stretti alla Teoria generale dello spirito almeno quella parte della Logica che riguarda la “Logica dell’astratto”, compresa come parte seconda del primo volume. E che, messa alle spalle questa operazione, il seguito potesse anche attendere, posticipato rispetto «ad altre cure».
Giacché si tratta di una vicenda unica nella produzione gentiliana, forse val la pena formulare qualche ipotesi che vada più nel merito della cosa. E, per farlo, conviene partire da una proposizione che sta nella prefazione alla Teoria generale, un libro che era nato dai corsi di lezioni pisane. Lì si dice:
Questa Teoria generale, per altro, vuol essere una semplice introduzione a quel pieno concetto dell’atto spirituale, in cui consiste, a mio modo di vedere, il nucleo vivo della filosofia. E questo concetto, se gli anni e le forze non verranno meno, sarà da me esposto sistematicamente in trattati speciali, del primo dei quali, concernente la Logica, ho pubblicato quest’anno il primo volume. Chi legge dunque questa Teoria e non ne rimane del tutto soddisfatto, sa già che non se ne appaga né anche l’autore, e che bisognerà leggere il seguito (G. Gentile, Teoria generale dello spirito come atto puro, in Id., Opere filosofiche, a cura di E. Garin, 1991, p. 456).
Non sembra una frase più o meno canonica, e la pubblicazione, a distanza di appena un anno, del primo volume della Logica lascia intravedere come un’urgenza, quasi di completamento e di precisazione, ma di qualcosa di importante, di non secondario. Aggiungo un secondo elemento che non pare di poco significato: la Teoria si chiude con un capitolo intitolato “Idealismo o misticismo?”, dove appunto si dà un rilievo autonomo a questa accusa con l’esplicito riferimento, tra i critici, a Benedetto Croce che già da alcuni anni, dal 1913, aveva incominciato ad avanzare le proprie riserve critiche sulla filosofia attuale. È un’accusa contro la quale Gentile sembra avvertire qualche disagio, che si manifesta nella nettezza un po’ scostante delle risposte.
La critica alla tesi gentiliana, che toccava diversi aspetti, sembra colpire il filosofo in particolare su un punto: la possibile indeterminatezza misticheggiante dell’Io assoluto, le possibili incertezze sui caratteri della sua oggettivazione e quasi il precipitare di tutto nell’atto del pensiero, ma in modo immediato e, appunto, mistico. Proprio in quel capitolo Gentile scrive:
risolvendo nell’atto del pensare tutta la realtà naturale e storica, non s’intende propriamente d’un assorbimento unico, e in massa, di tutta codesta realtà, ma dell’eterna risoluzione di essa, che si dispiega per tutte le forme che l’esperienza ci addita nel mondo: esperienza che, dal punto di vista metafisico, è l’infinita genitrice di una genitura in cui si realizza (Teoria generale dello spirito, cit., p. 681).
Insomma, Gentile rivendicava, come argomento dirimente contro l’accusa di misticismo, la determinatezza dell’oggettivazione, e certamente questa idea percorre già la Teoria: da questo punto di vista, Gentile è ‘lui’ già nel 1898, nel Rosmini e Gioberti, nella critica dell’intuito (Del Noce 1990) e ancor più in La filosofia di Marx, che è del 1899.
Ma forse egli avvertiva, a conclusione del suo primo libro sistematico, che la teoria dell’oggettivazione dell’atto non fosse ancora così corazzata, così argomentata, da potersi sottrarre con sicurezza all’obiezione da cui intendeva difendere il suo pensiero. E che c’era bisogno di qualcosa che nella Teoria non sembrava dominare, e che anzi qualche volta poteva apparire contraddetta; e che, per far emergere questo ‘qualcosa’, molte premesse andavano poste scardinando perfino elementi acquisiti e spostando in un’altra direzione la temperatura della sua filosofia: tra il 1917 e il 1923 è questo il compito che egli si pone. Con atteggiamento forse troppo prudente, ma già assai acuto per gli anni in cui elaborò la sua tesi di laurea, nel 1921, Luigi Scaravelli scriveva:
Il rapporto quindi della Logica con la Teoria generale è più importante di quanto possa sembrare a prima vista, perché in esso è dato scorgere in atto, concretamente, ed in modo assai chiaro quanto e come il fondatore dell’idealismo attuale sia riuscito a realmente vivere, cioè realizzare storicamente, quelle esigenze che egli stesso aveva asserite nel XVIII capitolo della sua Teoria generale come necessarie perché l’idealismo non potesse venire confuso con il misticismo (La logica gentiliana dell’astratto, a cura di V. Stella, 1999, p. 30).
Per realizzare questo compito (e anche assai oltre di esso) quello che appariva necessario – e con l’urgenza che la discussione, soprattutto con Croce, sembrava richiedere – era fondare in modo esplicito un nuovo capitolo intitolato alla “Logica dell’astratto”, dell’oggettività, crogiuolo dell’oggettivazione del soggetto, complicatissime pagine per far emergere la griglia concettuale entro la quale l’atto pensante costruiva e oggettivava la sua fisionomia. Far emergere, insomma, la necessità del Negativo, del non, che la stessa Riforma della dialettica hegeliana (1913), pensata nella fase più kantiana di Gentile, era riuscita ad argomentare piuttosto faticosamente nella logica forse troppo euforica che dominava l’Io trascendentale. È questo il compito che Gentile provò a eseguire nel primo volume del Sistema di logica, cosa che, forse, placò per alcuni anni la necessità di ulteriori approfondimenti. Di certo, proprio questo fondamentale capitolo della Logica gentiliana seminò incertezze tra gli attualisti ortodossi, e rese, per alcuni, la filosofia di Gentile assai meno riconoscibile di prima (A. Carlini, Per una considerazione critica della dialettica dell’attualismo, 1924, in Id., Studi gentiliani, 1958, pp. 289-347). D’improvviso ad alcuni la Logica sembrò, come lo stesso Armando Carlini scrisse molti anni dopo, «una deviazione da quello che ritenevo il motivo più originale dell’attualismo» (in Ricordando Luigi Scaravelli, 1978, pp. 54-55).
Peraltro, il passaggio dalla Teoria generale dello spirito al Sistema di logica sembra implicare un atteggiamento innovativo anche nel semplice confronto fra i titoli delle due opere, come se il titolo dato dal filosofo alla Logica costituisse una risposta anticipata alla critica che a Gentile verrà formulata da Ugo Spirito nel 1933, ad attualismo consolidato. Spirito contestò la possibilità stessa di una teoria dell’atto con una formulazione molto irriverente:
Vi sono due modi di intendere l’attualismo e, in conseguenza, i suoi risultati e il suo avvenire: quello di chi ha concepito la teoria dello spirito come atto puro e quello di chi ha concepito l’atto puro come una teoria dello spirito: nel primo caso, la teoria è diventata spirito e cioè vita, nel secondo, l’atto è diventato formula e cioè la più patente e più ridicola contraddizione in termini (Spirito 1933, 19502, p. 35).
E Gentile rispose piuttosto irritato, domandandosi se il suo «giovane allievo» avesse letto il Sistema di logica (Filosofia e scienza, in Spirito 1933, 19502, p. 282). Quale era il problema? Spirito insisteva sulla necessità di vedere l’attualismo nella sua concreta potenzialità conoscitiva, produttiva di effettiva unità tra filosofia e vita, e non come una contraddittoria e necessariamente astratta teoria dell’atto. Gentile rispose: questo proprio è il Sistema di logica. Tu, Spirito, non hai ancora trovato il tempo di studiarla.
Ma, dunque, in che senso Logica come teoria del conoscere? In che senso la conoscenza si andava a conquistare un territorio nuovo, rispetto agli gnoseologismi delle tradizionali filosofie del conoscere, dove questa espressione sembrava indicare la tensione verso qualcosa che stava fuori, appunto in attesa di esser conosciuto? Indicare, insomma, il travagliato passaggio dal pensiero alla realtà? È da qui che bisogna muovere per afferrare il senso della Logica gentiliana. Mentre è assai facile (e quasi ovvio) immaginare che cosa una teoria del conoscere non potesse essere, in ambito di già consolidato attualismo, e cioè un pensiero che cercasse la realtà fuori di sé, meno scontato era il senso complesso della parola conoscere, che cosa di nuovo dovesse contenere dentro di sé per essere all’altezza di un titolo caratterizzante l’opera decisiva di una filosofia dell’atto, che era nata dalla distruzione dell’intuito come virtù passiva già nel Rosmini e Gioberti.
Come si conosce? Chi conosce? Il compito primo, per Gentile, era di svellere il conoscere dal teoretismo, e questa via era già tracciata nella Teoria generale dello spirito, ma qui, nella Logica, prende una forza nuova, come se apprestarsi a fare i conti con la logica dell’astratto – il vero, problematico assillo di quest’opera – implicasse immettere nel conoscere tutto ciò che impedisse di vederlo in un ambito di richiamo tradizionalmente metafisico-epistemico: e il grido «Mai più metafisica» (G. Gentile, Sistema di logica come teoria del conoscere, 2° vol., 3a ed. riveduta, 1942, p. 224), che risuona in quest’opera di Gentile, potrebbe costituirne l’epigrafe. Proprio il rapporto tra le due logiche, logica dell’astratto e logica del concreto, richiedeva uno sforzo di definizione ulteriore del conoscere. Anzitutto sottraendolo al dualismo con il volere, con definitiva fuoriuscita da ogni forma di dualismo pre- o postkantiano.
Superato il naturalismo, inteso il conoscere come vera, reale, produttiva attività, quest’attività è libera e il conoscere non ha più bisogno del puntello del volere per reggersi nel suo valore di verità. Ma non ne ha più bisogno perché, per essere attività, il conoscere non si deve più opporre al volere, ma dev’essere già esso, quello che si cercava fuori di esso, nel volere: cioè, appunto, il volere. Il superamento infatti del naturalismo intellettualistico, noi lo sappiamo, consiste nel concetto del conoscere come volere: ossia come attività creatrice, e propriamente autocreatrice (Sistema di logica, 1° vol., cit., p. 126).
Chiarire questo, quasi come premessa di tutto, era passaggio essenziale proprio in un’opera che metteva al centro l’astratto e la sua logica necessaria, in dimostrazione della tesi centrale, riaffermata polemicamente contro i suoi stessi scolari, che «la verità del logo astratto è bensì nel concreto, ma senza l’astratto il concreto è vuoto, cioè è esso stesso astratto» (G. Gentile, Filosofia e scienza, in Spirito 1933, 19502, p. 287).
Il conoscere, insomma, è atto costituente della realtà. Esso si presenta, insieme, come forma del costituirsi del soggetto e dell’oggetto:
Il conoscere puro non presuppone nulla, ma pone sì il soggetto sì l’oggetto nella loro viva unità, in guisa che l’oggetto non sia se non la realtà dello stesso soggetto nella sua idealizzazione; e il soggetto perciò non possa avere altro limite che quello che egli stesso pone a se medesimo, con un atto che è insieme auto-limitazione e oggettivazione di sé (Sistema di logica, 1° vol., cit., p. 145).
E poi, in intrecci di parole che possono sembrare illusionismo dialettico, e che, invece, a ben rifletterci su, pongono una questione cruciale:
Il logo della logica è il puro conoscere, in cui l’oggetto è lo stesso soggetto, oggetto a se stesso. Il logo dunque è pure l’oggetto del soggetto; ma in quanto questo oggetto è il soggetto che si fa oggetto a se stesso, e cioè puro conoscere (p. 151),
dove Gentile rimette mano, si potrebbe dire, in modo definitivo alla struttura dell’Io.
Citazioni simili, come si sa, potrebbero essere facilmente moltiplicate, ma, prese alla lettera, anche trascinati dalla foga speculativa del linguaggio gentiliano, rischiano di nascondere sia il travaglio profondo del filosofo nel passaggio dalla Teoria generale dello spirito alla Logica, sia la durezza dei temi che egli si trovava davanti. Lasciano immaginare delle continuità nell’attualismo che sicuramente ci sono, ma sono meno intense e scontate di quanto interpreti pur autorevoli hanno pensato (Del Noce 1990). E val qui la pena di aggiungere che la difficoltà a fondare la negazione, il non, tra Riforma della dialettica hegeliana e Teoria generale dello spirito era proprio legata a una certa lettura della trascendentalità dell’Io, che riusciva magari a vedere ma non a dimostrare nell’oggettivazione il proprio destino, dimostrazione che fu il vero compito che Gentile si pose nel Sistema di logica.
Ma l’oggettivazione non si poteva fondare senza trattare in tutta la sua profonda problematicità il tema dell’oggettività. E l’oggettività, a sua volta, non si poteva fondare senza fondare, a un tempo, la logica dell’astratto. Ovvero senza vedere la concretezza della logica dell’astratto, tale da porsi come oggettivazione di quel concreto che è l’atto del pensiero, quell’oggettivazione capace di render concreto il concreto stesso, altrimenti annaspante nel vuoto, con alle porte la critica, che proveniva non solo da Croce, di misticismo. Con la decisiva avvertenza, però, che il soggetto non esisteva prima dell’oggettivazione, e che il problema era costruire la loro connessione necessaria senza perdere libertà e creatività dell’atto.
È questo il tema che Gentile affrontò nel primo volume della Logica. Quale il problema di fronte al quale si trovò? Per provare a penetrarlo, bisogna risalire alla ragione più elementare che aveva accompagnato la nascita dell’attualismo: la critica del platonismo, collocandosi, sotto questa espressione, l’intero percorso della metafisica occidentale, che, pur nei suoi avanzamenti e interne discontinuità, era stata incapace di liberarsi dalla necessità di un presupposto del pensiero, dal dato che lo doveva precedere, qualunque esso fosse, noumeno, intuito, idea.
Ma che significa liberarsi del presupposto? C’è un significato primigenio, ma elementare di questa liberazione, che sta nel far occupare al pensiero l’intero spazio della realtà, a un pensiero pervasivo di tutto, e capace di vedere l’essere naturale come il niente, il nulla. L’essere naturale è il semplice A, immobile, incapace di dire alcunché di se stesso, nome astratto senza verbo, soggetto senza predicato, muto, appunto il niente. Gli manca il non, la determinazione che lo nega. Che giunge quando giunge il verbo, il negativo che lo differenzia.
Questa negatività del verbo di fronte all’astratto è la forza, il valore logico, dell’affermazione. La quale, ponendosi come identità dell’essere con se stesso, si pone perciò come negazione della negazione di questa identità: negazione di quell’identità, che è appunto l’essere nella sua naturale immediatezza (Sistema di logica, 1° vol., cit., p. 180).
L’esistenza stessa dell’essere naturale è travolta dall’impossibilità sua di esser pensato, perché privo di predicato, di verbo che lo determini, e il pensiero non è senza determinazione, senza tensione tra termini determinanti.
L’essere naturale è questo essere naturale che c’è […]. In quanto tale, è fuori del pensiero; né può a nessun patto pensarsi. Il suo pensarsi consiste proprio nel suo cessar di essere particolare e farsi universale; non poter essere più trasceso da un pensiero che gli scivoli sopra, ma farsi esso stesso pensiero in modo da restare esso nella dualità onde si media come pensiero […]. L’universalità sta nel distendersi dell’essere nel pensiero, in cui si riflette, e si adagia, legando a sé il pensiero, dentro quei termini in cui si pone (p. 229).
L’essere non più naturale perché è identico a se stesso. È la legge dell’identità che lo trascina fuori dalla muta naturalità. È A = A che fa uscire A dal suo mutismo. L’essere naturale è avvolto nel silenzio del nulla, di esso nulla si può dire, tutti quelli che hanno parlato di lui gli hanno sovrapposto un pensiero esterno. E proprio perciò, in quanto impensabile, l’essere naturale non è condizione del pensiero, il pensiero non lo trova davanti a sé. Quando giunge il pensiero, il campo intorno a lui sembra vuoto.
Proprio questo niente cui è ricondotto l’essere naturale sembra che faccia librare il pensiero sul vuoto, un vuoto che non può esser riempito che dal pensiero stesso. Ma perché il pensiero possa esercitare questo ruolo bisogna dimostrare non solo che esso è tutto, ma che questo suo essere tutto paradossalmente non lo allontani dal mondo, non annulli ogni resistenza, non faccia coincidere, insomma, la negazione dell’essere naturale con la negazione dell’oggettività stessa, facendo del pensiero un anelare nel vuoto, in quel vuoto che esso medesimo si è creato intorno: una libertà senza Legge, la premessa di un cieco attivismo del fare. L’aver fatto coincidere pensiero e volontà si poteva rivelare un’arma a doppio taglio: da un lato, quella coincidenza riempie il pensiero di volontà realizzatrice, dall’altro sembra legarlo ancor di più a un atto di pura libertà soggettiva, che rischia di sfociare in un puro arbitrario vitalismo. La via per risolvere questo possibile esito dell’attualismo – tanto più possibile quanto più la temperatura dell’epoca andava in una direzione, per dirla in sintesi, attivistica (B. Croce, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, 1928; Harrison 1996) – non poteva essere la semplice abolizione dell’essere naturale, ma doveva condurre alla riscoperta dell’essere come pensiero pensato, sgorgante dal pensiero in atto, un pensiero che, non potendo uscire da se stesso, mai incontrerà l’essere naturale (il niente), ma sempre e solo se stesso, però in due vesti, in due momenti: ciò che è stato pensato, un chiuso sistema dove non si può spostare nessuna pedina, ma pensabile; e ciò che continuamente ricrea il pensato, si salda con esso nella continua ricreazione che esso fa di lui, che è autocreazione, come Gentile sostiene in una aspra tensione speculativa, perché creazione destinata a ricreare continuamente il pensiero pensato, l’essere pensato che è dominato «dalla legge fondamentale dell’identità». L’essere come pensiero pensato è il sistema chiuso dell’identità con se medesima: A = A (Sistema di logica, 1° vol., cit., pp. 206, 175 e segg.). Il pensiero deve continuamente riconquistare a sé il pensato, rimettere in moto la sua immobilità di sistema chiuso. Sistema chiuso, ma tanto aperto alle incursioni del pensiero pensante, da essere la salda base della sua autocreazione che si impadronisce della sua identità chiusa e la riporta, pensandola, nel circolo del concreto il quale, peraltro, senza farsi penetrare da quella concreta funzione dell’astratto, non potrebbe sussistere e si scoprirebbe autoreferenziale, vuoto di contenuto.
La vecchia metafisica aveva collocato l’essere naturale come oggetto presupposto all’atto del pensare, senza potersi render conto del suo essere niente, impensabile, incapace di esser pensato. L’attualismo ricostruisce l’oggettività dell’essere in quanto essere pensato che, da un lato, è immobilizzato nel suo essere stato pensato, dall’altro, proprio per esser stato pensato (da chi? dal pensiero in atto) non può esser più tolto di mezzo, è stato determinato, non è essere naturale, ma sistema chiuso del pensiero pensato, che costituisce quella concretissima astrazione la quale permette la stabilizzazione dell’atto in atto del pensiero. Così nasce l’unità di logica del concreto e logica dell’astratto, e l’astratto coincide con tutto il mondo pensato e agito, tutto è oggettivazione del pensiero, ma tutto questo chiede con urgenza una ridefinizione di che cosa è pensiero, di chi è il soggetto che pensa, di come esso riesca a risolvere in sé gli echi del mondo, e delle ragioni per le quali egli vede nell’oggettivazione il suo destino: continua negazione e perciò continua riaffermazione di sé.
Ora, prima di affrontare questo passaggio decisivo della Logica, sembra ancora necessario fermarsi sul rapporto tra essere naturale ed essere pensato. La vecchia metafisica non aveva operato per davvero la distinzione. Essa immaginava che il pensiero potesse penetrare dall’esterno l’essere naturale, non si era reso conto di aver costruito una logica che, avendo al proprio cuore il giudizio, ovvero la costruzione del nesso nome-verbo, in realtà stava creando sia l’uno sia l’altro, sia il nome sia il verbo, sia la loro connessione.
La logica antica aveva abolito l’essere naturale senza rendersene conto, per cui tutto il suo lavoro andava raccolto per intero, ma per intero reinterpretato, collocato nel luogo che gli competeva. Quella logica aveva compiuto un’opera immensa di pensiero, elaborando la logica dell’identità e della non-contraddizione, senza compiere il passo ultimo lasciato in eredità all’invenzione attualistica, ma che era anche un passo che doveva ripensare il principio, fin dall’origine, per cogliere lì, in quel passaggio fondante, la ragione dell’errore: l’isolamento dell’essere naturale che diventava impossibile oggetto di pensiero, ma che costringendo il pensiero a questo impossibile compito, toglieva al pensiero la sua potenza creativa, lo faceva assistere alla creazione del mondo senza fargli capire che era proprio lui a creare il mondo.
Va ribadito come passaggio essenziale: nella Logica di Gentile, alla logica antica (logica dell’astratto) viene riconosciuto un ruolo grandioso, ed è la piena valorizzazione di questo ruolo che segna la temperatura dell’opera del filosofo, incompreso dai suoi allievi più euforici. Il difetto, però, è che essa pensava che fosse la realtà già data a pensare per essa logica, che questa non facesse altro che registrare la legge fondamentale della realtà presupposta, mentre essa stava lavorando all’oggettivazione del soggetto, a stabilire, se così si può dire, le sue regole, a fondare giudizio, sillogismo, le forme per mettere in relazione nome e verbo. Era il pensiero che fondava l’identità, non il contrario.
Il pensiero pensa qualche cosa, in quanto si trova a esser chiuso tra il termine che s’esprime col nome e che è il tema del suo pensiero, e quello che s’esprime col verbo, e che è lo svolgimento di tale tema, o quello che se ne pensa: lo svolgimento, in cui il tema attinge realtà di pensiero. Due termini che si analizzano bensì, ma quando sia venuto meno quel pensiero, in funzione del quale sono quei due termini (Sistema di logica, 1° vol., cit., p. 216).
Insomma, l’essere naturale andava interiorizzato nel pensiero in atto, come momento della logica dell’identità e della non-contraddizione, questa essendo la legge fondamentale della logica dell’astratto, una logica fondata da quell’unica realtà che è l’atto pensante. Immaginando che l’essere naturale non fosse l’essere pensato, la logica antica lo poneva come inevitabile presupposto di tutto e dello stesso pensiero, come avveniva perfino in Immanuel Kant e in Georg Wilhelm Friedrich Hegel, che pure più di altri si erano avvicinati a intravedere la verità. La logica dell’astratto, inerendo all’obiettività presupposta dell’essere, allontanava inevitabilmente l’astratto dall’atto che lo aveva creato, immobilizzava in se stessa la logica dell’identità, rendendo impossibile il suo esser resa vivente dalla sua interiorizzazione nell’atto del pensare. E qui c’è un nodo che forse Gentile affrontò riflettendo sul rapporto tra res gestae e historia rerum gestarum: da un lato, il sistema dell’astratto, si presenta come un sistema chiuso in sé, nessuno può cambiare ciò che è stato, la storia che è stata è stata, ma a un tempo il pensiero pensante ne costituiva la continua ricreazione, che diventava responsabilità dell’atto in atto del pensiero; lo stesso rapporto che sussiste tra la verità del presente narrante e il passato narrato.
Il fatto che l’essere (pensiero) pensato sia ciò che il pensiero pensante si trova davanti, fa sì che l’essere pensato non sia presupposto, non sia dato, proprio perché, in quanto pensato, è stato posto dal pensiero e perciò e solo perciò è pensabile, è il fondamento del pensiero creato dallo stesso pensiero, in un processo che è di effettiva autocreazione. Infinita l’estensione del pensato: è tutto il mondo, tutto lo scibile, tutto ciò che è stato pensato e che torna nell’atto del pensare che continuamente lo ricrea, autocreando in quell’atto la propria soggettività. L’essere naturale è niente; tutto è creato dal pensiero, e dunque il mondo stesso non c’è senza il pensiero che lo crea e ricrea. Ma il pensiero che crea non può sfuggire alle regole della logica dell’astratto, che sono le regole che esso stesso si è dato, pensando. Qui il pensiero ha per destino l’oggettivazione di sé. Non è una cosa cui esso si piega riluttando, perché l’oggettivazione è effettiva autocreazione, solo oggettivandosi il pensiero si autocrea. E le regole di questa autocreazione le ha dettate lo stesso pensiero e sono consegnate nella “Logica dell’astratto” il cui carattere astratto scompare non appena essa viene intesa come la modalità in cui il pensiero crea se stesso, allontanandosi dalla propria ineffabilità, legando in una connessione ineludibile sintesi e analisi, per cui l’una senza l’altra non è concepibile (Sistema di logica, 1° vol., cit., pp. 206 e segg.).
Gentile, dunque, mira alla conquista dell’oggettività, creando diffidenza nel lato più ortodosso della sua scuola – il primo Guido De Ruggiero compreso – e, si intende, più legato a una lettura ipersoggettivista della Teoria generale dello spirito. Proprio nel capitolo della Logica su “Verità astratta e verità concreta”, si legge un passo dove il tema viene posto con una determinatezza che non consente scappatoie illusionistiche:
Questa oggettività, da cui il pensiero attinge il vero di ogni sua conoscenza, e che è norma perciò della libertà che gli è propria, quest’oggettività, lungi dall’essere, in se stessa, un idolo illusorio d’una fallace speculazione, s’è svelata a noi come un momento essenziale della prima e più salda verità che ci sia, ossia del concetto appunto della verità. Soltanto, essa è un momento di questo concetto, non tutto il concetto; perché in tanto l’oggettività è rientrata per noi in questo concetto, in quanto il concetto del soggetto, con cui si immedesima la verità, s’è allargato in modo da comprendere in sé tanto il vecchio soggetto, di cui adombrava, p. es. il Rosmini, quanto il vecchio oggetto, che egli mirava a garantire da ogni pericolosa mischianza con quel soggetto (Sistema di logica, 1° vol., cit., p. 141).
Quando, nel secondo volume della Logica, Gentile si pone la medesima questione dell’immanenza del logo astratto nel concreto, scrive, e la lunghezza della citazione è motivata dalla esemplarità del testo:
La concretezza del logo astratto consiste […] nell’inerenza di esso nel logo concreto, cioè nel pensiero in atto. Ma questa inerenza non è da rappresentare come meccanica immaginazione, morta e passiva appartenenza del contenuto al suo contenente, o della parte al tutto; bensì è da pensare speculativamente come intrinseca generazione del risultato in cui termina un processo dinamico vivo. Il logo astratto è l’oggetto in cui si rappresenta a sé il logo concreto: attuale perciò nell’attualità stessa del logo concreto. Fisso in sé, come processo esaurito, in questo suo essere in cui il pensiero pensante lo contempla, esso non è originariamente e per se medesimo; ma entra in essere e si mantiene per virtù dell’atto pensante come manifestazione di questa virtù, realizzazione di questo atto. Il quale perciò lo ha in sé, e può dirsi che lo contenga. Non lo contiene in una sorta di spazialità metaforica, o ideale che si voglia dire, ma nel suo processo vivente (Sistema di logica, 2° vol., cit., p. 42).
Qui si chiarisce il concetto di autocreazione. Ora sembra si possa rispondere alla domanda: autocreazione di che cosa, e di chi? E si intende la novità straordinaria della logica dell’astratto e la sua, d’ora in poi, ineludibilità nel dibattito sull’attualismo. Se non c’è nulla prima dell’atto autocreativo (altrimenti si ricadrebbe nel platonismo), se non c’è un soggetto che crea, ma il soggetto è creato dalla propria creazione, penetrare in questa creazione, nel prodotto del creatore, diventa un compito gravoso ma necessario a impedire che l’autocreazione del soggetto sia come un ‘afferrarsi per i capelli’ per sfuggire all’abisso del nulla, quel nulla che Gentile ha sempre davanti agli occhi, presente nella Logica, quel nulla che ora va richiamato: «un nulla» infatti, nella sua immobilità presupposta, è l’essere naturale, ovvero ciò che nella sua immutabilità non può essere pensato, se pensiero è «passare da un’idea all’altra. Sicché l’essere naturale conosciuto come tale è quello che si può conoscere senza pensare: il niente» (Sistema di logica, 2° vol., cit., p. 63). Siamo dunque affacciati su questo niente, sembra che non abbiamo nulla alle spalle se non noi stessi. E proprio «questo miracolo dell’autocreazione» sorge dal niente, un miracolo «a cui ognuno di noi assiste eternamente dentro di sé» (p. 64).
Ora da che cosa è trattenuto questo miracolo dell’autocreazione? Questo miracolo che nella Teoria generale dello spirito si è presentato costantemente nella veste di Io assoluto, di Io trascendentale? Il non-Io c’era anche lì – e come poteva essere diversamente? – ma quasi come riflesso dell’Io, puro specchio della sua identità. Qui compare, con limpida e insieme problematica nettezza, il non-essere, il misurarsi dell’autocreazione con la negazione di quel niente in cui si concentra la ‘realtà’ dell’essere naturale. Dico con problematica certezza perché non sottovaluto le obiezioni a cui può essere esposto lo sforzo immane di Gentile, anche se personalmente tendo a valorizzare il mondo che esso dischiude, e l’arditezza del passaggio veloce dalla Teoria generale dello spirito alla Logica.
L’importante obiezione è nella difficoltà che incontrerebbe Gentile a fondare effettivamente la logica dell’astratto.
Gentile muove dal rovesciamento della ‘necessità’ dell’astratto, della sua ineludibilità. Ma non intende subordinare il dialettismo del pensiero alla legge dell’identità, al potere dell’astratto. Anzi intende fare l’opposto. Riconoscere sì i diritti dell’astratto, ma senza rinunziare al ‘primato’ del concreto. Bisognava riportare l’identità e la sua legge sotto il potere del concreto. […] Nella Teoria il primato del soggetto gli aveva impedito di cogliere l’autonoma funzione positiva dell’oggetto, e tuttavia quel primato non andava abbandonato. Il Sistema di logica rispondeva a entrambe le esigenze. Il logo concreto non nega il logo astratto, nega il concetto astratto del logo astratto […] come nega il concetto astratto del concreto […]. Il concetto concreto del logo concreto nega due nullità, non l’astratto. […] Il pensiero pensa se stesso – e non come oggetto (come logo astratto) bensì come soggetto […]. Ma, allora, di nuovo: se il cogito pensa se stesso come soggetto e non come oggetto, perché l’oggetto? Perché l’oggetto opposto al soggetto, l’oggetto che è quiete e identità e non movimento, e non contraddizione? (Vitiello 2003, pp. 136 e segg.).
Per affrontare il tema posto da Vincenzo Vitiello è forse necessario aggiungere alcuni elementi. Il Kant della Teoria generale dello spirito qui non c’è più con la stessa intensità. Si potrebbe dire che tra la Teoria e la Logica (1916-17) passi la stessa differenza che passò tra il Rosmini e Gioberti e La filosofia di Marx (1898-99), a conferma della capacità di Gentile di ripensare le proprie fonti nel giro di poco tempo. In che senso questo confronto? Il parallelismo essenziale è nel passaggio da Kant a Hegel, dovendosi ciò intendere mai in senso letterale e scolastico e tanto meno netto e dichiarato, ma evidente nella possibilità di essere argomentato. Due sono i territori conquistati attraverso una rinnovata presenza di Hegel nel suo pensiero. L’oggettivazione del soggetto si è staccata da una presenza troppo invasiva dell’Io trascendentale, sia nel senso che, diventando l’oggettivazione destino del soggetto, Gentile riesce a fondare meglio la funzione del non, del negativo, sia nel senso che in discussione è la stessa fisionomia dell’Io, e la rimozione del carattere ‘ortodosso’ dell’io trascendentale muta molto nell’avanzamento dell’attualismo. Vediamo i due effetti distintamente.
Se è fondato dire che il rapporto tra Io trascendentale e divenire nella Riforma della dialettica hegeliana riduceva la possibilità di leggere il divenire come sintesi di essere e non-essere, la centralità del tema dell’oggettivazione nella Logica, qualunque fosse l’esito del tentativo di fondare senza contraddizioni logiche la logica dell’astratto, conduceva in tutt’altra direzione: verso un’appariscente presenza della Negazione nel corto-circuito tra essere naturale ed essere pensato e nella tesi conseguente di una espansione dell’oggetto-oggettività a tutto il mondo pensato, al mondo stesso, allo scibile umano, alle res gestae, alla scienza, alla stessa esistenza del singolo nella sua individualità (ognuno, insomma, ha il proprio astratto dentro di sé), insomma a tutto il mondo creato e obiettivato, astratto solo perché condensato in una oggettività pensabile e non attualmente pensata, prodotta dal pensiero, ma poi isolata rispetto a questo atto creativo. Qui Hegel entrava prepotentemente nella tensione dialettica che veniva immessa nella riscoperta allargata del mondo pensato, del pensiero pensato, nella sua oggettività continuamente risolventesi nel processo dell’autocoscienza, ma ben salda e non illusoria, come abbiamo letto in uno dei testi citati di Gentile.
Ma c’è un altro elemento da valutare, passando dalla Teoria generale dello spirito alla Logica, ed è la nuova fisionomia del pensiero e dell’Io. Tema da toccare con delicatezza, ma che sembra avere carattere decisivo. L’Io trascendentale ha approfondito la sua natura proprio come il pensiero ha ripensato la propria stessa radice. Si è immerso nella vita, e l’Io è diventato un Noi e qui preciso, in una riflessione che non trova una conferma esplicita nella pagine di Gentile, che, come è evidente lo spostamento da Kant verso un Hegel ripensato rispetto alla Riforma, così a questo ritorno di Hegel forse si è accompagnato anche un ritorno di quella sensibilità che aveva prodotto il Marx hegeliano di Gentile. In un senso che vorrei indicare così: mi pare che nella Logica avvenga una sorta di rappresentazione ultraepistemica dell’Io, e si potrebbe dire di una sua depersonalizzazione, una spinta che può rassomigliare a quel concetto di prassi che dominava la ricerca su Marx, e i termini prassi e autoprassi ritornano con insistenza nel testo gentiliano:
La prassi come autoprassi spezza e annienta quella pretesa natura, che spazialmente si oppone al soggetto pensante; colma l’abisso, onde temporalmente l’astratto logo astrattamente appreso cinge lo stesso soggetto (Sistema di logica, 2° vol., cit., p. 246).
Proprio quella prassi «abbattendo le barriere intorno al mitico io, ci aiuta a renderci conto agevolmente della universalità dell’Io infinito», e lo fa facendoci partecipi del «noi» del mondo, come Gentile dice subito dopo aprendo già a quella idea di società trascendentale che in Genesi e struttura della società segnerà un esplicito ripensamento dell’ortodossia trascendentale.
Ma quante cose contiene il pensiero già nella Logica! Quante cose, l’Io, «questo essere che non è» (Sistema di logica, 2° vol., cit., p. 61). Questo Io che, divenendo, «nega l’essere come puro essere, e così lo relizza come pensiero» (p. 667). Ma quale complessa potenza deve essere questo pensiero per poter penetrare così il mondo, creandolo nell’atto stesso di autocrearsi. Bisogna uscire dalle normali e consuete coordinate lessicali, e Gentile esplicitamente aiuta in questa direzione perché, pur attento alla formalizzazione dell’originario cogito (da cui tutto viene) in realtà immette in esso tutte le potenze vive del mondo, il che non è in contrasto con l’assoluto formalismo che ne risulta, giacché ciò che interessa è scandagliare che cosa questo formalismo contiene, quanto questa forma assoluta raccoglie l’essenziale del mondo della vita. Noema e autonoema nascono a un atto solo.
Intender le cose è intender se stesso, perché il noema bene fondato è l’autonoema, ma intendere se stesso è pure intender le cose, perché un autonoema che non sia noema è vuoto e assurdo (p. 87).
Ma qual è la potenza che «intende» così? Ecco il pensiero: che già sappiamo essere volontà; e poi è anche «cuore» e «senso» (p. 133). «Il pensiero del cuore è sulla stessa linea del pensiero della ragione», e il pensiero «non è ragione, che non sia cuore; né viceversa. Non è intelletto, che non sia senso; né viceversa». E ancora: il pensiero è Eros «il nostro Eros desideroso non d’altro che di se stesso» (p. 238); il pensiero è, con accenti vitalistici, «l’essere vivo, con la cui vita si comincia a vedere la necessità di spiegare tutte le sostanza organiche elaborate nel vivo laboratorio dell’organismo» (p. 122); è «sapere in quanto amore, è volere», e chi non vede questo si lascia
sfuggire quel più profondo amore, che non è accanto al pensiero […] ma lo stesso pensiero nella sua attualità, dove coincide puntualmente il soggetto dell’amore col soggetto del pensare. Il quale soggetto pensa in quanto ama e ama in quanto pensa, e pensando perciò realizza se stesso (pp. 240-41).
Questa potenza del mondo, il pensiero, che si mescola alla prassi, è più impuro che mai, e non può non vedere «che tutto l’essere è quello che si realizza nel suo attuale pensiero; e non può quindi non avvertire la solidità massiccia del suo pensare essenzialmente pratico» (p. 242); quel pensiero che ci solleva dal «caos originario», dall’«oscuro nulla» (p. 247), in cui la passività ci fa precipitare; quel pensiero che «è pianto e riso», «perché il pianto non è se non questo riconoscimento della propria impotenza di fronte a un problema inevitabile e perciò il pianto, al pari del riso, è pensiero» (p. 255); quel pensiero che ci dà una visione panica del mondo, per cui lo spegnersi del pensiero sarebbe «l’inabissarsi di tutte le cose in un nulla inafferrabile a mente umana», cosa impedita dalle voci che il pensiero fa giungere fino a noi che «sentiamo dentro di noi il vasto respiro di questo mondo infinito in cui tutto si lega e fa uno con noi» (pp. 280-81). Un pensiero che fonda la coincidenza di logica ed etica, segnalata da Gentile nel gran finale della sua opera: «La logica si converte nell’etica» (pp. 331 e segg.) e che è da intendere non come spinta a un eccesso di personalizzazione dell’Io, quanto piuttosto come conseguenza del confluire nell’Io della potenza del mondo da cui l’Io è assediato, da quel «sistema chiuso», l’astratto, che la potenza del pensiero obbliga a rimettere in moto, un pensiero che, se non fa questo, «precipita nel nulla» (p. 315); quel pensiero che è già «comunità», e
in ogni comunità (gli individui) si stringono spiritualmente in un solo pensiero dinamico che si determina in un corpo vivo, in una lingua, che gl’individui diversi parlano insieme, attuando una individualità superiore e mediata, che non è tra loro, ma si realizza dialetticamente in loro stessi, essendo sempre e non essendo mai (p. 321),
dove anche la comunità, essendo pensiero in atto, espande oltre ogni dire la dimensione dell’Io, libera da ogni presupposto la sua autocreazione, e lo libera sia dall’esser presupposto sia dall’esser pura ragione epistemica. L’autocreazione è la vita che crea se stessa, il mondo che forma se stesso.
La Logica racconta l’autocreazione del soggetto e il suo destino nell’oggettivazione di se stesso. L’autocreazione del soggetto, essendo atto del pensiero, ha dietro di sé il niente, perché per poter avere qualcosa dietro di sé dovrebbe avere ancora del pensiero, e così all’infinito. La domanda da cui nasce la Logica è: che cosa c’è in quella creazione che si autocrea? E che cosa crea, autocreandosi? L’autocreazione concentra in sé tutto l’essere? Tutto si erge sulla effettiva distruzione dell’oggettività? O almeno questo è l’effetto più visibile? Come fa l’autocreazione a uscire da se stessa? Solipsismo, come ampiamente si disse, e magari misticismo, come inevitabili compagni di viaggio dell’attualismo? Queste erano domande aperte prima del Sistema di logica.
La domanda centrale per rispondere a questo nodo di problemi era ancora una volta: come è possibile il non, il negativo, l’astratto? Il non non può nascere dall’esterno del pensiero, non può appartenere alla ferma immobilità dell’essere naturale. Da dove, allora? Abbiamo provato a ricostruire la risposta di Gentile: la rifondazione dell’oggettività, presa come tale nel suo sistema chiuso, ma fatta rivivere come quell’astratto comprensivo del mondo. Di tutto il creato, che poteva rivivere solo nell’alveo riscoperto del concreto, dell’atto che lo aveva creato e che era destinato a continuamente ricrearlo. Scriveva Gentile:
Il pensare non presuppone nulla; e il pensato, assolutamente, presuppone il pensare. Ma questo pensare genera dal suo seno il pensato, e vive in questa sua generazione, fuori della quale cesserebbe perciò di essere quell’attività che esso è. E basta questa eterna immanente generazione del pensato dal pensare per costringerci a convenire che una logica del pensiero non può fare a meno di una logica del pensato (Sistema di logica, 2° vol., cit., p. 10).
Ma il pensare per Gentile è la vita nel suo insieme, nelle sue infinite facoltà. E il pensato è il mondo, quel mondo che «non c’è», perché continuamente si ricrea, ma che sta anche saldamente lì, integralmente creato, integralmente pensato nelle sue infinite forme, in attesa di chi ogni giorno gli restituisca vita, storicità, divenire. «Quel che diviene è il pensiero, questo eterno Atlante che sorregge il mondo» (p. 66).
U. Spirito, Scienza e filosofia, Firenze 1933, 19502.
A. Del Noce, Giovanni Gentile. Per una interpretazione filosofica della storia contemporanea, Bologna 1990.
T.J. Harrison, 1910. The emancipation of dissonance, Berkeley 1996 (trad. it. Roma 2014).
V. Vitiello, Hegel in Italia. Dalla storia alla logica, Milano 2003.