Abstract
Dopo una premessa di inquadramento del sistema monistico nell’ambito dei sistemi di amministrazione e controllo della società per azioni, che ne individua i tratti caratterizzanti e distintivi rispetto agli altri modelli, si esamina la sua articolazione interna, con particolare riferimento alla composizione, ai compiti e ai poteri del comitato per il controllo sulla gestione nonché alle implicazioni in termini di responsabilità connesse allo status di componente del comitato e alle sue peculiarità.
La riforma societaria del 2003 ha esteso l’ambito di operatività dell’autonomia statutaria nelle società per azioni, consentendo l’adozione di un sistema di amministrazione e controllo – alternativo a quello «tradizionale» (artt. 2380 bis ss. c.c.) e a quello «dualistico» (artt. 2409 octies ss. c.c.) – fondato sulla presenza di un consiglio di amministrazione e di un comitato per il controllo sulla gestione, «costituito al suo interno» (art. 2409 sexiesdecies, co. 1, c.c.) e chiamato a svolgere funzioni sostanzialmente analoghe a quelle del collegio sindacale.
La possibilità di adottare questo sistema deve essere contemplata dallo statuto, all’atto della costituzione dell’ente o di una successiva modifica dei patti sociali (art. 2380, co. 1-2, c.c.): in assenza di previsione statutaria, deve infatti intendersi adottato il sistema tradizionale, che assurge così a modello di amministrazione e controllo di default. Salvo non sia disposto diversamente nella deliberazione assembleare, la variazione di sistema ha effetto alla data dell’assemblea convocata per l’approvazione del bilancio relativo all’esercizio successivo (art. 2380, co. 2, seconda parte, c.c.).
Manifestando un indubbio favor per il passaggio da un sistema di amministrazione e controllo a un altro, il legislatore non ha però previsto quorum rafforzati per l’adozione della delibera né ha riconosciuto il diritto di recesso in capo agli azionisti assenti o dissenzienti.
Il modello – disciplinato negli articoli da 2409 sexiesdecies a 2409 noviesdecies c.c. per la generalità delle società per azioni, mentre disposizioni specifiche sono dettate per le società quotate dal d.lgs. 24.2.1998, n. 58 (t.u.f.) – viene definito «sistema monistico», in quanto non conosce il «dualismo» – inteso come separatezza strutturale – tra organo deputato alla gestione della società e organo deputato all’esercizio delle funzioni di controllo che, invece, caratterizza gli altri due sistemi.
La Relazione accompagnatoria al d.lgs. 17.1.2003, n. 6 individua le ragioni dell’introduzione del sistema monistico nelle istanze di semplificazione, flessibilità e contenimento dei costi organizzativi che questo sistema – più degli altri – sarebbe atto a soddisfare, in quanto «tende a privilegiare la circolazione delle informazioni tra l’organo amministrativo e l’organo deputato al controllo, conseguendo risparmi di tempo e di costi e una elevata trasparenza tra gli organi di amministrazione e controllo». Il modello monistico sarebbe così destinato a trovare la propria naturale collocazione nel contesto di una concezione ‘evolutiva’ dei controlli societari, sempre più concepiti come controlli ex ante – ossia come attività di monitoraggio da condurre su base continuativa, durante lo svolgimento dell’attività gestoria, e non più soltanto ex post – e più efficacemente eseguibili da soggetti che, in quanto inseriti a pieno titolo all’interno dell’organo amministrativo, dovrebbero poter beneficiare di tutti i flussi informativi necessari ai fini dello svolgimento dell’attività di verifica.
A livello comparatistico, il sistema monistico si ispira alle esperienze di matrice angloamericana del cd. one-tier board (o monitoring board model), che governa – in particolare nelle grandi società ad azionariato diffuso – la ripartizione delle funzioni gestorie e di controllo all’interno dell’organo amministrativo, attribuendo a tale organo nel suo complesso il compito di vigilare – grazie anche all’ausilio fornito da un comitato interno costituito da amministratori non esecutivi – sull’operato degli amministratori esecutivi e degli altri managers.
Ancorché si tratti del sistema di amministrazione e controllo che, pur con numerose varianti, risulta maggiormente diffuso nel contesto internazionale (cfr. Corporate Governance Factbook dell’OCSE del febbraio 2014, in http://www.oecd.org/daf/ca/corporate-governance-factbook.html] finora in Italia il sistema monistico ha goduto di scarsissima applicazione, complice il marcato utilizzo della tecnica legislativa del rinvio alle norme previste per il sistema tradizionale – peraltro in molti casi secondo imprecisati ‘limiti di compatibilità’ – che, da un lato, rende complesso il lavoro dell’interprete, e, dall’altro, determina notevoli sovrapposizioni con il modello di default, che di fatto attenuano la differenziazione tra i sistemi e la conseguente effettiva concorrenzialità tra gli stessi. Ne consegue l’esigenza di un adeguamento della disciplina del modello monistico tramite una riscrittura organica e autonoma delle norme dedicate a questo modello, evitando però che esso finisca per appiattirsi sul modello tradizionale (cfr. Alvaro, S. - D’Eramo, D. - Gasparri, G., Modelli di amministrazione e controllo nelle società quotate. Aspetti comparatistici e linee evolutive, in Quaderni giuridici Consob, n. 7, 2015, 76 ss.).
Le peculiarità del modello monistico si rinvengono, in particolare, nell’assetto impresso alla funzione di controllo e al comitato per il controllo sulla gestione preposto al suo esercizio. Il comitato – che sostituisce il collegio sindacale – non costituisce infatti un organo separato rispetto al consiglio di amministrazione, bensì una sua articolazione interna, composta da soggetti che sono dunque in primis amministratori.
Da tale strutturazione conseguono due importanti corollari: i) il carattere inevitabilmente pluripersonale dell’organo amministrativo; ii) la necessità che i componenti del comitato per il controllo sulla gestione siano dotati di specifici requisiti di ‘affidabilità’, circostanza che si riflette su una composizione del consiglio di amministrazione articolata in varie ‘anime’ (esecutiva, non esecutiva e indipendente).
Ulteriore peculiarità del sistema consiste nell’inderogabile affidamento dell’attività di revisione legale dei conti a un revisore esterno (art. 2409 noviesdecies, co. 2), senza possibilità di beneficiare della facoltà di attribuzione di tale attività all’organo interno di controllo, riconosciuta alle società non tenute al consolidamento dei conti dall’art. 2409 bis, co. 2.
Si è posto l’interrogativo sull’applicabilità del sistema monistico nelle società a responsabilità limitata. A tale riguardo, le opinioni inizialmente manifestate in dottrina (Cagnasso, O., Artt. 2475-2475 bis, in Cottino, G. – Bonfante ,G. – Cagnasso, O. – Montalenti, P., diretto da, Il nuovo diritto societario. Commentario, Bologna, 2004, 1861, Mirone, A., Art. 2475. Il consiglio di amministrazione: disciplina legale e autonomia statutaria. I sistemi alternativi, in Dolmetta, A.A. – Presti, G., a cura di, S.r.l. - Commentario dedicato a G.B. Portale, Milano, 2011, 552) ritenevano preclusa la sua adozione almeno nelle situazioni in cui la nomina del collegio sindacale fosse obbligatoria per legge; questa conclusione potrebbe essere rivista alla luce della nuova e più «neutra» formulazione dell’art. 2477 c.c., che attualmente fa riferimento all’«organo di controllo» e non più al collegio sindacale (Mosco, G.D., Funzione amministrativa e sistemi di amministrazione, in Ibba, C. – Marasà, G., a cura di, Tratt. s.r.l. - L’amministrazione. La responsabilità gestoria, V, Padova, 2012, 51 s.).
Il legislatore si limita a dettare poche previsioni caratterizzanti il consiglio di amministrazione, effettuando, per quanto non specificamente disposto, ampio rinvio alle norme dettate per gli amministratori nel sistema tradizionale (cfr. l’art. 2409 noviesdecies che richiama in blocco, «in quanto compatibili» e con la sola eccezione dell’art. 2391 bis, gli artt. da 2380 bis a 2395, e l’art. 223 septies disp. att. c.c., che dispone la generica applicabilità ai componenti del consiglio di amministrazione nel sistema monistico delle norme dettate dal codice civile per gli amministratori).
La competenza per la nomina del consiglio di amministrazione è rimessa all’assemblea dei soci (art. 2364, co. 1, n. 2); ai sensi del richiamato art. 2380 bis il consiglio, una volta eletto e a meno che a ciò non abbia già provveduto l’assemblea in occasione della nomina, designa il proprio presidente.
Per quanto concerne la composizione dell’organo, l’art. 2409 septiesdecies, co. 2, richiede che almeno un terzo dei suoi membri sia in possesso dei requisiti di indipendenza stabiliti per i sindaci dall’art. 2399, co. 1, c.c. e, se previsto dallo statuto, di quelli – evidentemente integrativi dei requisiti stabiliti in via legislativa – al riguardo previsti da codici di comportamento redatti da associazioni di categoria o da società di gestione di mercati regolamentati (art. 2409 septiesdecies, co. 2). La norma è di centrale importanza per almeno due ordini di ragioni: anzitutto, perché è prodromica alla formazione del comitato per il controllo sulla gestione, in quanto è tra gli eletti in possesso dei suddetti requisiti che saranno selezionati coloro che andranno a comporre il comitato per il controllo sulla gestione; in secondo luogo, perché – consentendo all’autonomia privata di porre requisiti di indipendenza più rigorosi, mutuandoli da quelli elaborati nell’ambito della cd. autoregolamentazione (ad esempio, il Codice di Autodisciplina delle società quotate del Comitato per la Corporate Governance di Borsa Italiana S.p.A.) – eleva le esperienze autoregolamentari a possibile fonte di disciplina, riconoscendo dunque la valenza e le potenzialità applicative delle c.d. fonti private del diritto.
Sotto il profilo organizzativo, la struttura del consiglio non pare proprio coerente con il dichiarato fine di alleggerimento dei costi operativi delle società. Si è osservato (Ghezzi, F., Art. 2409 sexiesdecies; art. 2409 septiesdecies, in Marchetti P.-Bianchi L.A.-Ghezzi, F. - Notari M., diretto da, Commentario alla riforma delle società - Sistemi alternativi di amministrazione e controllo, Milano, 2005, 222) che nelle società quotate – in cui i membri del comitato devono essere almeno tre (v. infra, § 3) – i componenti indipendenti del consiglio dovrebbero essere complessivamente almeno quattro, altrimenti non vi sarebbe una vera scelta da parte dell’organo amministrativo; per le società chiuse, invece, la dottrina oscilla tra la previsione di un comitato formato da almeno due membri (Mosco, G.D., Nuovi modelli di amministrazione e controllo e ruolo dell’assemblea, in AA.VV., Il nuovo diritto societario fra società aperte e società private, Milano, 2003, 140) o tre (Colombo, G.E., Amministrazione e controllo, in Rossi, S., a cura di, Il nuovo ordinamento delle società, Milano, 2003, 200): se a ciò si aggiunge la necessità di prevedere uno o più amministratori esecutivi o, comunque, l’opportunità di mantenere una certa proporzione tra esecutivi e non esecutivi e membri del comitato, ne consegue che l’adozione del modello monistico implica una composizione numerica piuttosto consistente del consiglio di amministrazione.
Con previsione analoga a quella contenuta nell’art. 2400, co. 4, per i sindaci, l’art. 2409 septiesdecies, co. 3, dispone che all’atto della nomina dei componenti del consiglio di amministrazione e prima dell’accettazione dell’incarico, siano resi noti all’assemblea gli incarichi di amministrazione e controllo ricoperti in altre società. Si tratta di un obbligo introdotto dalla l. 28.12.2005, n. 262 sulla tutela del risparmio e successivamente modificato dal d.lgs. 29.12.2006, n. 303, finalizzato a portare a conoscenza dell’assemblea l’esistenza di incarichi che, pur non integrando ipotesi di incompatibilità con l’assunzione della carica di amministratore in senso stretto, potrebbero influenzare negativamente l’attività di gestione oltre che di controllo: la previsione – come indica la Relazione accompagnatoria alla l. n. 262/2005 – ha lo scopo di consentire all’assemblea di valutare l’idoneità del soggetto a svolgere l’incarico alla luce dell’intero complesso delle cariche ricoperte anche in altre società, oltre che di conoscere relazioni con altri soggetti suscettibili di determinare conflitti.
Poche disposizioni integrative sono dettate dal t.u.f. per l’ipotesi in cui il sistema monistico venga adottato da parte di un emittente quotato. In tal caso, risultano applicabili le disposizioni concernenti l’elezione mediante voto di lista (art. 147 ter, co. 1 e 1-bis) e in materia di equilibrio tra generi (art. 147 ter, co. 1-ter). È, inoltre, prescritto che dalla lista di minoranza più eletta sia tratto almeno un amministratore in possesso dei requisiti di onorabilità, professionalità e indipendenza previsti per i sindaci dall’art. 148, co. 3-4 t.u.f. (cfr. art. 147 ter, co. 3): ciò si spiega in quanto costui sarà componente di diritto del comitato per il controllo sulla gestione (v. art. 148, co. 4-ter, t.u.f. e infra, § 3).
Inoltre, ai sensi dell’art. 147 quinquies, tutti i soggetti che svolgono attività di amministrazione e direzione in un emittente quotato devono essere in possesso dei requisiti di onorabilità stabiliti per i membri degli organi di controllo dalle disposizioni secondarie emanate in forza dell’art. 148, co. 4 (cfr. d.m. Giustizia 3.3.2000, n. 162). La mancanza (o la successiva perdita) dei requisiti di onorabilità provoca la decadenza dell’amministratore dalla carica, che viene pronunciata dall’assemblea dei soci o, in mancanza, dalla Consob.
Nel sistema monistico, l’attività gestoria spetta esclusivamente al «consiglio di amministrazione», ai sensi dell’art. 2409 septiesdecies, co. 1: si tratta di norma che conferma il ruolo esclusivo nell’esercizio delle funzioni gestorie attribuito agli amministratori dall’art. 2380 bis, nel contempo implicitamente escludendo la nomina di un amministratore unico, con facoltà per il consiglio di amministrazione – come del sistema tradizionale – di delegare, nei limiti sanciti dalle competenze inderogabili (art. 2381, co. 4), l’esercizio di funzioni gestorie a un comitato esecutivo o a uno o più amministratori delegati. Il citato art. 2409 septiesdescies, co. 1, non ripete l’ulteriore inciso dell’art. 2380 bis, per cui «gli amministratori compiono le operazioni necessarie per l’attuazione dell’oggetto sociale», ma l’omissione è priva di effetto considerato che tale norma è di generale applicazione in virtù dell’art. 2409 noviesdecies (Ghezzi, F., Art. 2409 sexiesdecies; art. 2409 septiesdecies, cit., 220).
Il comitato per il controllo sulla gestione – la cui nomina e composizione spettano al consiglio di amministrazione – costituisce, come anticipato, l’articolazione interna al consiglio di amministrazione cui è assegnato lo svolgimento della funzione di controllo.
Esso è formato esclusivamente da consiglieri non esecutivi e indipendenti, ossia da soggetti che, oltre ad essere in possesso dei requisiti di indipendenza stabiliti ai sensi dell’art. 2409 septiesdecies, co. 2 (mentre per le società quotate i requisiti di indipendenza sono quelli pervisti per i sindaci dal co. 3 dell’art. 148 t.u.f.: art. 148, co. 4 ter), «non siano membri del comitato esecutivo e ai quali non siano attribuite deleghe o particolari cariche e che comunque non svolgano, anche di mero fatto, funzioni attinenti alla gestione dell’impresa sociale o di società che la controllano o ne sono controllate». Inoltre, almeno uno dei componenti del comitato deve essere scelto tra gli iscritti nel registro dei revisori legali dei conti (art. 2409 octiesdecies, co. 3).
Il numero dei componenti del comitato – salvo non sia stato determinato dallo statuto – è fissato dal consiglio di amministrazione all’atto della nomina. L’art. 2409 octiesdecies, co. 1, fissa in tre il numero minimo dei componenti del comitato, ancorché solo con riferimento alle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, mentre nulla dispone per le società chiuse.
Il comitato elegge al proprio interno il presidente, con il voto favorevole della maggioranza assoluta dei suoi componenti (art. 2409 octiesdecies, co. 5, lett. a). Nelle società quotate, invece, la carica di presidente del comitato deve essere necessariamente affidata al consigliere eletto nella lista di minoranza (v. richiamo all’art. 148, co. 2 bis operato dal co. 4 ter), il quale, come osservato (v. supra, § 2) deve essere in possesso dei requisiti di onorabilità, professionalità e indipendenza previsti per i sindaci ai sensi dell’art. 148, co. 3-4, pena la decadenza dalla carica.
In mancanza di indicazioni legislative, è dibattuto quale sia l’organo – se il consiglio di amministrazione, per specularità rispetto al potere di nomina, ovvero l’assemblea – titolare del potere di revoca dei componenti del comitato; è evidente come questo potere, ove lasciato nelle mani del consiglio di amministrazione e non confinato ai soli casi di giusta causa, rischi di condizionare l’indipendenza dei componenti del comitato. Al potere di revoca dalla carica di componente del comitato si affianca, in ogni caso, il generale potere di revoca dalla carica di amministratore da parte dell’assemblea, che determina automaticamente anche la perdita della carica di membro del comitato eventualmente ricoperta.
Il consiglio di amministrazione è, poi, chiamato a integrare il comitato per il controllo sulla gestione in caso di morte, rinunzia revoca o decadenza, scegliendo senza indugio il nuovo componente tra gli amministratori in carica in possesso dei requisiti richiesti dall’art. 2409 octiesdecies; in assenza di amministratori eleggibili, il consiglio di amministrazione provvede alla cooptazione ai sensi della regola generale dell’art. 2386 c.c. (cfr. art. 2409 octiesdecies, co. 4).
A livello normativo, manca invece una disciplina compiuta della decadenza per difetto – originario o sopravvenuto – del requisito dell’indipendenza. In assenza di previsioni codicistiche, il t.u.f. ha fissato alcune regole per le sole società quotate, prevedendo, per l’ipotesi di mancanza/perdita dell’indipendenza, oltre alla già ricordata decadenza dalla carica di amministratore del presidente del comitato (cfr. art. 147 ter, co. 3), una più generale decadenza dalla carica di amministratore per tutti i componenti del comitato per il controllo sulla gestione (ex art. 148, co. 3, t.u.f. richiamato dal comma 4 ter del medesimo articolo). Rimane, invece, dubbia, la sorte degli altri amministratori indipendenti presenti in consiglio, ma non componenti del comitato: a questo riguardo, all’opinione di chi ritiene che essi non decadono dalla carica in caso di sopravvenuta perdita dell’indipendenza (Stella Richter jr. M., Art. 147 ter, in Fratini, M. – Gasparri, G., a cura di, Il testo unico della finanza, Torino, 2012, 1951 s.; Ghezzi F., Art. 2409 sexiesdecies; art. 2409 septiesdecies, cit., 241), si contrappone la tesi contraria secondo la quale la decadenza dovrebbe sempre conseguire al difetto/perdita del requisito, a prescindere dal fatto che il numero degli indipendenti risulti al di sotto della soglia del terzo dei componenti dell’organo amministrativo, considerato che la nomina di questi amministratori avviene anche sul presupposto della loro indipendenza e che il mercato ha fatto affidamento su tale requisito (Regoli, D., Gli amministratori indipendenti, in Abbadessa, P. – Portale, G.B., diretto da, Il nuovo diritto delle società. Liber amicorum Gian Franco Campobasso, II, Torino, 2006, 412 s.).
Ai componenti del comitato per il controllo sulla gestione di società quotate trova poi applicazione la disciplina dei c.d. limiti al cumulo degli incarichi contenuta nell’art. 148 bis t.u.f. e nelle norme attuative dettate dalla Consob nel Regolamento Emittenti (artt. 144 duodecies ss., del. 14.5.1999, n. 11978) oltre che, ove applicabile, dall’art. 36 del d.l. 6.12.2011, n. 201 (cd. ‘Salva Italia’), convertito dalla l. 22.12.2011, n. 214.
Il requisito dell’indipendenza assume rilievo centrale a garanzia del corretto ed efficace svolgimento delle funzioni di vigilanza da parte degli amministratori chiamati a far parte del comitato per il controllo sulla gestione: sul punto, la Relazione accompagnatoria al d.lgs. n. 6/2003 osserva come «[l]a circostanza che la vigilanza sull’amministrazione sia svolta, invece che dal collegio sindacale, da un comitato formato all’interno del consiglio di amministrazione, non determina un minor rigore dell’attività di controllo, poiché la professionalità, l’indipendenza, i doveri e i poteri di tale comitato coincidono con quelli del collegio sindacale, e possono anzi essere integrati dai codici di comportamento…».
Nonostante l’apprezzabile statuizione di principio, il legislatore pare però essersi mosso con troppe incertezze tra l’alternativa di applicare previsioni legislative già esistenti e quella di attribuire rilievo ad altre fonti giuridiche. Nel sistema monistico, infatti, tanto per le società chiuse quanto per quelle aperte i requisiti di indipendenza sono i medesimi stabiliti per i sindaci (rispettivamente dagli artt. 2399, co. 1, c.c. e 148 t.u.f.: v. supra, § 3) e, solo se lo statuto lo prevede, quelli previsti da codici di comportamento (art. 2409 septiesdecies, co. 2). Per effetto di siffatta impostazione, è stata coniata una nozione di indipendenza fondata essenzialmente (ed esclusivamente) sull’assenza di rapporti familiari o di lavoro (o comunque di natura patrimoniale) tali da compromettere l’autonomia degli amministratori che, se appropriata per un sistema, come quello tradizionale, in cui l’organo di controllo è composto da soggetti ‘esterni’ alla società, non tiene invece in adeguata considerazione la circostanza che nel modello monistico le garanzie per i soci (in particolari quelli di minoranza) risultano limitate (Ghezzi, F., Art. 2409 sexiesdecies; art. 2409 septiesdecies, cit., 233).
Allo stato, poi, manca ancora un’adeguata valorizzazione delle istanze di ‘professionalità’ – pur enfatizzate dalla Relazione accompagnatoria – che, accanto ai (e forse più che i) requisiti di indipendenza, dovrebbero invece rappresentare uno dei capisaldi a garanzia dell’efficacia dell’operato degli amministratori indipendenti: non può sfuggire l’importanza di tale requisito per soggetti cui si chiede di svolgere tanto le funzioni dell’amministratore quanto quelle di un sindaco.
Nel sistema monistico, il nucleo dell’attività di monitoraggio affidata al comitato per il controllo sulla gestione consiste nella vigilanza «sull’adeguatezza della struttura organizzativa della società, del sistema di controllo interno e del sistema amministrativo e contabile, nonché sulla sua idoneità a rappresentare correttamente i fatti di gestione» (art. 2409 octiesdecies, co. 5, lett. b). Ancorché tale norma sia simile al disposto dell’art. 2403 per il collegio sindacale, vi sono alcuni scostamenti rispetto ai doveri di controllo di quest’ultimo: i) nell’art. 2403 il dovere di vigilanza del collegio sindacale ha ad oggetto sia l’adeguatezza, sia il «concreto funzionamento» dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile; ii) nel sistema monistico il dovere di vigilanza del comitato per il controllo interno ha ad oggetto anche l’adeguatezza del sistema di controllo interno (riferimento invece assente nell’art. 2403, ma previsto tra i compiti del collegio sindacale delle società quotate dall’art. 149, co. 1, lett. c), nonché l’idoneità del sistema amministrativo e contabile a rappresentare correttamente i fatti di gestione; iii) non è invece richiamata la vigilanza sui principi di corretta amministrazione e sul rispetto della legge e dello statuto, che invece compete al collegio sindacale.
Le divergenze paiono, tuttavia, più formali che sostanziali. L’attività di verifica del comitato non può infatti incentrarsi – pena lo svuotamento della funzione – su una verifica dell’adeguatezza del sistema in astratto, bensì deve trattarsi di una vigilanza ‘continua’ sul funzionamento del sistema, ossia condotta durante il corso della gestione (non solo ex post). Rispetto al secondo e al terzo profilo, l’introduzione in via legislativa del concetto di controllo interno non vale di per sé ad escludere il c.d. controllo sulla gestione, che viene mantenuto nella forma della supervisione sulla legalità dell’azione amministrativa ai sensi dell’art. 2381, co. 3, c.c. cui i membri del comitato peraltro partecipano a pieno titolo in quanto amministratori ed essendo dunque tenuti in prima persona ad agire nel rispetto della legge e dello statuto.
Sulla base di quanto precede, si può dunque affermare che il comitato è chiamato a svolgere un controllo di legalità e di compliance anche sulla gestione sociale dall’interno dello stesso organo amministrativo e nel corso della gestione, ausiliando l’organo amministrativo nell’adempimento dei propri doveri di corretta amministrazione e fedele rappresentazione dei fatti di gestione. In aggiunta, essendo il comitato composto da amministratori, a differenza del collegio sindacale esso sarà poi inevitabilmente chiamato a valutare le operazioni sociali anche sotto il profilo della loro rispondenza all’interesse sociale e sotto quello, più propriamente di merito, della loro convenienza e utilità.
Accanto a tale precipua funzione, la legge pone in capo al comitato il dovere di svolgere gli ulteriori compiti eventualmente affidati al comitato dal consiglio di amministrazione, con particolare riguardo ai rapporti con i soggetti incaricati del controllo contabile (art. 2409 septiesdecies, co. 5, lett. c). I rapporti con i revisori devono svilupparsi su un piano diverso da quello del mero scambio di informazioni (già contemplato tra i doveri del comitato ai sensi dell’art. 2409 septies, richiamato dall’art. 2409 noviesdecies) e possono includere, ad esempio, la supervisione dei rapporti tra la società e il revisore, mediante l’affidamento al comitato del compito di effettuare il vaglio delle proposte di nomina o revoca dell’incarico di revisione, oppure la gestione di specifici temi contabili e l’esame preliminare della bozza di bilancio, con riferimento anche al corretto utilizzo dei principi contabili.
Riguardo ai possibili ulteriori compiti attribuibili al comitato e non relativi ai rapporti con il revisore, dovrebbe trattarsi di funzioni di controllo e non di compiti di tipo gestorio: oltre al controllo sul compimento di operazioni con parti correlate – affidato dalla del. Consob 12.03.2010, n. 17221 e s.m.i. a un comitato costituito da amministratori indipendenti (che potrebbe dunque anche coincidere con lo stesso comitato per il controllo sulla gestione) – potrebbero annoverarsi, ad esempio, l’esame preventivo di operazioni di rilievo significativo effettuate da società controllate, il controllo sul compimento di operazioni in cui uno o più amministratori siano portatori di un interesse, la verifica della congruità e l’attività di proposta circa i compensi ad amministratori e dirigenti.
Nelle società quotate, il comitato è altresì tenuto a vigilare sulle modalità di concreta attuazione delle regole di governo societario previste da codici di comportamento redatti da società di gestione di mercati regolamentati o da associazioni di categoria cui la società dichiari di attenersi (art. 149, co. 1, lett. c bis, richiamato dal co. 4-ter) nonché sull’adeguatezza delle disposizioni impartite dall’emittente alle società controllate ai sensi dell’art. 114, co. 2, t.u.f. (art. 149, co. 1, lett. d, richiamato dal co. 4-ter).
Il comitato deve comunicare senza indugio alla Consob le irregolarità riscontrate nell’attività di vigilanza e trasmettere i verbali delle riunioni e degli accertamenti condotti, nonché ogni altra documentazione utile; la disposizione non è applicabile nelle società con azioni quotate esclusivamente su altri mercati dell’Unione Europea e dunque non in Italia (art. 149, co. 3-4, richiamati dal co. 4-ter).
Conclusivamente, al di là delle similitudini e/o divergenze nella disciplina sulla funzione del collegio sindacale e del comitato, è indubbio che il ruolo di quest’ultimo si distingue da quello del collegio sindacale: il comitato, proprio per la sua collocazione interna al consiglio di amministrazione e per la sua composizione assume il peculiare ruolo di un organismo indipendente e (ed inevitabilmente professionale) a supporto dell’attività al consiglio di amministrazione per un più efficace svolgimento della sua attività di vigilanza su chi esercita la funzione gestoria.
La disciplina dei poteri attribuiti al comitato per il controllo sulla gestione presenta marcate differenze a seconda che si considerino le società quotate ovvero quelle chiuse.
Nelle prime, l’art. 151 ter t.u.f attribuisce al comitato un ventaglio di poteri articolabili nelle seguenti categorie: i) poteri informativi, che si estrinsecano nella facoltà di chiedere, anche individualmente, informazioni sull’andamento delle operazioni sociali o su determinati affari, sia agli altri amministratori della società sia agli organi di amministrazione e controllo delle società controllate; ii) poteri organizzativi, che trovano espressione nella facoltà – attribuita sempre su base individuale – di domandare al presidente la convocazione del comitato nonché, previa comunicazione al presidente del consiglio di amministrazione, di convocare direttamente il consiglio di amministrazione o il comitato esecutivo; iii) poteri di controllo, che si esprimono sia nello scambio di informazioni con i corrispondenti organi delle controllate «in merito ai sistemi di amministrazione e controllo» e «all’andamento generale dell’attività sociale» sia nell’effettuazione di atti ispettivi e di verifica. L’art. 150, co. 5, t.u.f. estende, poi, al comitato il potere-dovere di scambiare tempestivamente con la società di revisione i dati e le informazioni rilevanti per l’espletamento dei rispettivi compiti nonché quello di chiedere informazioni ai preposti al controllo interno, esercitabile anche singolarmente da ciascun componente.
Risulta inoltre applicabile, in virtù del richiamo all’art. 2408 c.c. effettuato dall’art. 2409 octiesdecies, co. 6, l’istituto della denunzia da parte dei soci, che configura, in capo al comitato, il potere-dovere di attuare le verifiche e porre in essere le condotte richieste da tale norma.
Negli emittenti quotati, le uniche differenze rispetto ai poteri del collegio sindacale riguardano – oltre all’assenza del generale potere di convocazione dell’assemblea ai sensi dell’art. 2406, co. 1 (che appare allora esercitabile solo in ipotesi specifiche, ad esempio nell’ambito di un procedimento ex art. 2408, oppure ai sensi degli artt. 2367, co. 3, 2446 e 2447) – le modalità per il compimento degli atti ispettivi e di controllo e per lo scambio di informazioni: tali atti non possono essere compiuti individualmente, ma rientrano nei poteri del comitato nella sua interezza che, al più, potrebbe delegarne il compimento a un proprio membro. Da siffatta impostazione deriva che i componenti del comitato, in quanto amministratori, non dispongono individualmente di poteri più ampi di quelli previsti per un qualsiasi amministratore non esecutivo; ne consegue che l’operatività del comitato rischia di risultare limitata dalla regola del funzionamento collegiale e di scontare tempi più lunghi e un minor grado di flessibilità.
Sempre con riferimento ai poteri del comitato, resta da segnalare che quest’ultimo, almeno nelle società quotate, dispone di un potere di accesso alle funzioni aziendali per la raccolta di informazioni necessarie o utili per un pieno ed efficace esercizio dei compiti di vigilanza, in linea con quanto previsto per i comitati ausiliari del consiglio di amministrazione dal criterio 4.C.1(e) del Codice di Autodisciplina delle società quotate e, specialmente, per il comitato controllo e rischi di cui il comitato per il controllo sulla gestione può assumere le funzioni laddove rispetti i requisiti imposti dall’art. 7 di tale Codice: in tal senso, l’art. 150, co. 4, t.u.f. già impone ai preposti al controllo interno di riferire al comitato anche su sua richiesta.
Sempre nelle società quotate, l’art. 152 t.u.f. estende anche al sistema monistico la disciplina della denunzia al tribunale ex art. 2409 c.c.
Nelle società chiuse, invece, la disciplina codicistica presenta numerose – e ingiustificate – lacune, in quanto non richiama espressamente alcuno dei poteri dei sindaci (e, segnatamente, l’art. 2403 bis). La questione appare di difficile soluzione in quanto – sebbene l’art. 223 septies, co. 1, disp. att. c.c. preveda l’applicabilità ai componenti del comitato, nei limiti di compatibilità e ove non altrimenti disposto, delle disposizioni relative ai sindaci – taluni indici normativi (ad esempio, la presenza nell’art. 2409 octiesdecies di richiami espressi solo ad alcune norme sul collegio sindacale) suffragherebbero un approccio restrittivo (Magnani, A., Artt. 2409 sexiesdecies – 2409 noviesdecies, in Maffei Alberti, A., diretto da, Commentario al diritto delle società diretto, Padova, 2005, 856; Regoli, D., Art. 151 ter, in Fratini, M. – Gasparri, G., a cura di, Il Testo Unico della Finanza, cit., 2061). In sostanza, e fatta eccezione solo per i poteri di richiesta di informazioni agli organi delegati esercitabili da ciascun amministratore in assolvimento dell’obbligo di agire informato previsto all’art. 2381, co. 6, nelle società chiuse l’assetto normativo attuale non sembra attribuire al comitato alcuno strumento atto a consentirgli l’esercizio di un proprio autonomo ed efficace ruolo di controllo.
Per effetto del rinvio operato dall’art. 2409 octiesdecies, co. 6, alle norme sul collegio sindacale, il comitato è tenuto a riunirsi almeno ogni novanta giorni, anche tramite mezzi telematici (art. 2404, co. 1): il comitato si costituisce con la partecipazione della maggioranza dei suoi componenti in carica e delibera a maggioranza assoluta dei presenti (art. 2404, co. 4).
Dell’attività del comitato deve essere dato atto in appositi verbali da trascrivere nel relativo libro sociale (art. 2421, co. 1, n. 5) in cui i membri dissenzienti hanno il diritto di far annotare le proprie osservazioni (art. 2404, co. 3-4).
Non essendo, invece, richiamato il co. 2 dell’art. 2404, non dovrebbe configurarsi la decadenza dalla carica in caso di mancata partecipazione a due riunioni del comitato.
I componenti del comitato devono inoltre assistere alle assemblee dei soci (e, per le società quotate, l’art. 153 t.u.f. prevede in capo al comitato l’obbligo di riferire sull’attività svolta in occasione dell’assemblea convocata per l’approvazione del bilancio), alle adunanze del consiglio di amministrazione – sia in quanto membri dell’organo sia in virtù del richiamo all’art. 2405, co. 1 – nonché alle adunanze del comitato esecutivo (art. 2405, co. 1).
In assenza di rinvio alle disposizioni concernenti la determinazione del compenso, possono configurarsi due alternative: secondo una prima opzione, il compenso potrebbe essere fissato dall’assemblea all’atto della nomina del consiglio di amministrazione, come per il collegio sindacale e il consiglio di sorveglianza nel sistema tradizionale e nel sistema dualistico; alternativamente, il compenso potrebbe essere stabilito dallo stesso consiglio di amministrazione (Magnani, A., Artt. 2409 sexiesdecies – 2409 noviesdecies, cit., 857). In ogni caso, nelle società quotate il compenso sarà soggetto alle restrizioni previste dal Codice di Autodisciplina – nei limiti della regola del comply or explain – per i compensi degli indipendenti e alle regole di compliance in materia di remunerazione.
Salvo il generale richiamo alle norme in tema di amministratori – e, dunque, anche agli artt. 2392 ss. c.c. che ne disciplinano la responsabilità – il legislatore non ha sancito previsioni specifiche sulla responsabilità dei componenti del comitato per il controllo sulla gestione. Ciononostante, è comunque possibile precisare e differenziare la loro posizione rispetto a quella degli altri amministratori attraverso il ricorso, da un lato, alla disciplina della delega di poter contenuta nell’art. 2381 c.c. e, dall’altro, alla clausola generale sulla responsabilità di cui all’art. 2392.
Anzitutto, l’eliminazione del vincolo di solidarietà tra amministratori non esecutivi e amministratori esecutivi per le funzioni gestorie delegate a questi ultimi – realizzata con la riformulazione dell’art. 2381 operata nel 2003 – ha generato un sistema di responsabilità graduato in relazione al ruolo effettivamente ricoperto da ciascun amministratore all’interno della società.
Dal canto proprio, l’art. 2392 ha enucleato un nuovo parametro di valutazione della diligenza e, conseguentemente, della responsabilità, degli amministratori, «tarato» alla luce della natura dell’incarico loro attribuito e delle loro specifiche competenze.
Pertanto, la graduazione del livello di diligenza esigibile da ciascun amministratore consente di differenziare la responsabilità imputabile anche tra gli stessi amministratori non esecutivi, in ragione, tra l’altro, della qualifica di indipendente di alcuni di essi, oppure del ruolo effettivamente ricoperto o ancora delle specifiche competenze di cui alcuni sono eventualmente dotati. In questa prospettiva, il richiamo all’incarico ricoperto consente di differenziare il livello di diligenza richiesto agli amministratori che assumano il ruolo di membri del comitato per il controllo sulla gestione rispetto agli altri. Parimenti, anche le competenze specifiche richieste per far parte del comitato e l’utilizzo concreto delle stesse ai fini dello svolgimento delle mansioni, oltre all’indipendenza e all’autonomia di costoro dagli amministratori esecutivi, determinano in capo ai componenti del comitato un livello di diligenza particolarmente qualificato.
Nella valutazione dell’eventuale responsabilità, occorre inoltre tenere in considerazione la duplice posizione di membri del comitato e del plenum consiliare. Ad esempio, in caso di violazione del dovere di diligenza nell’adempimento dei compiti attribuiti ai componenti del comitato, si potrebbe porre il problema dell’eventuale coinvolgimento in responsabilità degli altri membri del consiglio di amministrazione, poiché il comitato non solo non rappresenta un organo delegato tout court dal consiglio di amministrazione, ma svolge una funzione di supporto al consiglio nello svolgimento di compiti di monitoraggio della gestione che, in ultima istanza, sono pur sempre affidati al plenum consiliare (v. supra). Ne consegue che, laddove sussista un ragionevole dubbio sulla correttezza dell’attività svolta dal comitato, gli altri amministratori non esecutivi e non membri del comitato dovrebbero attivarsi ai sensi dell’art. 2381, quantomeno per poter beneficiare della possibilità di esercitare le azioni di regresso nei rapporti interni.
In secondo luogo, è possibile profilare una duplice responsabilità dei componenti del comitato, sia in quanto controllori sia in quanto amministratori: costoro, infatti, sono chiamati, alla pari degli altri amministratori, a partecipare ai processi deliberativi consiliari, per cui l’eventuale dissenso dall’operato degli amministratori dovrà essere manifestato, oltre che nella valutazione effettuata come controllori, anche nella manifestazione del voto in quanto amministratori. Di talché, in caso di partecipazione a una delibera consiliare avente ad oggetto un tema su cui il comitato si fosse pronunciato in termini negativi, l’esonero totale da responsabilità dei suoi componenti presuppone, oltre alla legittimità della loro condotta all’interno del comitato, anche l’annotazione del proprio dissenso sul libro delle adunanze del consiglio di amministrazione.
Artt. 2409 sexiesdecies-2409 noviesdecies c.c.; artt. 147 ter, 147 quinquies, 148, 148-bis, 149, 150, 151 ter, 152, 153 t.u.f
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