Sistema politico e rivoluzione economica cinese
La Cina del 21° sec. non si lascia definire facilmente: ha il capitalismo senza la democrazia; lo sviluppo economico senza libertà politiche; unisce la modernizzazione cosmopolita e il nazionalismo; conserva nel linguaggio ufficiale elementi di ideologia socialista ma al suo interno si allargano le diseguaglianze. Com’è possibile che la più grande economia di mercato esistente al mondo, una superpotenza in ascesa nell’era di Internet e della globalizzazione, venga ancora governata da un regime autoritario, con un partito unico che calpesta la libertà di espressione e non ammette un’opposizione? È difficile inoltre conciliare il presente con il passato prossimo: come si spiega che il capitalismo cinese di oggi sia fiorito subito dopo un esperimento comunista realizzato per trent’anni in forme radicali? La risposta a questi interrogativi va cercata nelle scelte fatte dalla classe dirigente dopo la fine del maoismo, a partire dalla svolta imposta da Deng Xiaoping alla fine del 1978: la duplice politica basata sull’apertura all’esterno e sulla transizione all’economia di mercato. La nuova rivoluzione economica cinese – all’insegna del capitalismo – ha dato in un trentennio risultati spettacolari, senza precedenti nella storia dell’umanità, migliorando il tenore di vita di centinaia di milioni di persone. Questo exploit è stato possibile nel contesto internazionale della globalizzazione. I risultati hanno portato a un modello che non è la semplice imitazione di altri: un capitalismo che conserva un ruolo importante dello Stato; un’economia di mercato gestita da un governo illiberale, che perpetra gravi abusi contro i diritti umani. La simbiosi tra capitalismo e regime autoritario non è un caso unico nella storia. È la prima volta però che questa formula si applica su una dimensione così gigantesca, coinvolge il popolo più numeroso del pianeta, e quindi ha effetti di eccezionale rilevanza sugli equilibri geostrategici e ambientali globali.
L’assetto della Cina suscita un interesse comprensibile. In alcune parti del mondo è considerato un modello guida, una possibile ispirazione per altri Paesi emergenti. È tuttavia azzardato descriverlo come un modello stabile. Le sfide che deve affrontare sono straordinarie. È ragionevole ipotizzare che la prosecuzione dello sviluppo economico, tecnologico, culturale e sociale della Cina richiederà mutamenti anche nel sistema politico-istituzionale. Per la natura del suo regime, nel quale il dibattito sulle riforme è poco trasparente, prevedere il percorso del cambiamento politico è un esercizio complesso. L’evoluzione dell’economia cinese, per la sua integrazione con il resto del mondo, offre invece una visibilità superiore.
La Cina nella globalizzazione
L’11 dicembre 2001 la Repubblica popolare cinese entrò nella WTO (World Trade Organization), integrandosi nel sistema internazionale degli scambi. È una data spartiacque. Segna l’approdo di una prima fase della transizione cinese all’economia di mercato. Da quel momento inoltre la velocità di crescita del Paese ha conosciuto un’ulteriore accelerazione. Infine, è poco dopo quell’integrazione che in Occidente sono affiorati ripensamenti e timori sull’impatto della concorrenza con il nuovo partner. L’ingresso della Cina nella WTO ha cambiato per sempre l’economia globale. Nessuno lo aveva previsto, neppure i cinesi. Quando si aprirono i lunghi negoziati per ammettere la Cina, nel 1997, dominava lo scenario opposto. Era l’Occidente a premere perché Pechino accettasse di entrare nella WTO. L’industria europea e ancor più quella americana erano convinte di conquistare così un grande sbocco di mercato. La classe dirigente cinese era divisa. Al suo interno una corrente che si può definire l’ala sinistra del Partito comunista si opponeva, temendo di subire una neocolonizzazione da parte del capitalismo occidentale. Le cifre che riassumono il bilancio del primo quinquennio dopo quell’ingresso sono eloquenti. Dal 2001 alla fine del 2006 la Cina ha quasi raddoppiato il suo prodotto interno lordo (PIL). In un quinquennio è riuscita a sorpassare Italia, Francia e Gran Bretagna. In seguito la sua crescita ha registrato perfino un’ulteriore accelerazione, toccando un record con l’aumento dell’11,4% del PIL nel 2007. Se ricalcolato in base alle parità di potere d’acquisto (per tener conto dei livelli dei prezzi) il PIL della Cina ne fa la seconda potenza economica mondiale dietro gli Stati Uniti. Centinaia di milioni di cinesi hanno conquistato l’accesso ai consumi di elettrodomestici, automobili, computer, telefonini. Il reddito medio del popolo più vasto del mondo, secondo i dati forniti dal Fondo monetario internazionale, era di appena mille dollari annui nel 2001 (a prezzi correnti), cinque anni dopo raggiungeva i duemila dollari. Nello stesso periodo la Cina è diventata il terzo esportatore mondiale dietro Germania e Stati Uniti, il primo esportatore di prodotti tecnologici: personal computer e telefoni cellulari, stampanti e fax, semiconduttori elettronici. La sua Banca centrale è la più ricca del mondo, con riserve ufficiali stimate nel 2008 oltre i 1900 miliardi di dollari. La Cina ha ottenuto questi risultati rispettando una parte degli impegni derivanti dall’appartenenza alla WTO, anche se permane una vasta zona d’illegalità nell’industria della contraffazione che suscita due ordini di problemi per l’Occidente: da una parte la concorrenza sleale del made in China per diversi produttori (dalla moda italiana al software americano, dagli orologi svizzeri ai DVD dei film di Hollywood), dall’altra un allarme per la salute dei consumatori, quando i prodotti contraffatti sono medicinali o alimenti. È però riduttivo dipingere l’ascesa cinese soltanto nell’ottica della pirateria. I dazi cinesi sono stati ridotti in cinque anni, per effetto dell’appartenenza alla WTO, da una media del 15,3% fino al 9,9%. Non è solo una potenza manifatturiera ed esportatrice, è anche un’importante acquirente di prodotti stranieri. Fra i maggiori Paesi asiatici la Cina è il più aperto. Le importazioni valgono il 30% del suo PIL, contro l’11% per il Giappone, che pure è da molto più tempo un’economia capitalistica integrata con l’Occidente. Pechino, più di Tokyo o Nuova Delhi, ha anche aperto le braccia agli investitori occidentali. Gli investimenti esteri sono passati da 40 miliardi di dollari all’anno nel 2001 a 70 miliardi annui nel 2006. La Cina è diventata la seconda destinazione favorita dai capitali di tutto il mondo, dietro gli Stati Uniti.
L’effetto della crescita cinese sul resto del mondo è espresso in questo dato: fin dall’inizio della sua adesione alla WTO Pechino ha contribuito per il 13% alla crescita mondiale; nel biennio 2005-06 il suo contributo è salito al 33%, facendo del Paese una nuova locomotiva dello sviluppo internazionale. La Cina ha accumulato regolarmente un attivo commerciale con gli Stati Uniti e con l’Europa; è stata spesso in deficit nel suo interscambio con il resto dell’Asia, l’Africa e l’America Latina, zone da cui acquista materie prime, energia, derrate agricole e prodotti semilavorati. Da questo punto di vista una delle conseguenze dell’ingresso della Cina nel commercio mondiale è stata il trasferimento di risorse dal Nord al Sud del pianeta. Non c’è stato invece un effetto perequativo al suo interno. La Banca mondiale stima che negli anni della crescita spettacolare il 10% di cinesi che vive sotto la soglia della povertà ha subito un peggioramento in termini assoluti delle proprie condizioni.
Le contraddizioni dell’economia
La Cina è la seconda economia del mondo, ma il suo reddito pro capite figura solo al centesimo posto nella classifica mondiale: è la prima ‘superpotenza povera’ nella storia. La modernizzazione economica cinese ha beneficiato almeno 400 milioni di persone nel ventennio a cavallo del passaggio di secolo, ma nel 2006 ben 415 milioni di cinesi vivevano ancora con un reddito inferiore ai 2 dollari al giorno, su una popolazione complessiva stimata intorno a 1,3 miliardi di abitanti. La Cina laurea ogni anno 800.000 studenti in ingegneria e scienze, tuttavia ha solo 120.000 avvocati, un indicatore rudimentale, ma significativo dell’assenza di uno Stato di diritto. La Cina ha confini terrestri di 20.000 km con 14 Paesi e aumenta il suo bilancio militare con percentuali di due cifre ogni anno, ma non ha più combattuto una guerra dopo il conflitto sino-vietnamita del 1979. È cresciuta in media del 10% all’anno in un trentennio, ha decuplicato il prodotto pro capite dal 1978 al 2006, ha sollevato più di 200 milioni di persone dalla soglia di povertà dal 1990 al 2004. Resta un ‘Paese ricco pieno di poveri’: il reddito pro capite nel 2008 è ancora un quindicesimo di quello americano. La sua competitività non si basa esclusivamente sul basso costo del lavoro: i salari rappresentano solo il 20% del costo di produzione nella sua industria tessile e il 5% nell’elettronica. Le previsioni delle principali istituzioni economiche multilaterali indicano che prima della metà del 21° sec. la Cina sarà la più grossa economia mondiale. Per la prima volta nella storia il leader economico sarà un Paese dalla popolazione ancora mediamente povera e – in assenza di una rottura di sistema – governato da istituzioni politiche non democratiche.
La Cina è una delle economie più aperte tra i Paesi emergenti. La quota del suo PIL che è oggetto di interscambio con l’estero (la somma delle sue importazioni ed esportazioni) è elevata: i due terzi. Le multinazionali estere e le joint ventures tra imprese straniere e cinesi generano il 30% di tutta la produzione manifatturiera; il 60% del loro prodotto è rivenduto sul mercato interno, a riprova che la Cina non è solo export oriented e che la sua capacità di attirare le multinazionali è legata all’opportunità del suo mercato interno più che alla logica della delocalizzazione (produzione a basso costo salariale e riesportazione). Benché la Cina abbia consistenti flussi di investimenti esteri essi rappresentano solo il 5% della sua formazione di capitale. Questo perché la Cina ha un’alta propensione al risparmio e un ricco giacimento di capitale interno per autofinanziare i propri investimenti. Nel 2006 la Repubblica popolare ha sorpassato il Giappone e ogni singolo Paese dell’Unione Europea per volume di investimenti in ricerca e sviluppo: 136 miliardi di dollari. La performance cinese è il risultato di due sforzi congiunti: da una parte l’aumento dei finanziamenti pubblici ai laboratori di ricerca scientifica delle università; dall’altra una politica che incentiva le multinazionali straniere a investire per aprire non solo fabbriche, ma anche centri di ricerca. Le attrattive della Cina come base per la ricerca sono tali da superare le remore che le imprese straniere hanno riguardo alla bassa protezione dei copyright. Il sorpasso della Cina sul Giappone e sui Paesi europei nella ricerca è il frutto di un’attenzione che la classe dirigente di Pechino dedica a questo obiettivo: trasformare il Paese da ‘fabbrica del mondo’ a superpotenza tecnico-scientifica. Dalle nanotecnologie alla genomica, le autorità di governo hanno incoraggiato le università di eccellenza a misurarsi con le migliori istituzioni accademiche occidentali. Le multinazionali biofarmaceutiche hanno aperto nuovi centri di ricerca in Cina, incoraggiate anche dall’esistenza di minori vincoli etico-legislativi alla sperimentazione medica e genetica. L’abbondante offerta di neolaureati con salari ancora nettamente inferiori a quelli occidentali spiega l’interesse crescente delle multinazionali. Il contributo della Cina agli studi scientifici di nanotecnologia è secondo solo a quello degli Stati Uniti. Nel 2007 ha sorpassato la Germania per il numero di brevetti tecnologici internazionali depositati.
L’11 gennaio 2007 la Cina ha distrutto con un missile uno dei propri satelliti meteorologici, in orbita a 800 km di altezza. Il test ha segnalato un balzo di qualità nella tecnologia cinese in uno scenario di ‘guerre stellari’, aggiungendosi ad altri preparativi della Cina per diventare una superpotenza militare a tutto campo: il forte aumento del budget per la difesa di Pechino (dell’ordine del 18% annuo), la modernizzazione del suo arsenale nucleare, la creazione di una marina militare in grado di agire a grandi distanze, il programma per creare una stazione orbitale abitata e inviare astronauti cinesi sulla Luna. Un ingrediente cruciale di questa ascesa scientifico-tecnologica è la scelta decisiva delle classi dirigenti di attingere ai talenti della diaspora, di invertire la fuga di cervelli, di cooptare forze fresche formatesi all’estero, catapultando questi outsider ai vertici della propria economia. Su 750 centri di ricerca e sviluppo facenti capo a imprese multinazionali, la maggioranza è diretta da manager cinesi che si sono formati e hanno lavorato all’estero, e sono tornati in Cina quando il Paese è diventato per loro un’alternativa attraente rispetto a una carriera negli Stati Uniti o in Europa. Le ‘tartarughe di mare’, come i cinesi chiamano i loro connazionali della diaspora tornati in patria, nel 2007 rappresentavano l’81% dei membri della prestigiosa Accademia delle scienze. Questa capacità di invertire la tendenza alla fuga dei cervelli sta accelerando il rinnovamento della classe dirigente del Paese.
Un aspetto rilevante per l’impatto della crescita economica cinese sul resto del mondo è l’aumento degli investimenti esteri della Repubblica popolare, in particolare investimenti compiuti da aziende di Stato e fondi sovrani che hanno acquisito partecipazioni azionarie in imprese straniere. Un esempio di questo tipo di operazioni si è verificato nel dicembre 2007 per opera della China investment corporation (CIC), il fondo sovrano della Repubblica popolare, che con 5 miliardi di dollari ha acquisito il 10% del capitale azionario della banca statunitense Morgan Stanley, colpita dalla crisi dei mutui. Il fondo sovrano CIC è l’emanazione della Banca centrale di Pechino. Come contropartita finanziaria dei loro prolungati deficit commerciali gli Stati Uniti hanno consentito che la Repubblica popolare accumulasse nel 2008 oltre 1900 miliardi di dollari di riserve valutarie. Ottocento di quei miliardi sono stati investiti in titoli del Tesoro statunitense. Ancor prima della creazione del fondo sovrano, avvenuta nel 2007, la Cina aveva messo a segno rilevanti acquisizioni all’estero. Nel 2004 la Telecom di Shanghai si era comprata la divisione di telefonia mobile della francese Alcatel e la marca americana di televisori RCA. Il 7 dicembre di quell’anno l’azienda informatica Lenovo rilevava il settore personal computer della IBM. Nel settore finanziario, durante il 2007 anche il fondo d’investimento americano Blackstone, la banca inglese Barclays e la belga Fortis hanno accolto nel loro capitale degli azionisti di Stato cinesi. Già alla fine del 2006 il ministero del Commercio di Pechino censiva diecimila grandi imprese nazionali presenti all’estero con investimenti diretti in 160 Paesi.
Uno dei criteri delle acquisizioni all’estero è la ricerca di accesso alle risorse naturali, dall’energia ai minerali, dalle foreste alle derrate agricole. Canada e Australia, Brasile e Indonesia, ossia tutti i grandi produttori di materie prime hanno registrato un aumento degli investimenti cinesi. Il Medio Oriente ha visto ugualmente una rapida ascesa dei suoi legami economici con Pechino. Alla fine del 2007 risultavano 352 imprese cinesi presenti in Egitto, che politicamente è uno degli alleati più fedeli di Washington. Gli investimenti cinesi sono saliti considerevolmente in Arabia Saudita, negli Emirati Arabi Uniti, in Algeria. La compagnia petrolifera Sinopec ha ottenuto dall’Irān lo sfruttamento dei grandi giacimenti di Yadavaran con 18,3 miliardi di barili di petrolio di riserve. Il Pakistan ha accolto 100 imprese cinesi in ‘zone riservate’ e ha concesso a Pechino un accesso privilegiato alle sue miniere di ferro, ai progetti di infrastrutture energetiche e di trasporto. Nell’Afghānistān il China metallurgical group si è aggiudicato la più vasta miniera di rame; 750.000 manager, quadri e tecnici delle imprese cinesi erano presenti in Africa alla fine del 2007. Nella maggiore banca del Sudafrica è entrata come azionista al 20% la Industrial and commercial bank of China. Nell’espansionismo cinese appare evidente l’impronta di una nuova classe dirigente, tecnocratica e pragmatica. Il capo dello Stato e del Partito comunista Hu Jintao e il premier Wen Jiabao, due ingegneri di formazione, si sono infatti circondati di una nuova generazione di amministratori tra i quali spiccano in modo particolare il delfino emergente Li Keqiang, con Ph.D. di economia all’università di Pechino, un ministro degli Esteri laureato alla London school of economics, un ministro della Ricerca scientifica ex dirigente della Audi in Germania.
Diseguaglianze: città e campagne
Viene stimata a circa 900 milioni di persone la popolazione rurale del Paese. In Cina vive il 40% di tutti i contadini del pianeta. L’altra faccia del miracolo economico cinese è stata sintetizzata nel novembre 2006 da uno studio della Banca mondiale relativo al periodo 2001-2003: in quel triennio di crescita, il 10% della popolazione vide il proprio reddito diminuire del 2,4%. Nello stesso periodo il 10% dei cinesi più ricchi registrava un aumento del reddito del 16%. La condizione di vaste masse di contadini all’inizio del 21° sec. era segnata ancora da ingiustizie profonde, dall’arbitrio e dall’oppressione da parte del ceto politico. Il prelievo di imposte e balzelli fiscali – spesso illegali – è lo strumento di un’estorsione sistematica da parte della nomenclatura comunista a danno dei più poveri. Perfino la politica del controllo delle nascite è il pretesto per incassare tangenti. La situazione nelle regioni più arretrate sembra segnata dall’inesistenza di regole e diritti. In molte regioni povere sotto le bandiere del Partito comunista comandano clan mafiosi con le loro milizie private, protetti dalla collusione o dall’asservimento delle autorità dello Stato, dalla magistratura alla polizia. Il governo di Pechino spesso ha affermato la propria estraneità agli abusi perpetrati localmente, tuttavia le frequenti rivolte contadine sono state soffocate con il beneplacito delle autorità nazionali.
In Cina la superficie coltivabile per cereali è di soli 600 m² per abitante, contro 1900 m² per abitante negli Stati Uniti, eppure la forza lavoro americana impiegata in agricoltura è solo il 2% della popolazione attiva. La manodopera cinese ancora impiegata nei lavori agricoli è in larga parte sovrabbondante, improduttiva, sottoutilizzata, e questa è una causa strutturale della sua miseria. L’agricoltura cinese non potrà mai fornire raccolti e redditi sufficienti a garantire un tenore di vita dignitoso a centinaia di milioni di famiglie. Un ulteriore paradosso sta nel fatto che le terre più fertili e generose – nelle aree meridionali dove il riso dà fino a tre raccolti l’anno e dove fioriscono anche le colture ortofrutticole più pregiate – si trovano nelle stesse regioni dove è esplosa l’industrializzazione, come il Guangdong. Non a caso nel Guangdong la conflittualità contadina è particolarmente diffusa: è la zona dove la nomenclatura ha maggiori opportunità di profitto espropriando i contadini e cedendo i loro campi a imprenditori che vi costruiscono fabbriche o insediamenti residenziali. In gran parte della Cina, invece, dal Tibet allo Xinjiang alla Mongolia interna, avanza la desertificazione e i rendimenti delle terre agricole sono esigui. Il fatto che la Cina sia diventata una grande esportatrice mondiale di prodotti ortofrutticoli non impedisce che nelle produzioni di base – come il riso, i cereali, la soia – essa sia destinata a non essere autosufficiente. L’espulsione di massa dalle campagne appare un processo inevitabile e destinato a protrarsi molto a lungo.
La fuga dei contadini cinesi verso le fabbriche e i cantieri urbani dà luogo ad altri focolai di tensioni sociali. Nelle città il destino che attende gli immigrati rurali è quello di cittadini di serie B, vittime di una sorta di apartheid. Privi dello status di residenti urbani, gli immigrati dalle campagne non hanno diritto all’assistenza sanitaria né alle scuole per i figli. Sono condannati ai lavori più umili, sottopagati, ricattati dai datori di lavoro. Quel miglioramento delle libertà personali che negli ultimi decenni ha sostanzialmente cambiato la qualità della vita dei cittadini rispetto ai tempi di Mao Zedong resta spesso inaccessibile al nuovo sottoproletariato, confinato nelle squallide periferie delle megalopoli. Il ceto medio urbano mostra un’assuefazione di fronte allo spettacolo della miseria di tanti concittadini. Questa indifferenza all’altrui povertà è probabilmente una reazione a trent’anni di egualitarismo maoista, seguiti da una evidente rivincita dell’individualismo. Sospettose circa gli slogan retorici sull’interesse collettivo, intere generazioni di cinesi vivono un riflusso nel privato, concentrate sui propri interessi individuali, di famiglia, di clan. Per reazione ai danni del maoismo ha vinto in Cina la ricetta americana che accetta un alto grado di diseguaglianze e di rischio, pur di avere una società più dinamica. Non è detto tuttavia che questo nuovo senso comune nazionalpopolare di stampo darwiniano sia il più adatto a governare lo tsunami sociale dell’esodo dalle campagne, che rovescia sui centri urbani dai 15 ai 20 milioni di nuovi abitanti ogni anno. Nel razzismo cinese contro gli immigrati dell’interno non c’è nulla di nuovo sotto il sole, salvo la dimensione demografica dei fenomeni. Non ha precedenti nella storia umana questo spostamento di massa. Decine di metropoli ipertrofiche rischiano di trovarsi presto oltre la soglia della governabilità. Il solco antropologico che si scava tra le due Cine è foriero di tensioni esplosive. Cresce la criminalità nelle periferie urbane trasformate in ghetti di ex contadini. I cittadini cinesi dei ceti medio-alti parlano correntemente degli immigrati rurali come dei nuovi barbari.
Come si attrezza il regime per gestire i conflitti legati al crescente divario città-campagna? Una risposta è la politica di «costruzione di un nuovo socialismo nelle campagne», lanciata dal presidente Hu Jintao e dal premier Wen Jiabao all’Assemblea nazionale del popolo svoltasi nel marzo 2006. Il termine socialismo non è mai stato abbandonato nella retorica ufficiale del regime, neanche in questi trent’anni in cui la Cina ha abbracciato l’economia di mercato. Il nuovo approccio alla questione rurale rivela il tentativo di imprimere una correzione di rotta al modello di sviluppo, non una svolta radicale: un rallentamento della crescita, maggiore attenzione alla qualità dello sviluppo, priorità all’emergenza ambiente e alla lotta contro le diseguaglianze. Aprendo i lavori dell’Assemblea, Wen Jiabao ha ricordato che la modernizzazione della Cina «attraversa una fase molto difficile, si sono accumulati dei conflitti profondi e nascono problemi nuovi che non possiamo ignorare». Ha annunciato un piano quinquennale per «arrestare la distruzione sistematica dell’ambiente». Ha denunciato la mancanza di assistenza sanitaria, di istruzione e alloggi per la parte più povera della popolazione. Ha ammesso che «gli espropri delle terre dei contadini, la corruzione e l’inquinamento minacciano la stabilità sociale». Il governo ha sottolineato che nel 2005 si sono verificati 87.000 scontri violenti con le forze dell’ordine, per lo più proteste di contadini espropriati delle terre per far posto a nuove fabbriche o a speculazioni edilizie; il new deal presentato da Wen Jiabao è quindi un tentativo di ricucire un consenso sociale entrato in crisi nelle zone più arretrate del Paese. Le misure concrete annunciate nel marzo 2006 hanno riguardato il finanziamento degli ospedali nelle zone rurali, l’istruzione gratuita, nuovi sussidi per i coltivatori di cereali, un piccolo aumento delle pensioni e delle indennità di disoccupazione. Wen Jiabao ha deluso chi sperava in una misura più radicale: la riforma del regime di proprietà terriera nelle campagne. È questa infatti la base giuridica fondamentale che spiega molte proteste contadine. Mentre i cittadini sono liberi di comprare e vendere le loro case, i terreni agricoli sono ancora soggetti alla decisione delle autorità locali.
La condizione operaia
Un indicatore del cambiamento della condizione della classe operaia cinese si è registrato all’inizio del 2008. Il segnale è arrivato dopo il Capodanno lunare. Finite le vacanze come ogni anno si è aperta la fiera delle assunzioni a Guangzhou (Canton), la città più sviluppata nella regione meridionale del Guangdong. L’hanno battezzata job fair: è un mercato all’ingrosso delle braccia, dove i capireparto delle fabbriche vanno a reclutare lavoratori immigrati dalle campagne. Nel febbraio 2008 alla job fair sono andati in pochissimi. Molti posti di lavoro sono rimasti scoperti per mancanza di operai. Eppure le autorità provinciali del Guangdong avevano appena alzato il salario minimo del 13%. Ma pochi sono disposti a lavorare per il minimo contrattuale. Lungo il delta del Fiume delle Perle, tra Guangzhou, Shenzhen e Dongguan, il boom cinese verificatosi nella prima decade del 21° sec. ha portato la piena occupazione. Anche se non esiste il diritto di sciopero, né un sindacato libero come nei Paesi occidentali, la legge della domanda e dell’offerta gioca in favore degli operai. Le imprese si contendono la manodopera qualificata con gli aumenti salariali. I lavoratori hanno ricevuto anche un aiuto dall’alto. Preoccupato per la stabilità sociale, nel gennaio 2008 il governo ha varato una sorta di Statuto dei lavoratori: una legge che rende meno facili i licenziamenti, impone liquidazioni di buonuscita, obbliga al pagamento degli straordinari. Non è una rivoluzione, e resta da verificare quanti imprenditori riusciranno a eludere le regole comprando la complicità delle autorità locali. Ma è un segnale del cambiamento. Naturalmente anche dopo questi miglioramenti i differenziali salariali rispetto all’Occidente rimangono formidabili. Nel settore automobilistico il lavoro di un metalmeccanico tedesco nel 2008 costa 37 dollari all’ora contro un dollaro e 40 centesimi del suo omologo cinese (i differenziali salariali, comunque, non si traducono in divari di potere d’acquisto proporzionali: anche il costo della vita è molto più basso in Cina). L’aumento salariale cinese risponde a una logica economica: vengono eliminate le imprese più inefficienti. La riforma del diritto del lavoro rientra in una strategia industriale di lungo periodo. I tecnocrati di Pechino vogliono che l’industria cinese si sposti su produzioni a più alto contenuto tecnologico, anziché rimanere inchiodata nei settori come il tessile-abbigliamento. Dopo esserne state beneficiate per decenni, le regioni sviluppate della Cina possono diventare a loro volta le vittime della delocalizzazione. Un’opzione per gli imprenditori è spostarsi nelle regioni interne della Cina, dove è disponibile un esercito di riserva di centinaia di milioni di contadini poveri, disposti a lavorare per salari molto inferiori. Ma le fasce costiere hanno un’efficienza competitiva fatta di molti ingredienti. Grazie agli scali portacontainer di Shanghai e Shenzhen, i vestiti made in China arrivano nei grandi magazzini americani in soli 20 giorni.
L’emergenza ambientale
Ogni contadino cinese che abbandona l’agricoltura e si trasferisce in città a lavorare aumenta in media il proprio contributo al Prodotto interno lordo del 700%. Di altrettanto cresce il suo consumo complessivo di risorse naturali. Dall’inizio del 21° sec. ogni anno in media sono 15 milioni i cinesi che lasciano le campagne, attirati dalle metropoli industriali. Fra queste nel 2008 primeggiava Chongqing con 30 milioni di abitanti, Pechino e Shanghai si avvicinavano ai 20 milioni ciascuna, varie altre città, come Guangzhou, Shenzhen, Hong Kong, Hangzhou, Tianjin, Chengdu, Nanchino, superavano la soglia dei 10 milioni. Le città sono il luogo dove oggi la Cina vive due emergenze gemelle: il boom dei consumi energetici e l’esplosione dell’inquinamento. L’urbanizzazione è la chiave decisiva per capire il dramma che il Paese sta attraversando alle prese con i suoi ‘limiti dello sviluppo’. Già alla fine del 2006 la Cina ha conquistato un nuovo record: è il numero uno mondiale per la quantità di anidride carbonica rilasciata nell’atmosfera. A partire da quell’anno ha strappato agli Stati Uniti il nefasto primato nella responsabilità del cambiamento climatico. Un contributo al sorpasso cinese è venuto dal potenziamento della produzione di energia elettrica. Anche questo è un effetto della modernizzazione: più fabbriche, più cantieri edili, maggiori consumi legati all’urbanizzazione (elettrodomestici, condizionatori, computer). In un settore industriale come il cemento, che è tra quelli che richiedono un maggior impiego di energia, la Cina concentrava nel 2008 il 44% dell’intera produzione mondiale. Per soddisfare il boom dei bisogni di elettricità, nel quinquennio 2002-2007 la Repubblica popolare ha aumentato del 150% il suo parco centrali. In otto anni la Cina ha aperto 550 nuove centrali termoelettriche, l’equivalente di tutte le centrali esistenti nell’intera Unione Europea. I due terzi delle centrali termoelettriche cinesi sono a carbone, la fonte energetica più inquinante in CO2. Vi è poi il boom della motorizzazione privata.
Ai tempi di Mao Zedong e della Rivoluzione culturale i cinesi non erano privati soltanto della libertà politica e del diritto di espressione; tra le libertà di base negate c’era il diritto di muoversi. In un Paese grande quanto l’Europa occidentale, i cinesi sono vissuti a lungo come prigionieri nelle singole città o province. Per viaggiare all’interno della Cina occorreva chiedere il permesso. Questo aiuta a capire con quanto entusiasmo i cinesi del 21° secolo vivono la ‘storia d’amore’ con l’automobile, che per loro è qualcosa di più di uno status symbol: è lo strumento di una nuova libertà, il diritto di viaggiare, la mobilità individuale finalmente a portata di mano. Quando questo sogno viene inseguito dal popolo più numeroso della Terra, lo shock si sente in ogni angolo del pianeta. In Cina nel 2007 sono stati venduti più di 6 milioni di vetture, con un incremento del 20% da un anno all’altro, e tuttavia vi è spazio per aumenti ben più consistenti. Alla fine del 2007 i cinesi che possedevano un’auto erano soltanto il 4% della popolazione, contro il 60% in Europa e l’80% negli Stati Uniti. L’Agenzia internazionale per l’energia (AIE) ha stimato che entro il 2030 i cinesi avranno sette volte più automobili che nel 2007, arriveranno così a 270 milioni di vetture in circolazione, e il loro consumo di energia sarà più che raddoppiato. È previsto nel 2010 il sorpasso della Cina sugli Stati Uniti per il consumo di petrolio. L’imperativo di ridurre i consumi energetici per contenere l’inquinamento appare in termini diversi, visto dalla Cina. Da una parte il cambiamento climatico è stato innescato dall’inquinamento accumulato nei decenni passati, quando il ruolo della Cina era marginale. Dall’altra anche le responsabilità attuali appaiono sotto una luce diversa, se invece delle quantità totali si guarda alle emissioni pro capite. L’impatto distruttivo della Cina è legato alla dimensione della sua popolazione di 1,3 miliardi di abitanti. Ma i singoli cittadini della Repubblica popolare hanno consumi molto inferiori a quelli dei Paesi occidentali. Nel 2007 le emissioni carboniche imputabili a tutti i consumatori cinesi erano appena un quarto di quelle degli americani e un terzo rispetto a quelle degli europei.
Ciononostante, i dirigenti cinesi si rendono conto che le dimensioni demografiche del loro Paese costituiscono un problema: l’impatto della popolazione cinese sulle risorse naturali del pianeta è senza precedenti. Non a caso i vertici della Repubblica popolare hanno mantenuto la politica del controllo delle nascite e la regola del figlio unico. Sulla dimensione della popolazione si innesta un’altra aggravante. Il modello di sviluppo che ha prevalso nella fase di decollo industriale della Cina – fondato sul suo ruolo di fabbrica del pianeta – ha assegnato un’importanza dominante ai settori industriali più ‘energivori’, dal cemento all’acciaio, dall’automobile all’edilizia. Su questi settori sono stati posti pochissimi vincoli in termini di efficienza energetica. In ogni settore produttivo il Paese ha usato tecniche di produzione che consumano più energia dei propri concorrenti giapponesi, europei o americani. Cambiare questo modello di sviluppo richiederà sacrifici non agevoli, anche in termini di consenso sociale. Per il governo di Pechino il consenso del ceto medio urbano è un elemento fondamentale della stabilità politico-sociale, di qui la difficoltà a prendere misure che scoraggino l’acquisto o l’uso dell’automobile privata. Lo stesso vale per la pessima qualità della benzina: le compagnie petrolifere di Stato sono una lobby potente, che ha rinviato a lungo gli investimenti necessari per ammodernare gli impianti di raffinazione e produrre un carburante più pulito. Per incentivare riduzioni nei consumi di energia occorre l’adozione di prezzi trasparenti che facciano pagare agli utenti il vero costo delle risorse naturali saccheggiate, una scelta che la Repubblica popolare ha preferito rinviare per molti anni. Tutti i prezzi del comparto energetico, dalla corrente elettrica alla benzina al gasolio per i motori diesel, sono rimasti per lungo tempo sussidiati, troppo bassi rispetto ai costi effettivi. I comportamenti di ogni categoria – dagli imprenditori ai costruttori edili, dagli automobilisti alle ditte di trasporto – sono stati distorti da una struttura dei prezzi che non incentiva i risparmi.
Il modello di sviluppo cinese ha anche implicazioni geostrategiche. La Cina si è affacciata con piglio sempre più aggressivo in Medio Oriente, Africa e America Latina a contendere le stesse fonti di approvvigionamento da cui dipende l’Occidente. Ancora alla fine degli anni Ottanta la Cina era il più grande esportatore di petrolio di tutto l’Estremo Oriente; nel 2005 è diventata il secondo importatore mondiale di greggio; nel corso del 2007 almeno un terzo dell’aumento della domanda di petrolio mondiale è venuto dalla Repubblica popolare. La politica estera cinese è guidata dall’imperativo energetico, e lo è con un approccio particolare: Pechino attraverso la sua industria petrolifera di Stato si accaparra giacimenti stranieri, ‘blindandoli’ con contratti di fornitura a lungo termine in cambio di investimenti cinesi nelle infrastrutture locali. Dall’Irān al Sudan, dall’Angola all’America Latina, così come in molti Paesi del Sud-Est asiatico, la Cina ha usato la sua ricchezza finanziaria per bloccare a lungo termine l’accesso a giacimenti petroliferi, offrendo a quei Paesi il proprio modello di modernizzazione. L’espansione del capitalismo cinese nel mondo attraverso le acquisizioni è anch’essa in larga parte guidata dall’imperativo di conquistare accessi alle risorse petrolifere. Altri aspetti della strategia di sviluppo cinese sono condizionati dalla previsione di un futuro senza petrolio, o con una quantità sempre più scarsa: la crescente dipendenza dal carbone per la produzione di energia elettrica; il rilancio del nucleare con tecnologie francesi, americane e giapponesi (prevista la costruzione di oltre 30 centrali nel decennio successivo al 2008); gli immensi progetti idroelettrici già conclusi, come la diga delle Tre Gole, o in via di completamento a costo di deportare milioni di persone; infine lo sviluppo dell’energia eolica e solare la cui diffusione massiccia ha trasformato paesaggi come il Deserto del Gobi e la steppa mongola. Un’altra minaccia immediata di dimensione sovranazionale riguarda la salute. Desertificazione, diminuzione delle terre coltivabili, penuria d’acqua aprono in maniera drammatica scenari di possibili crisi alimentari e sanitarie.
La classe dirigente
Nei primi anni del nuovo secolo la leadership comunista cinese è giunta alla terza generazione dei successori di Mao Zedong. Elementi di continuità e di cambiamento sono presenti in egual misura nella cultura, nello stile e negli obiettivi di questa classe dirigente. Un esempio è Hu Jintao, segretario generale del Partito comunista (dal 2002) e presidente della Repubblica (dal 2003). Di formazione ingegnere idraulico, egli fu designato come futuro leader del Paese già da Deng Xiaoping, l’artefice alla fine degli anni Settanta delle grandi riforme. Deng fu l’ultimo capo carismatico ad avere una tale autorità sul partito da poter condizionare due cicli di successione: prima Jiang Zemin, poi Hu Jintao. Nel passaggio da Mao a Deng, e poi da Jiang a Hu, ‘sono decresciuti’ sia il livello di potere individuale, sia il prestigio personale. L’epoca di Hu Jintao è contrassegnata da una direzione sempre più collegiale. I cinesi sanno poco di lui e la sua figura non ha mai suscitato grandi passioni. Il leader del popolo più numeroso del pianeta, alla guida di una superpotenza che sfida gli Stati Uniti, è avvolto nel mistero. La sua vita privata, il suo carattere e i suoi gusti sono sconosciuti. Fin dalla giovinezza ha coltivato l’arte di non rivelarsi, che gli è stata preziosa, prima per sopravvivere, poi per organizzare la sua ascesa.
Figlio di un commerciante di tè della provincia del Jiangsu, Hu ha dovuto rendere le proprie origini invisibili per evitare la persecuzione durante la Rivoluzione culturale. All’università Qinghua, tra le più prestigiose di Pechino, si laureò in ingegneria mentre esplodeva il radicalismo delle Guardie rosse. Da un giorno all’altro opposte fazioni vincevano o perdevano battaglie violente; si cadeva in disgrazia facilmente. I colleghi di università ricordano la sua capacità di andare d’accordo con tutti. La sua biografa ufficiale, la storica Ma Ling, lo descrive come una persona che «controlla quello che dice fin dall’adolescenza». Perfino una volta raggiunto l’apice del potere, raramente Hu ha espresso un’opinione personale. Una volta al mese convoca la cupola del regime a Zhongnanhai, il quartier generale della nomenclatura a fianco della Città Proibita. Da quando Hu è salito al vertice del partito nel 2002 le riunioni del Politburo sono diventate brevi, operative, per ascoltare relazioni di esperti dell’Accademia delle scienze su temi concreti: l’economia, l’energia, la ricerca scientifica. Quando Hu trae le conclusioni riassume quello che è stato detto, senza prendere posizione. Il momento delle scelte deve essere preparato e mediato in un circolo ancora più ristretto, al riparo da ogni curiosità. In televisione non parla a braccio. Le sue conferenze stampa non prevedono domande. Perfino nei vertici internazionali come il G8, che hanno qualche parentesi di confidenzialità, Hu nei dialoghi con gli altri leader non improvvisa. Sulle manovre politiche che avvengono nel quadrilatero di Zhongnanhai si stende una cortina impenetrabile. Nonostante questo riserbo ossessivo la storia di Hu contiene indizi sufficienti per capire la natura del blocco di potere che si coagula attorno a lui. Nella sua carriera spiccano tre incarichi nelle province dell’impero. Quattordici anni come capo del partito nel Gansu, ai bordi del Deserto del Gobi, e poi lo stesso ruolo nel Guizhou a metà degli anni Ottanta, lo hanno messo a confronto con regioni povere. Da allora Hu non ha dimenticato che un problema centrale per la Cina è l’arretratezza in cui è ancora immersa una larga parte del Paese. Il terzo posto di comando periferico fu il Tibet. Era il 1987, a Pechino soffiava un vento di liberalizzazione che preparava la ‘primavera’ studentesca. I tibetani si illusero di poter rivendicare l’autonomia e il ritorno del Dalai Lama. Le manifestazioni si moltiplicavano, con i monaci buddisti come protagonisti. Hu non esitò a proclamare la legge marziale nel Tibet nel 1988: fu un segnale premonitore, la prova generale della repressione che il suo protettore Deng usò l’anno dopo a Piazza Tian’anmen. Il primato del partito e la necessità di conservare il controllo sulla società civile sono rimasti i principi guida. Al tempo stesso la sua qualifica di ingegnere è il marchio distintivo di una classe dirigente pragmatica, che crede nella scienza e nella tecnica e non vuole ripiombare in stagioni di ideologismi come fu durante la Rivoluzione culturale. Il suo premier dal 2003 è Wen Jiabao, ingegnere-geologo. Molti membri della terza generazione del comunismo cinese hanno fatto studi tecnici, si sono cimentati con l’agronomia o la gestione di industrie di Stato. Il metodo per la selezione di questa élite è rimasto quello della cooptazione: sono i capi di oggi che promuovono i successori, obbedienza e fedeltà sono più apprezzate dell’originalità. La democrazia dal basso resta un’illusione. Il decentramento e l’autonomia regionale coprono l’esistenza di feudi locali, riottosi perché più corrotti e inefficienti del governo centrale. Tutto questo non impedisce che a ogni congresso del partito avvenga un ricambio generazionale. Nel congresso del 2007, per esempio, venne sostituito il 60% del Comitato centrale. Il vero esercizio del potere risiede nel Politburo di 22 membri e nel Comitato esecutivo (nove persone).
L’obiettivo cui Hu dedica un’attenzione estrema è la stabilità. Società armoniosa, lo slogan d’impronta confuciana da lui adottato, vuol dire cose diverse. Un capitalismo un po’ meno selvaggio, con un’inflessione socialdemocratica che redistribuisce qualcosa anche agli operai poveri, ai contadini. Un paternalismo autoritario, che assegna al partito il diritto di governare senza offrire alcun tipo di alternativa. Un rifiuto dei conflitti aperti, che vanno prevenuti attraverso il rigido controllo dell’informazione.
Il ruolo di Internet nel dibattito politico
Secondo la banca dati Internet world stats, nel 2008 i cinesi che hanno usato Internet hanno superato per numero gli utenti americani. La popolazione digitale cinese ha raggiunto nel giugno 2008 un totale di 258,1 milioni (comprendendo Hong Kong e Macao), contro 220,1 milioni negli Stati Uniti. Questo fenomeno rimette in discussione alcune convinzioni diffuse in Occidente. Internet è considerato uno strumento di apertura, circolazione delle idee e delle informazioni. Come si concilia l’esplosione dell’accesso alla rete, con la mancanza di libertà politiche a Pechino? C’è un elemento a favore di Pechino, rispetto ad altre dittature. Myanmar e Corea del Nord impongono forti restrizioni alla diffusione di Internet. Nell’Unione Sovietica dei primi anni Ottanta il possesso di un apparecchio fax richiedeva un permesso. La Cina è diversa. Non solo non ha ostacolato l’avvento di Internet: lo ha incoraggiato. Una caratteristica originale di Internet in Cina è il ruolo propulsore che lo Stato ha avuto nel suo sviluppo. Le autorità di governo hanno avuto inizialmente una funzione maggiore dei privati nel consentire la diffusione della rete. Come nel caso degli aeroporti e dei porti, delle telecomunicazioni e delle autostrade, Internet è stato considerato dai vertici del Partito comunista uno strumento al servizio dello sviluppo. E per definizione tutto ciò che contribuisce a mantenere alti ritmi di crescita economica è utile a cementare la stabilità del regime. Mentre negli Stati Uniti e in Europa Internet è cresciuto in maniera pervasiva, con un ruolo determinante degli interessi privati, in Cina il governo ha promosso e disegnato l’infrastruttura. Questo ha consentito di organizzarla secondo uno schema centralizzato, più facile da sottoporre a controlli. Gli utenti Internet in Cina si collegano alla rete globale passando attraverso sei ‘cancelli’ di interconnessione sorvegliati da agenzie statali. Esistono molti providers privati, ma possono operare soltanto collegandosi al resto del mondo attraverso quei sei cancelli e pagando il pedaggio politico imposto dal governo, cioè accettando la censura, la cui funzione consiste essenzialmente nell’oscurare l’accesso ai siti indesiderati. Sono invisibili per un utente che si trovi sul territorio cinese ben 19.000 siti stranieri sgraditi. Una censura più selettiva consiste nell’oscurare con precisione chirurgica solo quelle schermate che contengono le parole proibite contenute in un corposo libro nero del governo. Per sorvegliare l’informazione che circola in rete il governo impiega ben trentamila tecnici a tempo pieno, assistiti da programmi di software che filtrano le parole, cancellano, bloccano messaggi. Una caratteristica della ‘grande muraglia di fuoco’ è la sua flessibilità: l’intensità dello sbarramento censorio può variare, infatti, a seconda dei momenti e dell’opportunità politica.
Sarà Internet a cambiare la Cina, o sarà la Cina a piegare Internet? Tra la fine del 20° sec. e l’inizio del 21°, era forte in America e in Europa una corrente di pensiero impregnata di ottimismo economicista. Il mercato e le nuove tecnologie, secondo quella visione, avrebbero inevitabilmente spinto la Cina verso un’evoluzione liberaldemocratica. Oggi di riforme politiche a Pechino non v’è quasi traccia. È prevalso in molti (sia in Cina, sia in Occidente) un nuovo scenario: la previsione che l’autoritarismo cinese riesca a governare a lungo il mercato capitalista e che pieghi ai suoi fini le nuove tecnologie inventando così una nuova via allo sviluppo senza la libertà. In passato ci sono stati esempi di convivenza tra regimi autoritari e capitalismo (in Asia il Giappone, la Corea del Sud e Taiwan), ma erano tutti antecedenti alla rivoluzione dell’informazione esplosa con Internet nella seconda metà degli anni Novanta. Il fatto che la nazione più grande del mondo riesca a gestire un’economia capitalista senza concedere le libertà politiche, pur in presenza del nuovo mezzo d’informazione che è Internet, rappresenta una sfida senza precedenti per chi crede che democrazia e mercato prima o poi debbano convergere. La dimensione unica della Cina, la peculiarità della sua storia e della sua civiltà fanno temere che il connubio fra autoritarismo e mercato possa essere solido e durevole. L’efficienza della censura applicata dal governo di Pechino a Internet è diventata un simbolo per molti occidentali, che osservano i successi dell’apparato repressivo contro il dissenso. Gli episodi di collaborazionismo dei grandi gruppi americani Yahoo, Msn-Microsoft e Google con la censura cinese hanno accentuato il pessimismo. Alle attese ingenue di ieri sull’intrinseco potenziale democratico di Internet, fa seguito una disillusione altrettanto semplicistica. Come ogni strumento di comunicazione, dalla stampa alla televisione, anche di Internet si può dire che il medium è il messaggio e che esso ha un insopprimibile carattere liberatorio. Ma è indispensabile analizzare l’intero contesto, le dimensioni del nuovo fenomeno mediatico, gli attori in gioco, il punto di partenza, prima di azzardare giudizi e previsioni.
Una delle attività più popolari sono i videogame on-line. Un altro settore in cui i siti Internet si sono conquistati rapidamente un ruolo è il mercato del lavoro: nel novembre 2004 più di 72.000 neolaureati hanno preso parte al primo programma di assunzioni in cui le aziende presentavano le loro offerte di lavoro su Internet. La diffusione di Internet ha un impatto su ogni aspetto del costume e della vita sociale, dalla proliferazione dei blog e dei forum fino alle agenzie matrimoniali che fanno concorrenza al tradizionale ruolo dei genitori nel favorire la selezione e l’incontro di candidati sposi. Ci sono più navigatori Internet sotto i trent’anni in Cina (70 milioni) che in qualunque altra parte del mondo. La storia delle tecnologie dimostra che i laboratori di innovazione si creano laddove c’è il massimo numero di giovani consumatori e il massimo numero di giovani tecnici. Finora la Cina si è limitata ad applicare innovazioni nate altrove, ma in un prossimo futuro è ragionevole aspettarsi che diventerà un mercato fortemente innovatore. Questo spiega il forte interesse manifestato da tutte le multinazionali americane del settore – Microsoft, Google, Yahoo, eBay, Amazon – per il mercato cinese.
L’intervento del governo cinese su Internet non si limita alla dimensione negativa della censura. Altrettanto importante è l’uso attivo della rete da parte del regime, a fini di propaganda. Il governo di Pechino e le autorità locali hanno investito risorse importanti per creare e promuovere siti ufficiali. Almeno un decimo di tutti i siti Internet cinesi fanno capo direttamente a organizzazioni statali. I cinque siti più consultati per l’informazione sono quelli del «Quotidiano del popolo», dell’agenzia stampa Nuova Cina, di China radio international, del giornale in lingua inglese «China daily» e del China Internet information center: tutti sono di proprietà statale e sotto la gestione governativa. Un’altra modalità di intervento del regime su Internet consiste nel guidare i popolari forum on-line, spesso attraverso l’intervento in questi dibattiti di esperti e opinionisti che sono in realtà funzionari di governo. Questo uso di Internet a fini di propaganda e orientamento dei cittadini, tuttavia, non ha una valenza a senso unico. Se da un lato esprime una volontà di manipolazione del consenso, dall’altro consente nuove forme di partecipazione e lo sviluppo di un’opinione pubblica più attiva. La municipalità di Pechino ha lanciato fin dal 2003 il suo primo sondaggio on-line. Visitando il sito: www.beijing.gov.cn, i pechinesi possono assegnare i loro voti a 64 organi del governo locale. Da quando è stata lanciata questa iniziativa ogni anno in media 70.000 cittadini hanno espresso il loro parere sull’efficienza, la trasparenza e la legalità dell’amministrazione locale. I loro voti spaziano dagli aspetti più banali (hanno avuto un peso nel fare abrogare il divieto dei fuochi artificiali durante le feste del Capodanno lunare) fino a questioni cruciali di politica urbanistica, come il rispetto e il restauro degli antichi quartieri popolari situati attorno alla Città proibita. In mancanza di un’effettiva democrazia pluralista che consenta ai cinesi di scegliersi i propri governanti, Internet è uno strumento che il regime usa per conoscere gli orientamenti dell’opinione pubblica, onde evitare di essere colto di sorpresa da ondate di malcontento come quella scoppiata nel corso del 1989.
L’uso di Internet per tastare il polso della popolazione è giunto fino ai vertici massimi del potere. Il primo ministro Wen Jiabao dialoga on-line con i cittadini, in un forum appositamente organizzato dall’agenzia stampa ufficiale Nuova Cina sul suo sito www.xinhuanet.com. Alcuni utenti di Internet non hanno esitato a rivolgere al premier rimostranze e lamentele su problemi cruciali del Paese. Lo stesso primo ministro Wen Jiabao, durante la conferenza stampa a chiusura dell’assemblea legislativa del marzo 2006, ha accettato di rispondere ad alcune domande dei giornalisti occidentali riguardo alla censura governativa di Internet. «La libertà – ha detto Wen citando George Bernard Shaw – si accompagna alla responsabilità. Chi parla di democrazia deve passare meno tempo a leggere Aristotele e più tempo sugli autobus e nella metropolitana ad ascoltare quel che dice la gente. Internet si sta sviluppando rapidamente in Cina, e noi sosteniamo questo sviluppo. Il governo cinese deve sottoporsi apertamente al controllo e alla supervisione del popolo, anche attraverso l’uso di Internet. Secondo la costituzione cinese ogni cittadino ha diritto all’informazione; al tempo stesso ogni cittadino deve rispettare la legge, nell’interesse collettivo e della sicurezza nazionale. La Cina esercita su Internet un controllo in applicazione delle sue leggi. Facciamo inoltre affidamento sul senso di responsabilità e di autodisciplina degli Internet service providers. I siti on-line devono essere capaci di trasmettere i messaggi giusti, devono astenersi dalla disinformazione e dagli effetti destabilizzanti. Occorre educare il popolo a esprimere le sue domande nel rispetto della legge». I toni paternalisti di Wen riassumono il cosiddetto autoritarismo neoconfuciano che dai primi anni del nuovo secolo è diventato la filosofia dominante del regime. Tuttavia, quando un Paese vede fiorire ben due milioni di blog come sta accadendo oggi in Cina, è difficile valutare fino a quando e fino a che punto sia davvero possibile governare Internet.
Prospettive di liberalizzazione politica
Sulle libertà politiche, sul diritto di associarsi, sul potere dei cittadini di cacciare i dirigenti corrotti il regime resta chiuso e sostanzialmente immobile dopo la repressione del movimento democratico alla fine degli anni Ottanta (il cui episodio più celebre resta l’occupazione di piazza Tian’anmen da parte degli studenti di Pechino, attaccati con violenza dall’esercito il 4 giugno 1989). Nel corso dei primi anni del nuovo secolo la Repubblica popolare ha sperimentato un’innovazione limitata: le elezioni dei dirigenti dei villaggi con una molteplicità di candidati. È una riforma dai risultati deludenti perché i candidati sono quasi tutti iscritti al Partito comunista. Nei rari casi in cui si affaccia a queste elezioni ‘pluraliste’ qualche outsider vero, qualche militante dei diritti civili, spesso scattano le intimidazioni, i brogli, gli arresti arbitrari. Il partito si richiude a riccio in difesa del suo potere esclusivo. Questo non significa che i vertici del regime non si pongano la questione del consenso: il loro uso frequente di sondaggi rivela un’attenzione reale agli umori dell’opinione pubblica. Tuttavia, questo è un metodo per consolidare la stabilità politica, non per aprire la strada a profonde riforme di sistema.
Molti in Occidente attendono da anni un nuovo movimento come quello di piazza Tian’anmen, una rinascita di quella ‘primavera’ democratica che ebbe per protagonisti i giovani cinesi assetati di libertà. Nella primavera precedente le Olimpiadi del 2008 la Cina fu il teatro di manifestazioni giovanili, ma di segno ben diverso. Quelli che scesero in piazza a protestare nell’aprile del 2008 non assomigliavano ai protagonisti del maggio 1989 e apparivano più simili ai ‘nipotini’, versione 21° sec., delle Guardie rosse di Mao Zedong. In varie città della Repubblica popolare gruppi di giovani moderni, istruiti, figli della globalizzazione, abituati a usare Internet, invocarono un boicottaggio dei supermercati Carrefour e di tutti i prodotti made in France, per una forma di ritorsione dopo le manifestazioni di Parigi contro la fiaccola olimpica. Una generazione patriottica e sciovinista raccoglieva in tal modo gli appelli della propaganda ufficiale contro le presunte offese occidentali alla fiaccola, trasformata in un simbolo della dignità nazionale.
Messa di fronte nel 2008 a una serie di critiche occidentali – per il sostanziale appoggio cinese al governo del Sudan, colpevole del genocidio nel Dārfūr, per il sostegno di Pechino alla giunta militare in Myanmar, per la repressione delle rivolte in Tibet – la Repubblica popolare ha reagito con una grinta nuova. Rispetto al massacro di piazza Tian’anmen, seguito da sanzioni internazionali e da un reale isolamento, la crisi d’immagine del 2008 si è svolta in un contesto decisamente più solido e rassicurante, visto da Pechino. Al termine della prima decade del 21° sec. lo stato delle relazioni cinesi è assai diverso rispetto al 1989; ha stretto da tempo delle partnership intense e proficue – non soltanto sul terreno economico ma anche nella sfera diplomatica e in vaste aree di cooperazione – con gli Stati Uniti, l’Unione Europea, la Russia e l’India. Ha incassato un significativo disgelo con il Giappone. Dalla Corea al Pakistan in tutta l’Asia la sua influenza è in costante crescita, come anche in Australia e Nuova Zelanda, nel Golfo Persico e nel Medio Oriente, nell’Africa subsahariana e in America Latina. La crisi tibetana è venuta a guastare la visione idilliaca della società armoniosa che Hu Jintao proclamava di voler costruire sia all’interno del suo Paese sia nelle relazioni internazionali. La propaganda del regime ha rispolverato toni nazionalisti che evocano un balzo all’indietro. Anche l’Occidente, peraltro, ha rischiato di regredire a una visione stereotipata della Repubblica popolare. Le notizie negative hanno ricevuto un’attenzione prevalente nell’opinione pubblica europea e americana. Il Paese più popoloso del mondo in occasione di alcune proteste occidentali è stato descritto quasi come uno Stato lager, una Corea del Nord o un Myanmar. Vista dai cinesi – non soltanto i leader del regime, ma anche gran parte della popolazione – questa rappresentazione risulta assurda e incomprensibile.
La Cina non è un regime del terrore. Lo spazio delle libertà personali nella Repubblica popolare si è ampliato enormemente dagli anni Ottanta in poi: la libertà di scegliersi gli studi, di viaggiare all’interno del Paese e all’estero, la libertà di costumi, la libertà sessuale. Restano gravi limiti per la libertà di espressione, di religione, e per altri diritti umani a cominciare dall’habeas corpus, il diritto alla certezza della legge, a una magistratura indipendente e a un processo equo. Ma anche nel campo dell’informazione, pur controllato dalla censura, i cinesi di oggi hanno accesso a una quantità di notizie (sul proprio Paese e sul resto del mondo) assai superiore a qualche decennio fa. Questo quadro rivela che, quando i dirigenti cinesi vantano i progressi fatti nel campo dei diritti umani, dietro la propaganda si annida una parte di verità. La maggioranza dei cittadini cinesi sa di vivere oggi in un Paese piuttosto rilassato e sereno, non solo in confronto al terrore che vigeva sotto le Guardie rosse durante la Rivoluzione culturale, ma anche rispetto alla Cina dei primi anni Ottanta.
Osservando la reazione di Pechino contro i tibetani o gli uiguri islamici dello Xinjiang, in Occidente si è pensato talora che i leader cinesi temessero una disgregazione etnica. È vero che la Cina è per certi aspetti l’ultimo degli imperi coloniali, visto che vastissime aree del Paese sono dei territori conquistati dai cinesi ma con antiche storie di indipendenza, e tuttora abitati da popoli con caratteri etnici, linguistici o religiosi molto distinti: in particolare la Mongolia interna, il Tibet e lo Xinjiang. Tuttavia ogni analogia con la fine dell’Unione Sovietica – accelerata da spinte centrifughe – si ferma qui. Il ceppo etnico han (quelli che noi chiamiamo i cinesi) pesa più del 92% sulla popolazione di un miliardo e 300 milioni. Pur abitando territori immensi i tibetani rappresentano lo 0,4%, gli uiguri lo 0,7%, i mongoli lo 0,5%: frazioni minuscole. Lo scenario della disgregazione etnica non è sostenuto dai numeri e Pechino ne è consapevole. I leader del regime, quando scatenano periodiche repressioni contro i tibetani, sanno di avere dalla loro parte la maggioranza han, che non sente alcuna solidarietà con le altre etnie.
La base di consenso reale che i dirigenti comunisti hanno nel Paese poggia su due pilastri: da una parte la crescita economica, dall’altra il nazionalismo. La questione dell’integrità territoriale è centrale per la legittimità del gruppo dirigente. Un segretario generale del Partito comunista disposto a perdere il Tibet verrebbe considerato come un Gorbačëv cinese e rapidamente liquidato in una lotta di potere. Il regime sopravvive se assicura anzitutto la stabilità interna. La rispettabilità internazionale viene dopo; ed è facile ricostruirla quando il mondo si convince che la leadership cinese è solida, controlla il Paese con mano ferma e non ha alternative.
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