Abstract
La voce offre una visione dell'attuale ordinamento tributario complesso nel suo difficile passaggio ad un sistema tributario evoluto anche nella realtà dell'integrazione giuridica europea.
Un sistema tributario complesso, come quello italiano, ha una struttura definita, ma una legislazione instabile, con esiti applicativi incerti. Infatti, la legislazione deve continuamente adeguarsi all’ordinamento europeo e alle interpretazioni della Corte di giustizia; deve rinnovarsi per affrontare la concorrenza fiscale all’interno del mercato europeo; deve garantire un flusso costante di finanziamenti tributari al bilancio pubblico italiano. Tutte, finanza nazionale, integrazione europea e concorrenza internazionale, sollecitano una manutenzione normativa incessante, come dimostrano sia le modifiche alle stesse architetture fiscali che si susseguono a mano a mano che procede l’integrazione fiscale europea, sia le variazioni alle discipline, nella difficile e continua ricerca di equilibri di bilancio e nella rapida attuazione di reazioni nazionali alla concorrenza fiscale internazionale. La sofferta complessità dell’ordinamento si è ormai convertita in debolezza di sistema; o, meglio, di quell’aspirazione alla coerenza, all’unità e alla stabilità; di quell’impegno per la certezza all’ordine giuridico di precetti, regole e principi, che caratterizzano un sistema tributario, differenziandolo dal mero ordine dei tributi.
D’altra parte la codificazione, da sola, non potrà avere successo fino a che l’ordinamento continuerà ad affidarsi ad un complesso normativo sempre più specifico e di dettaglio per inseguire obiettivi sempre più di efficacia dei precetti tributari e di efficienza dei controlli, nell’intento dichiarato di reagire ad una sempre più insidiosa evasione nazionale e internazionale. Con tale diffusa sfiducia nelle formulazioni generali ed astratte, l’ordine giuridico vive di una ricorrente precarietà: quella che erode la stessa costanza della precettività dei comandi impositivi, anche oltre il momento storico in cui siano stati decisi, e la relativa efficacia, che ben potrebbe essere affidata anche ad un’evoluzione interpretativa senza sollecitare continuamente il consenso parlamentare ad un’ininterrotta sistemazione delle fattispecie.
Formalmente il consenso, quello che combina scelte politiche con garanzie costituzionali, nel governo legislativo della fiscalità nazionale, non ha mai abbandonato l’ordinamento, anche in questa sua travagliata complessità. Anzi, ha contribuito a moltiplicarla, supportando la legislazione casistica, gli interventi settoriali e contingenti, rendendo sempre fragile l’ordinamento e precaria la sua efficacia, e, in definitiva, più difficile l’aspirazione a sistema. Una responsabilità così alta del Parlamento da far dimenticare quel ruolo centrale che la Costituzione assegna al consenso, con riferimento alle scelte virtuose ed efficaci della democrazia rappresentativa. Unica, dovrebbe quindi rimanere la capacità contributiva a garantire l’unità di un ordinamento così complesso. Quella necessaria per evitare che, al di fuori della modellistica generale, ormai largamente influenzata dal diritto europeo, siano proprio i regimi specifici, le normative casistiche, che dimentichino il rispetto dei criteri che, per la Costituzione, regolano il riparto del sacrificio e la misura della partecipazione alle pubbliche spese, impegnati come sono in una continua rimodulazione della disciplina esistente. Per questo, il controllo di costituzionalità è tanto più necessario. Per questo è tanto più difficile perché è stato privato del sicuro ed obiettivo riferimento all’oggettiva situazione economica: deve quindi conciliare le potenzialità economiche con le particolarità funzionali della normativa sottoposta a controllo. Ne soffre lo stesso principio di ragionevolezza che deve essere di continuo proporzionato alla particolarità e alla contingenza del singolo intervento: una conferma ulteriore, questa, dell’inadeguatezza delle singole misure dell’ordinamento ad essere ricondotte a sistema e, quindi, della loro difficoltà a poter beneficiare dei parametri di unità e coerenza cui ricondurre responsabilmente i giudizi di ragionevolezza.Più efficace potrebbe rivelarsi la capacità contributiva nel supportare un’opera interpretativa che sarebbe addirittura più importante di quella demolitrice del giudizio costituzionale. Infatti, pur lasciando sopravvivere la disposizione da sottoporre a giudizio e garantendo, quindi, la realizzabilità della varietà degli obiettivi che l’abbiano ispirata, l’interpretazione adeguatrice ne può orientare gli effetti. Questi meglio corrisponderebbero così alla giusta ripartizione del sacrificio fiscale.
L’ordinamento non avrebbe potuto continuare a limitare la propria complessità, con la relativa instabilità, senza ricercare principi ordinamentali: quelli che, attenendo alla stessa formazione dell’ordine giuridico, evitassero che un’accumulazione indiscriminata ed indifferenziata di norme, pur sempre con efficacia e fonte diversa, facesse prevalere poi, in tempi e modalità diversi, obiettivi in contrasto con quello costituzionale del riparto del sacrificio.
In sostanza, lo Statuto del contribuente si è fatto interprete della sempre più sentita esigenza di evitare che tale complessità dell’ordinamento finisse con il metterne in discussione l’efficacia. Questa, variamente orientata, manifestava una sempre più diffusa contraddizione tra le scelte normative e gli obiettivi che ne avevano giustificato l’introduzione. Un effetto, questo, delle modifiche incessanti dell’ordinamento, anche ad onta dei tentativi di sistemazione adottati in momenti diversi con i testi unici. Con lo Statuto, però, si spegne la stessa speranza in un’efficace capacità dell’ordinamento di autoregolamentarsi.
Le norme generali dello Statuto avrebbero dovuto, infatti, dare ordine sia alla produzione normativa, sia alla sua efficacia – vietando la retroattività indiscriminata delle norme tributarie –, sia alla sua interpretazione – per evitare un uso irrazionale dell’interpretazione autentica – proprio là dove la complessità dell’ordinamento si fosse dimostrata più allarmante per l’indebolimento del ruolo della legge. Le violazioni di tali norme generali sono state però così numerose e ripetute da renderle sostanzialmente inefficaci rispetto all’importanza e all'urgenza degli obiettivi contingenti, settoriali e finanziari che hanno provocato e continuano a provocare complessità e instabilità dell’ordinamento. Il richiamo formale, espresso e significativo, alla norma dello statuto che fosse stata violata ha solo contribuito a tracciare, con le statistiche, la dimensione della sconfitta delle metanorme, nella loro ormai remota ambizione di ricostituire un ordinamento, se non virtuoso, almeno più semplice, più stabile e più sicuro. Poco ha potuto, per una residua efficacia delle metanorme, il richiamo a principi costituzionali, contenuto nello Statuto, quando questi stessi non avevano potuto e saputo influire sull’assetto stesso dell’ordinamento. Lo sforzo ordinatorio dello Statuto si è dimostrato più efficace là dove aveva voluto porsi non come norma di ordinamento, ma per l’ordinamento, con il dichiarato intento di assicurare una disciplina generale o di aspetti applicativi dei tributi o dei loro profili procedurali. È stato certo uno sforzo innovativo per superare la parcellizzazione delle discipline applicative e la varietà delle procedure di controllo e di accertamento. Queste avevano, a loro volta, contribuito alla complessità dell’ordinamento e avevano introdotto differenziazioni nell’applicazione dei diversi tributi che potevano apparire discriminatori per i contribuenti, senza poter essere giustificati dalla varietà degli obiettivi che li avevano ispirati. Tali restano la concorrenza, la ricerca del gettito e la lotta all’evasione che, per la loro eterogeneità, potevano e possono essere variamente apprezzati a seconda dei tributi. Con lo Statuto del contribuente, invece, è avvenuto un consolidamento interpretativo, grazie ai principi che lo avevano ispirato e a quelli che ne erano stati formalmente riconosciuti, grazie anche alla piena assunzione di responsabilità della Corte di Cassazione. Tali quelli della collaborazione e della buona fede che hanno assunto una valenza nell’intero ordinamento. Un esito inusitato, questo, grazie anche all’efficacia di un riconoscimento espresso nello Statuto, piuttosto che alla generale immanenza che qualifica il ruolo dei principi negli ordinamenti.
L’integrazione europea incide sempre più sulla formazione dell’ordinamento nazionale: orienta le scelte legislative, impone soluzioni interpretative in nome dell’uniforme applicazione del diritto europeo, attribuisce a giudici e ad amministrazione finanziaria crescenti responsabilità interpretative e applicative delle norme europee e delle loro interpretazioni. Con l’integrazione si evita così che la consueta produzione casistica nazionale possa mettere in discussione l’effettività dell’ordinamento europeo; alterare la necessaria proporzionalità delle procedure e delle sanzioni; ledere la necessaria neutralità dell’IVA e del suo metodo di applicazione. Per questo nel loro ruolo europeo giudici e amministrazione devono impedire che possano avere il sopravvento le pur tollerate differenze nazionali dei regimi nazionali. Al tempo stesso devono garantire la buona fede nei rapporti con l’amministrazione e riconoscere il contraddittorio come parte di un diritto generale alla buona amministrazione.
Difficile, certo, in questa costante mutazione dell’ordinamento nazionale, ritrovare quei caratteri qualificanti che le riforme tributarie che si erano susseguite dagli anni Settanta avevano cercato, non senza difficoltà, di affermare. La stessa dinamica dell’integrazione giuridica, proprio perché fertile per la sola integrazione economica europea, non può assicurare, in un’interrotta ricerca della garanzia dell’effettività, quelle stabilità, unità e coerenza che, pur con difficoltà, l’ordinamento tributario nazionale ricerca, anche per garantire quella certezza su cui fondare la fiducia dei contribuenti e la piena affermazione della giustizia tributaria.
Dai modelli impositivi delle imposte indirette, imposti all’ordinamento nazionale dal Trattato di Roma, è seguita, poi, una dinamica che ha finito anche con il superare i limiti formali tra l’ordinamento europeo, con i vincoli richiesti dall’integrazione economica, e quello tributario nazionale, fermo nel rivendicare le scelte della disciplina di attuazione. In nome dell’effettività dell’integrazione economica, il primato dell’ordinamento europeo ha progressivamente imposto vincoli sempre più rigidi alla normativa nazionale. Dai caratteri qualificanti i modelli impositivi si è poi passati alla loro disciplina, alle modalità di attuazione, ai metodi di controllo, anche ben al di là dei tradizionali limiti giuridici con cui si riparte la competenza tra ordinamenti, in coerenza con l’efficacia dell’armonizzazione.
Per garantire la piena integrazione del mercato, facendo coincidere, anche territorialmente, quell’Unione doganale, costituita nel 1968, con la costituenda Unione Europea, i regimi doganali e le relative tariffe sono, dal 1993, stabilmente ed esclusivamente europee. Un risultato raggiunto con la crescente e diretta incidenza delle fonti europee. Questa grazie alla diretta applicabilità, ha fortemente limitato le possibilità d’intervento normativo in tutti i settori dell’imposizione doganale: dalla tariffa, ai regimi, alle procedure, alle sanzioni.
Non sono mancate tensioni dell’ordinamento nazionale, ma sono state progressivamente sopite anche perché i ristretti margini di manovra del legislatore nazionale lasciavano poco spazio all’autonomia normativa e, quindi, all’interpretazione delle norme europee. Questo settore quindi dell’ordinamento appare quello riconducibile a sistema, ma secondo un modello e con una disciplina europei e, quindi, in coerenza con una finalità impositiva ispirata dagli obiettivi dell’ordinamento europeo, nel presidio fiscale del mercato interno e degli interessi finanziari dell’Unione.
L’imposizione sul consumo si è dimostrata, nel tempo, un cantiere infinito.Gli elementi costitutivi dell’IVA erano così radicalmente diversi da quelli che avevano caratterizzato l’imposta di consumo previgente, prevedibilmente incompatibile con l’integrazione economica europea, che hanno richiesto una lunga elaborazione nazionale della disciplina. Questa è ben lungi dall’essere terminata. Da una parte, infatti, l’autonomia normativa, consentita dall’armonizzazione per gli aspetti sostanziali e procedimentali, ma che, naturalmente, valorizza tradizioni giuridiche nazionali ed esalta obiettivi nazionali di efficienza e semplificazione nell’attuazione, nell’accertamento, nella riscossione. Dall’altra, poi, la crescente esigenza di garantire l’effettività dell’applicazione dell’imposta, grazie ad una costante giurisprudenza della Corte di giustizia e alla sua sempre maggiore efficacia anche nei confronti del legislatore. Ne è scaturita così, negli anni, un’eterogenea disciplina dell’IVA. Combina, infatti, i rigori giuridici delle categorie nazionali con parametri funzionali che investono e orientano anche aspetti formali della disciplina, valorizzando sempre di più quegli obiettivi di neutralità ed effettività che appartengono all’effetto d’integrazione del mercato. Ne deriva un cantiere infinito, dove le categorie giuridiche dei soggetti e degli scambi, pur formalmente legittimi nella tradizione giuridica nazionale, vengono sempre più sfumati in ragione degli effetti economici dell’imposta. Anche le modalità di applicazione, a loro volta, con la centralità sempre della detrazione e del rimborso, con le relative modalità di contabilizzazione, sono sempre più orientati allo stesso risultato neutrale.
Rimane una debolezza: quella della territorialità IVA, che non appartiene però alla responsabilità italiana, una volta che, politicamente, gli Stati abbiano scelto di non adeguarla al territorio europeo, come auspicabile in coerenza con le libertà economiche che lo caratterizzano stabilmente. La decisa insistenza della tassazione alla destinazione in un mercato diventato libero da frontiere fiscali, costituisce una scelta politica necessitata. La mancanza di un consenso unitario nell’Unione europea, in questo caso, ha provocato, e continua a provocare, un aumento delle frodi infra comunitarie con effetti pregiudizievoli per i bilanci nazionali, compreso quello italiano, e moltiplica la concorrenza sleale sopratutto nel settore dell’IVA al consumo finale.Più facile accettare la riforma europea delle imposte sulla produzione: quella che ha comportato certo una consistente riduzione delle tipologie delle imposte, ma nel sostanziale rispetto della struttura dell’imposizione, così come era stata regolata nell’ordinamento nazionale. Ora, anche l’Italia, ha solo le forme d'imposizione sulla produzione degli alcool, dei tabacchi e dei derivati dal petrolio previste dall’Unione europea. Ha adattato il proprio modello d’imposizione a quello europeo. Ha garantito, così, l’armonizzazione fiscale necessaria per evitare una concorrenza fiscale tra i prodotti liberamente circolanti nel mercato europeo. Rimane, anche per l’Italia, il potere di esercitare la riconosciuta autonomia nella determinazione delle aliquote, anche per realizzare quel progressivo spostamento verso l’imposizione indiretta che appare ormai stabilmente uno degli obiettivi della politica fiscale europea.
Vero, e non facilmente immaginato, con la riforma tributaria del lontano 1971, il successo dell’armonizzazione dell’imposta unica sulla raccolta dei capitali: quella che, in mancanza di un modello armonizzato, fu accolta nel nostro ordinamento con l’imposta di registro per il settore degli atti societari e che ha radicalmente cambiato l’incidenza fiscale in questo settore. Da una parte per l’effetto dell’alternatività con l’IVA, della quale ha seguito poi, negli atti che coinvolgessero società o imprese, la progressiva estensione, in via interpretativa, del regime nazionale e della progressiva applicazione della direttiva. Questa, infatti, nonostante fosse stata riconosciuta dalla legge delega come principio e criterio direttivo, si è imposta, progressivamente, nell’ordinamento nazionale, grazie alla diretta efficacia, con l’esito finale di sottrarre, ora, a tassazione gli atti societari, con l’unica eccezione del conferimento immobiliare.
La forza dell’integrazione economica ha, con il tempo, superato, anche in Italia, i limiti formali delle competenze in materia tributaria con l’Unione europea. L’ordinamento europeo ha potuto e dovuto affermare il proprio primato anche nell’imposizione sui redditi, con effetto diretto sull’IRES, pur non essendo riuscito, per il sempre più difficile consenso all’unanimità, ad imporre modelli armonizzati come nel settore dell’imposizione indiretta. Così anche l’Italia, al pari di altri Stati, ha dovuto rinunciare ad applicare l’IRES a quei redditi che, come dividendi e proventi per utilizzazione di marchi e tecnologie e per impiego del risparmio o come, eventualmente, emergenti in caso di fusione societaria, derivassero da altrettante scelte di localizzazione e d’investimento dei gruppi multinazionali. Queste, infatti, non avrebbero potuto essere ostacolate dalla fiscalità nazionale, per il danno alla concorrenza nel mercato europeo. Una rinuncia impositiva, questa, consapevole e dovuta, che, però, ha comportato anche la trasformazione dei regimi interni. Si tratta di quelli che non sarebbero stati toccati dal riparto d’imposizione imposto dalle direttive fusioni, madre e figlia, interessi e royalties e risparmio, ma che non avrebbero potuto essere differenziati da quelli transnazionali senza provocare un’inaccettabile violazione del principio di eguaglianza. Ne è nata una trasformazione continua della disciplina dell’IRES che ha portato ad una generalizzazione dei regimi dei dividendi in entrata e in uscita e delle partecipazioni, anche oltre l’ambito societario dei regimi di finanziamento, non solo per equity, ma anche per capital, e alla generalizzata neutralità impositiva delle fusioni. Vi hanno contribuito fonti comunitarie e fonti nazionali che hanno, con la loro progressiva integrazione, superato i limiti imposti dalle direttive. Vi ha contribuito la giurisprudenza che, in nome del divieto di discriminazione e di quello di restrizione delle libertà economiche, ha costretto a smantellare, progressivamente, quei regimi nazionali che penalizzassero le localizzazioni all’estero. Così, anche l’IRES è stata e continua ad essere direttamente coinvolta in un processo d’integrazione fiscale che non contribuisce certo all’assetto stabile ed unitario che un sistema nazionale avrebbe pur sempre richiesto.
La crescente importanza delle scelte europee e dei relativi modelli e la loro determinante influenza sull’architettura dell’ordinamento per l’intero settore dell’imposizione indiretta, avevano costretto, fin dalla riforma del 1971, a concentrare sull’imposizione sui redditi la ricerca della coerenza tra ordine delle norme e dei precetti e razionalità ed unità del loro complesso. Tutto, per ricondurre a sistema un ordinamento, come sarebbe stato auspicato in una lettura garantista e politicamente efficace della giustizia fiscale, nel responsabile rispetto del consenso parlamentare. Invece, l’imposta personale sui redditi, coinvolta sempre più nella complessità di un ordinamento instabile e finanziariamente orientato, oltre che sollecitato dalla concorrenza fiscale, ha accentuato le differenze normative che, in origine, avrebbero dovuto direttamente incidere solo sui criteri di calcolo delle diverse categorie. L’esito attuale è quello di un’imposta personale caratterizzata da categorie che corrispondono a veri e propri regimi, a loro volta fortemente differenziati, tanto da incidere sull’efficacia della progressività e, quindi, sugli obiettivi di giustizia redistributiva che li avevano ispirati.
La scelta della riforma tributaria del 1971 fu ambigua perché sollecitava un’incidenza economica della progressività diversa a seconda della composizione della base imponibile: quella che era poi quantitativamente diversificata a seconda delle categorie che avevano concorso a formarla.La centralità di redditi medi desunti da una rilevazione non aggiornata dei valori immobiliari ha contribuito a differenziare sempre di più le attività agricole da quelle commerciali. Ciò a mano a mano che, in via normativa ed interpretativa, si estendevano le attività che beneficiavano del criterio di determinazione catastale, fino a giungere ad una stabile opzionabilità per i redditi catastali anche per quei soggetti societari che non avrebbero potuto beneficiarne perché tenuti al calcolo contabile del reddito, comune alle imprese commerciali. Difficile, d’altra parte, ritrovare, per il reddito d’impresa, l’originario disegno riformatore del 1971, anche a causa dell’incompiuta riforma del 2003 che aveva voluto che fossero le imprese a essere presidiate dalle società per la determinazione del reddito per poi diversificare con altre due diverse tipologie d’imposta le società e le persone fisiche. Quell’unitaria determinazione del reddito d’impresa, prevista dalla riforma del 1971, ha dovuto tener conto degli effetti fiscali dell’applicazione, anche al bilancio di gestione, dei principi contabili internazionali e ha dovuto cedere agli effetti della crisi economica e alle sollecitazioni d’incentivazione fiscale. Così, il reddito d’impresa ha subito una ripartizione sempre più minuta dei regimi minori: ora semplificati, ora minimi, ora rilevanti per imprese giovanili. Questi non solo si sono allontanati dalla contabilità ordinaria, adottando addirittura criteri forfettari di determinazione, ma hanno beneficiato e continuano a beneficiare addirittura di una tassazione con un’aliquota unica, con il doppio vantaggio di rimanere esclusi dal calcolo complessivo, e quindi estranei alla personalità dell’imposta, e di sottrarsi anche alla progressività che, pur in origine, ne aveva costituito un corollario.Solo formalmente possono essere considerati oggettivi quelli che vengono definiti redditi di capitale. Sono attualmente caratterizzati da un’ampia eterogeneità, frutto non solo di una difficoltà classificatoria, ma, anche, di una ricchezza normativa creativa che dà a questa categoria un dinamismo sconosciuto alle altre. La soluzione dell’imposta sostitutiva sui proventi delle gestioni finanziarie è servita a conciliare il ruolo imprenditoriale degli intermediari finanziari, senza però una propria responsabilità fiscale, con un regime specifico per gl’investitori, beneficiari delle diverse forme di gestione del risparmio. Una soluzione coerente con la gestione intermediata che già aveva superato, in nome del rendimento unitario dell’investimento, le diversità delle tipologie di proventi, del loro impiego e della loro circolazione; quelle che, invece, rimanevano per le scelte individuali d’investimento. Per avvicinare quindi i proventi finanziari al loro regime, in nome di una diffusa sicurezza per gl’investitori e di una maggiore certezza del prelievo, si è rinunciato alla personalità e alla progressività. Un esito troppo evidentemente discriminatorio per gl’investitori individuali che sarebbero rimasti i soli a continuare ad assumersi l’obbligo della dichiarazione ed il costo dell’imposizione progressiva. Così si comprende l’applicazione generalizzata della ritenuta unica a titolo d’imposta con un evidente beneficio di semplificazione e con una minima coerenza con la progressività per la recente corrispondenza dell’aliquota della ritenuta a quella del primo scaglione della progressività dell’IRPEF. Di tutte le categorie che, nel loro complesso, avrebbero dovuto rendere concreto il progetto riformatore degli anni settanta dell’imposta personale e progressiva, sono rimasti i soli redditi di lavoro dipendente a garantire un sacrificio impositivo sulla ricchezza effettivamente prodotta ed incassata, grazie anche all’attuale regime di ritenute che avvicina, per il momento di applicazione e per la misura, l’ammontare del prelievo all’imposta personale dovuta.
L'ordinamento italiano, a differenza di quello di altri Paesi, continua a non manifestare fiducia in un’imposizione generalizzata sul patrimonio, disconoscendone sostanzialmente quel ruolo di completamento di un sistema tributario sostenuto dalla teoria finanziaria.
Per poter sopravvivere, dopo una parentesi di abrogazione, l’imposta ha dovuto rinunciare ad alcuni caratteri qualificanti la sua funzione finanziaria: ha abbandonato la progressività; ha introdotto soglie alte di esenzioni nei trasferimenti in linea diretta; ha, in ragione della certezza, adottato criteri oggettivi di valutazione immobiliare. Questi, fondati sulla capitalizzazione della rendita catastale, hanno finito con riflettere sulla tassazione del patrimonio la debolezza economica delle rendite catastali rispetto ai valori di mercato.
Si è consolidata, invece, l’attenzione sul patrimonio immobiliare: quella che la previsione di sistema del 1971 aveva voluto riservare alla circolazione dei beni immobili, con il tempo si è concentrata sulla loro statica e quindi corrispondente alla titolarità reale degli stessi. Una trasformazione comprensibile nel momento in cui l’imposizione sul patrimonio immobiliare è diventata la forma di finanziamento principale dei Comuni.
La crisi della finanza statale, infine, ha moltiplicato forme d’imposizioni originali che hanno variamente inciso sui patrimoni finanziari o mobiliari, anche se con forma indiretta e senza una diretta incidenza con il valore del bene di riferimento. Tale l’imposizione sulle transazioni finanziarie, che si applica sugli importi della ricchezza oggetto di transazione, ma in ragione di un’imposizione cartolare e quindi di limitata incidenza e tale quella sui natanti, graduata però in ordine alle dimensioni dell’imbarcazione e non al loro valore.
Con il federalismo fiscale si sarebbe dovuto salutare il successo dell’innovativo riparto delle competenze fiscali tra Stato, Regioni ed enti locali, introdotta dalla riforma costituzionale del 2001, con l’intento dichiarato di stabilire un virtuoso rapporto tra competenze e responsabilità amministrative e risorse territoriali impiegate per finanziarle. La riforma aveva però lasciato indiscussa la centralità dello Stato nel definire le proprie competenze fiscali e, dall’altra parte, aveva recepito integralmente il primato dell’ordinamento europeo. Entrambe hanno contribuito a limitare le scelte riformatrici delle Regioni. Queste, da un lato, hanno subito l’espansione dell'imposizione centrale e dall’altro, hanno dovuto osservare il vincolo d’imposte ad effetto equivalente di tributi europei.
Ne è derivato un riparto mobile delle competenze tributarie che avrebbe dovuto trovare nella legge nazionale di coordinamento delle imposte regionali e locali con quelle statali la garanzia di un’ideale unità di sistema tributario nazionale. Invece, il coordinamento è stato trasformato in una definizione, ordinata dal potere centrale, delle forme d’imposizione territoriale locale, dove gli spazi di autonomia normativa, anche se non sempre unilateralmente determinati, corrispondono, ormai stabilmente, ad altrettante responsabilità finanziarie, coerenti con il patto di stabilità interno. Tale è il destino della rinnovata forma d’imposizione immobiliare comunale IUC con la disarticolazione IMU, TASI e TARI che va ad aggiungersi alle altre forme d’imposizione sempre previste e regolate dallo Stato. Si conferma così quell’eteronomia normativa che già aveva caratterizzato l’IRAP che, nonostante l’importanza finanziaria per le Regioni, è rimasta fuori dalla previsione di coordinamento normativo.
Si comprende, quindi, come un così disarticolato federalismo fiscale non abbia potuto convertirsi in un progetto di sistema tributario regionale e locale e oggi, a malapena, possa sostenere un settore di applicazione territoriale differenziato di un sistema centrale e nazionale, a sua volta condizionato da equilibri di bilancio imposti dal governo europeo della moneta, con il patto di stabilità che da europeo è diventato anche interno.
Alla responsabilità di definire l’ordinamento complesso, assunta dalla legge di riforma nell’oramai lontano 1971, non ha poi corrisposto, negli anni, un’altrettanto consapevole e coerente risposta di sistema: quella che avrebbe dovuto differenziare poteri e procedure con i quali svolgere rispettivamente le indagini, le funzioni accertative e sulla base delle quali emettere provvedimenti con i quali formalizzare autoritativamente la pretesa tributaria in ragione della varietà delle imposte. La complessità del sistema, così come la sua eteronomia europea per settori sempre più ampi, ha, infatti, messo in discussione quella relazione che appariva virtuosa, perché funzionale con il diritto sostanziale: giustificare la diversificazione delle procedure e la varietà dei poteri in coerenza con le differenze sostanziali dei tributi dell’ordinamento. Infatti, sia la moltiplicazione degli adempimenti documentali e contabili, su cui si fondava l’effettività del prelievo sia la numerosità dei contribuenti, con la dilatazione della base imponibile e dei presupposti, hanno reso sempre più difficile garantire efficacia ed efficienza dei controlli. Il rimedio, ancora una volta, è stato di settore e non di sistema: semplificazioni settoriali, alimentate da una diffusa fiducia in criteri medi, elaborazioni statistiche, presunzioni legali, ma, nel contempo, responsabili di variabili difficoltà della prova contraria.
La semplificazione del diritto formale non può però, con altrettanta sicurezza, riaffermare la giustizia che la richiesta corrispondenza delle procedure con i presupposti aveva ritenuto di garantire. Più efficaci avrebbero potuto rivelarsi quelle forme di partecipazione prima, e di collaborazione poi, del contribuente che si sono moltiplicate nel tempo. Una conferma, questa, che l’esigenza partecipativa, che stabilmente coinvolge tutti i rapporti con l’amministrazione pubblica, tocca ormai anche quella finanziaria. Così è accaduto con il moltiplicarsi di strumenti tanto diversi da apparire eterogenei: quali accertamenti con adesione, acquiescenza ai verbali, ravvedimenti, conciliazione, autotutela, fino ad immaginare le nuove e più evolute forme di collaborazione-partecipazione quali quelle previste nella recente legge di delega (n. 120/2014), come quelle del monitoraggio fiscale e della valutazione del rischio. La piena efficacia di tali procedure però, è sempre stata condizionata dalla particolarità dell’interesse finanziario: quello di cui si fa interprete l’amministrazione; quello che la vincola all’indisponibilità del debito nei suoi rapporti con il contribuente; quello che ne limita l’azione e le funzioni al rispetto dei modelli, senza possibilità di ponderazione degli interessi pubblici e privati; quello che privilegia soluzioni funzionali a specifici obiettivi, anche a costo di trascurare visioni di sistema.
Nonostante l’evoluzione, la partecipazione e la collaborazione, pur coniugate in varie forme, non riescono ancora a garantire una corrispondenza non autoritaria, ma paritaria e collaborativa del contribuente con l’Amministrazione. Questa sarebbe la prima garanzia per la piena applicazione, anche nel campo tributario, di un modello condiviso e comune di giusto procedimento.
Si è sempre più consolidata l’esigenza che la naturale aspirazione alla giustizia richieda, nel campo tributario, una riconosciuta e consolidata specializzazione giudicante e che questa, nella pienezza delle funzioni giurisdizionali, coinvolga anche giudici onorari. Lo prova il consolidamento dell’esclusività della giurisdizione sulle controversie tributarie (anche se con qualche minuta eccezione), ulteriormente arricchita con i giudizi incidentali amministrativo e comunitario, oltre a quello costituzionale e caratterizzata, in maniera originale, da una progressiva dilatazione dell’oggetto del processo, per coinvolgere, in nome di quella che viene indicata dalla giurisprudenza come d’impugnazione-merito, sia la legittimità dell’atto, sia la fondatezza della pretesa.
Un esito complesso, questo, che, però, resta pur sempre condizionato dal vincolo dell’accesso processuale. Questo è saldamente posto dall’ordinamento negli atti impositivi impugnabili, ma, nel tempo, è stato progressivamente eroso e indebolito dalla ricerca giurisprudenziale di una tutela effettiva del contribuente di fronte ad atti impositivi diversi da quelli esplicitamente impugnabili. In coerenza, la tutela che la giurisprudenza vorrebbe in questi casi adottare riguarda comunque l’effettività della pretesa, resa sempre più incidente sia dall’effetto esecutivo degli atti di accertamento, sia dagli effetti pregiudizievoli nei confronti del contribuente di misure cautelari azionabili anche senza atti impositivi.
Così, la naturale aspirazione alla giustizia nelle controversie tributarie, anche senza una specifica investitura costituzionale, come avviene per le altre giurisdizioni, non viene completamente soddisfatta perché, nel pur essenziale sviluppo del processo, non è completamente assicurata quella parità delle armi che dovrebbe garantire la piena corrispondenza di quello tributario al modello del giusto processo: tali ad esempio l’assenza di un’ipotesi di rimessione in termini a seguito di impugnazione tardiva per forza maggiore o per caso fortuito; le differenti conseguenze della tardiva costituzione in giudizio del ricorrente e del resistente; il differente obbligo di difesa tecnica tra le parti; la differente modalità di esecuzione delle sentenze del giudice tributario a seconda della parte vittoriosa; la facoltà delle Commissioni tributarie di richiedere apposite relazioni ad organi tecnici dell’amministrazione dello Stato o di altri enti pubblici, compresa la Guardia di finanza.
Nessuna
AA.VV., Imposta sul valore aggiunto: aspetti economici e giuridici, in Giur. imp., vol. LXXXII, 2009; Bodrito, A.-Contrino, A.-Marcheselli, A., (a cura di), Consenso, equità e imparzialità nello statuto del contribuente. Studi in onore del prof. Gianni Marongiu, Torino, 2012; Boria, P., Il sistema tributario, Torino, 2008; Della Cananea, G., Osservazioni critiche sul federalismo fiscale in Italia, in Indirizzo e controllo della finanza pubblica, Bologna, 2004; De Mita, E., Le basi costituzionali del “federalismo fiscale”, Milano, 2009; Di Pietro, A., Fisco e sistemi fiscali, in Enc. Scienze Sociali Treccani, 1994; Di Pietro, A., (a cura di), Atti societari e imposizione indiretta, Padova, 2005; Fantozzi, A.-Fedele, A., (a cura di) Statuto dei diritti del contribuente, Milano, 2010; Greggi, M., Giusto processo e diritto tributario europeo: applicazione e limiti del principio (il caso Ferrazzini), in Riv. dir. trib., 2002, I, 529; La Scala, A.E., I principi del “giusto processo” tra diritto interno, comunitario e convenzionale, in Riv. dir. trib., 2007, 3; Marello, E, Contributo allo studio dell’imposta sul patrimonio, Milano, 2006; Marcheselli, A., Il giusto procedimento tributario. Principi e discipline, Padova, 2013; Perrone, L.-Berliri, C., (a cura di), Diritto tributario e Corte Costituzionale, Napoli, 2012; Salvini, L.-Melis, G., (a cura di) L’evoluzione del sistema fiscale e il principio di capacità contributiva, Padova, 2014; Zanardi, A., Federalismo fiscale, prove di attuazione, in Fin. pubbl., Rapporto 2011, Bologna, 2011.