elettorali, sistemi
L’istituto della rappresentanza, che oggi è alla base di tutti i sistemi politici che si reggono democraticamente, affonda le sue radici in tempi lontani attraverso i quali, tra arresti e accelerazioni, la società è transitata verso una modernità politica che ha percorso molte strade, in contesti diversi, che hanno tuttavia portato tutte a quella che noi oggi comunemente definiamo la «rappresentanza politica». Il modello britannico, com’è noto, trova origine nella formula no taxation without representation, che si traduceva nei fatti in un legame tra rappresentante e rappresentati oggi ben espresso dal contratto di rappresentanza proprio del mondo giusprivatistico. Il modello francese, invece, risale all’epoca della grande Rivoluzione del 1789, quando si stabilì che solo nell’assemblea eletta era possibile avere l’esatta riproduzione della volontà della Nazione con la «N» maiuscola. Il mix di «rappresentanza» e «rappresentazione» che si evince da questi due modelli si è tradotto nel tempo in quella che noi comunemente chiamiamo «rappresentanza politica», un istituto in cui il rappresentante agisce non in nome proprio ma nell’interesse della comunità. La figura del rappresentante, che nell’arena politica rappresenta la collettività, è diventata centrale nel dibattito politico di tutti i tempi, proprio per il suo essere il vettore attraverso il quale la volontà della Nazione si trasforma in Legge. Non a caso, fin dall’Ottocento, la percezione che la legge, che stabiliva i criteri in base ai quali doveva essere definita la rappresentanza nazionale, fosse la vera legge fondativa dello Stato, aveva fatto di essa la cosiddetta lex legum, a sottolineare il rapporto, indirettamente gerarchico, che la legava a ogni altra produzione legislativa maturata all’interno dell’assemblea parlamentare. È questa la motivazione che ha portato le «leggi elettorali» al centro del dibattito politico sia nel 19° sia nel 20° e fino ai primi decenni di questo 21° sec., qualunque fosse il loro contenuto normativo, da quelle che definiscono le procedure che vanno seguite per il corretto svolgimento delle elezioni a quelle che stabiliscono le modalità per porre le candidature, fino a quelle che dettano i criteri di traduzione dei voti in seggi. Senza seguire le trasformazioni che la legislazione elettorale ha registrato nei diversi Paesi europei nel corso degli ultimi due secoli, è possibile classificare l’evoluzione dei sistemi rappresentativi in due tendenze, quella legata alle logiche maggioritarie e quella riconducibile invece all’idea proporzionalista, tralasciando le degenerazioni che hanno visto in epoche diverse nel plebiscito lo strumento attraverso il quale, drogando l’istituto della rappresentanza, la legittimazione di un sistema è stata presentata come investitura diretta del popolo. La tradizione politica ottocentesca ha legato il momento elettorale al sistema maggioritario nella sua triplice versione: britannica, francese e tedesca. La versione britannica, altrimenti detta del first past the post, si è concretizzata, e ancor oggi corrisponde, al cosiddetto maggioritario secco o a un turno; quella francese, invece, ha dato vita al doppio turno aperto, senza barriere o, in tempi più recenti, con maglie larghe, nel passaggio dei candidati tra il primo e il secondo turno; infine quella tedesca, applicata anche nell’Italia dell’Ottocento, ha posto quei vincoli tra il primo e il secondo turno che gli sono valsi l’aggettivo di «chiuso», a rimarcare l’imbuto teso a limitare a due i candidati che transitano dal primo al secondo turno. La tradizione politica novecentesca ha invece dato voce, attraverso l’introduzione con modalità non sempre uniformi della proporzionale, al tentativo di far corrispondere la composizione dell’Assemblea rappresentativa a quella di una società sempre più politicizzata.
Il primo aspetto da considerare nell’affrontare il tema del maggioritario è l’obiettivo a cui tende tutto il sistema. Nella logica maggioritaria, infatti, il sistema elettorale deve servire a produrre un’assemblea in cui sia chiara la composizione della maggioranza e dell’opposizione affinché da essa discenda, senza ombra di dubbio, a chi spetta la decisione nel governo del Paese. Decisione e governabilità rappresentano dunque il binomio forte a cui risponde la costruzione del sistema maggioritario nelle sue diverse forme. Partiamo dalla formula più semplice del sistema maggioritario che è quella rappresentata dal modello Westminster. La Gran Bretagna fin dai suoi storici Reform acts del 1832, 1867 e 1884/5 ha sempre in ultima istanza privilegiato il sistema maggioritario a un turno su collegi uninominali. Il che significa che in ognuno dei collegi in cui è stato diviso il Paese (anticamente i borghi, le contee e le università, mentre oggi i confini dei collegi vengono stabiliti ogni circa 10/15 anni da una Independent commission) viene eletto un solo candidato. Data la tradizionale presenza in Gran Bretagna di due partiti forti, nell’Ottocento liberali e conservatori, nel Novecento laburisti e conservatori, contornati da partiti minori, il risultato della competizione elettorale ha tradizionalmente fatto sì che emergesse in modo sufficientemente chiaro quale fosse il partito destinato a governare il Paese. È pur vero che non sempre alla maggioranza dei voti ha corrisposto la maggioranza dei seggi. Esempio classico di questa possibile distorsione sono le elezioni del 1951 quando il Labour party fu battuto in termini di seggi dai conservatori anche se a livello di voti aveva mantenuto una sia pur minima maggioranza nel Paese. Va anche detto che dal 1974 la sperequazione che il sistema produce nel rapporto voti e seggi è diventata sempre più preoccupante a fronte dell’emersione di un terzo partito, il Liberal democratic party (che anche nelle elezioni del 2010 ha ottenuto il 23% dei voti ma solo l’8% dei seggi). Questo ha fatto sì che ancora nel 1997 venisse insediata una Commissione guidata da Roy Jenkis con il compito di studiare una potenziale riforma del sistema elettorale, ma le remore a modificare il tradizionale sistema in uso sono rimaste ancora molto alte. Diversi sono invece l’impianto e gli effetti prodotti da sistemi maggioritari a doppio turno. Le variabili che vanno considerate sono innanzitutto legate alla struttura del collegio. Partiamo dal dato più semplice che è la dimensione e consideriamo come di norma viene regolato il processo elettorale sui collegi uninominali, consapevoli del fatto che le leggi elettorali di ogni Paese possono fissare condizioni diverse sia per l’elezione al primo turno, sia per il passaggio al secondo turno. Usualmente il passaggio al secondo turno lo si ha solo se nessuno dei candidati in corsa raggiunge la maggioranza assoluta, ovvero il 50%+1, dei voti validi. Al secondo turno possono accedere, nei sistemi aperti, tutti i candidati indistintamente o tutti i candidati sopra una certa soglia; nei sistemi chiusi solo i due candidati che hanno ottenuto il maggior numero di voti. Nella votazione del secondo turno risulta vincitore il candidato che ha ottenuto la maggioranza semplice, qualunque essa sia. Più complesso è il caso del maggioritario declinato su collegi plurinominali, perché le rendite di posizione che potrebbero risultare a favore del partito di maggioranza possono produrre distorsioni sensibili nella composizione dell’assemblea rappresentativa. Nei collegi plurinominali dove si applica il maggioritario, gli elettori hanno a disposizione tanti voti quanti sono i seggi assegnati al collegio e l’assegnazione dei seggi va fin dal primo turno a coloro che hanno ottenuto la maggioranza assoluta dei voti; un eventuale passaggio al secondo turno permetterebbe l’elezione, in questa seconda fase, a coloro che, in questa votazione, avessero raggiunto la maggioranza semplice. Per cogliere l’effetto distorsivo del sistema è interessante vedere come potrebbe cambiare la composizione della rappresentanza in un’area, originariamente divisa in quattro collegi uninominali, col passaggio al plurinominale. Assumiamo di essere di fronte a un’area di 10.000 elettori originariamente divisa in quattro collegi da 2.500 in ognuno. Ipotizziamo che all’interno di quest’area siano presenti tre forze politiche: liberali, cattolici e socialisti. In ognuno dei quattro collegi, per vincere al primo turno, un candidato dovrebbe ottenere almeno 1250+1 voti. Con una distribuzione delle forze politiche non omogenea nell’area potremmo ipotizzare che la divisione in collegi potrebbe favorire in due collegi i liberali, mentre gli altri due collegi potrebbero essere conquistati rispettivamente da un socialista e da un cattolico. Nel momento in cui tutta l’area desse tuttavia origine a un unico collegio plurinominale, con molta probabilità i liberali sarebbero in grado di monopolizzare la rappresentanza dell’intero comparto, cancellando la presenza dei partiti di minoranza, grazie alla rendita di posizione derivante loro dall’avere un largo consenso in due degli ex collegi. Proprio per evitare questa distorsione, in Gran Bretagna, quando arrivò ai lord la riforma del 1867 che introduceva, in alcuni borghi, collegi plurinominali, la Camera alta chiese che, nei pochi collegi urbani a tre seggi e in quello di Londra a quattro seggi, venisse introdotta la minority clause, al fine di garantire almeno un seggio al partito di minoranza. Se questi sono i problemi rispetto alla dimensione, altri vanno direttamente correlati al passaggio al secondo turno laddove nessuno dei candidati in corsa sia in grado di raccogliere il consenso della maggioranza assoluta degli elettori del collegio. È evidente che, in un collegio conteso tra due forze politiche, il passaggio del turno potrebbe risultare anche indolore, nella misura in cui, essendo al secondo turno necessaria la mera maggioranza relativa per l’elezione, il candidato preferito per confermare la sua affermazione dovrebbe giocare sulla partecipazione di eventuali astenuti, mentre, se il numero dei partecipanti rimanesse invariato, potrebbe ottenere al secondo turno il collegio su un piatto d’argento. Se invece nell’elezione corressero diversi competitori, la riallocazione dei voti dei candidati, che non passano il turno, potrebbe avere diversi out put: dalla rimodulazione del programma elettorale dei candidati che si fronteggeranno al secondo turno, al fine di raccogliere un maggiore consenso presso le fasce di elettori rimasti orfani del proprio candidato, ad accordi di desistenza reciproca in collegi diversi, all’astensione di una parte dell’elettorato i cui candidati sono rimasti fuori dai giochi. Va tuttavia detto che il doppio turno, applicato in contesti che hanno una tradizionale conformazione pluripartitica, difficilmente produce nel sistema politico quell’alternanza che è il naturale punto d’arrivo del modello Westminster. Questo fa sì che, se il doppio turno può certamente lasciare maggiore spazio alla voce di minoranze organizzate che possono, attraverso la sua applicazione, avere una congrua rappresentanza in Parlamento, il costo che questo risultato comporta lo si misura in termini di decisione e quindi governabilità.
Chi per primo ha posto la questione di una proporzionale rappresentanza irrompendo nella gestione delle elezioni britanniche è Thomas Hare, che nel 1857 ha dato alle stampe, per la prima volta, il suo studio Machinery of representation. La contestazione di Hare, che ha condotto col tempo all’elaborazione dell’Alternative vote, parte da una triade che è rimasta costantemente legata al suo nome e che vuole l’espressione del voto declinata secondo la formula: un voto, un quoziente, un collegio. La prima affermazione, legata all’unicità del voto, era volta a contestare il diritto all’esercizio del voto che in Gran Bretagna veniva riconosciuto in tutti i collegi in cui un elettore vantasse diritti di proprietà. La seconda affermazione era tesa a mettere alla berlina le sperequazioni dei costi dei seggi in termini di voto che erano riscontrabili tra i diversi collegi. Vi erano infatti collegi in cui era letteralmente sufficiente una manciata di voti per conquistare il seggio, mentre in altri non ci si poteva sottrarre a una campagna elettorale difficile e onerosa di cui non sempre era sicuro l’esito. Infine il terzo era volto a combattere il controllo esercitato dai partiti sui collegi: secondo Hare solo ponendo la candidatura sul più vasto collegio unico nazionale un candidato poteva competere come «battitore libero» senza il previo e garantito supporto di uno dei due partiti storici. Proprio per la sua struttura, che circolò con una qualche insistenza nella seconda metà dell’Ottocento anche grazie al sostegno fornitogli da John Stuart Mill, il sistema Hare ottenne un certo consenso presso quelle forze moderate che, nel processo di allargamento del suffragio, ebbero il fondato timore di poter essere sopraffatte dalla forza dei partiti organizzati. Fece scuola su questi temi lo studio di Ostrogorski sul partito macchina e la tirannia del numero. Diversa è invece l’elaborazione di Victor D’Hondt, matematico belga, che diede alle stampe nel 1878 La représentation proportionnelle des partis par un électeur. D’Hondt si propose, con il sistema da lui elaborato, di dare un’equa rappresentanza alle due comunità che abitavano il Belgio: i fiamminghi e i valloni. Proprio per l’obiettivo perseguito, che cercava di rappresentare secondo criteri di proporzionalità due gruppi, il suo sistema venne ritenuto, nel 1895, dall’assemblea dell’Associazione proporzionalista mondiale che si riunì ad Anversa, il miglior sistema capace di sottrarre, nei sistemi politici organizzati secondo i principi del governo rappresentativo, il monopolio della gestione del potere alla maggioranza. Il sistema D’Hondt, infatti, attraverso una sequenza di operazioni matematiche volle individuare, in funzione degli elettori e del numero di seggi assegnati al collegio, una soglia minima di voti necessari all’elezione di un candidato. Definita questa soglia, ogni partito che concorreva alle elezioni si sarebbe visto riconosciuto un numero di rappresentanti uguale a quante volte il numero di voti necessari a un’elezione sarebbe entrato nel computo dei voti ottenuti dalla propria lista. Gli eventuali resti, che fossero risultati da quest’operazione, sarebbero stati considerati persi.
Tra gli altri sistemi proporzionali elaborati nel corso del Novecento ricordiamo: il metodo del Quoziente, il Sainte Laguë, l’Hagenbach-Bischoof, l’Imperiali e il Droop. Mentre il primo ha l’obiettivo di semplificare le operazioni necessarie con il D’Hondt all’individuazione del quoziente, sostituendo le diverse operazioni matematiche previste dal sistema con una sola divisione che ha come dividendo la somma dei voti validi espressi nel collegio e come divisore il numero dei seggi assegnati al collegio, tutti gli altri sistemi sono volti ad alterare il divisore al fine di diminuire, fino a rendere pari a zero, il numero dei voti non distribuiti, ovvero i resti. L’obiettivo dei sistemi proporzionali è in buona sostanza quello di far sì che l’assemblea eletta sia, per composizione politica, speculare a quella del corpo elettorale, conservando nel microcosmo assembleare la partizione il più possibile vicina a quella riscontrabile nella composizione dell’elettorato. È evidente che a far le spese di questa riproduzione plurale fedele all’origine sono la capacità decisionale dell’assemblea eletta e quindi la governabilità di un Paese. È pur vero che l’assunto da cui partono i proporzionalisti, per il quale la rappresentanza spetta a tutti, la decisione spetta alla maggioranza, è rispettato, ma è pur vero che la costruzione di una maggioranza coesa, in grado di governare, all’interno di un’assemblea frammentata può risultare operazione complessa. Va tuttavia anche sottolineato, come più volte ha ricordato Giovanni Sartori nei suoi studi, che sono i sistemi politici deboli che creano la polverizzazione e quindi l’ingovernabilità di un Paese. Questo sia che siano gestiti con sistemi elettorali forti, ovvero con sistemi capaci di svolgere un’azione coercitiva indiretta nei confronti degli elettori, sia che siano gestiti con sistemi elettorali deboli, cioè senza barriere dirette o indirette nei confronti dell’espressione del voto degli elettori.
Composizione del corpo degli elettori e sistemi di voto, come ricordato in apertura, sono stati dunque i due temi che hanno con sistematicità attraversato il dibattito politico degli ultimi due secoli, a sottolineare come quella definizione di lex legum, utilizzata nell’Ottocento per definire le leggi che regolavano la formazione dell’assemblea rappresentativa, aveva davvero un profondo fondamento. Questo dibattito ha portato, soprattutto all’interno di sistemi politici deboli, un ricorso frequente alla modifica delle leggi elettorali. Non è un caso che, se si guarda l’evoluzione di quattro Paesi europei quali Francia, Germania, Gran Bretagna e Italia sotto l’ottica della loro storia elettorale, si può notare come per Gran Bretagna e Germania le riforme elettorali rappresentino la volontà del legislatore di mettere mano alla struttura del sistema politico del Paese; mentre in altri casi, come in Francia e in Italia, appare evidente come esse siano, in alcuni casi, meri interventi congiunturali volti a costruire regole capaci di condizionare il risultato elettorale atteso. La Gran Bretagna è di fatto l’unico Paese che non ha mai utilizzato l’intervento sul sistema elettorale per modificare i rapporti di forza tra i partiti in competizione sulla scena elettorale. La Germania ha avuto nel corso della sua storia tre sistemi elettorali: il maggioritario a doppio turno chiuso negli anni dell’impero; la proporzionale con quoziente fisso durante la Repubblica di Weimar e il proporzionale personalizzato con sbarramento all’entrata introdotto con l’avvio della Repubblica federale dopo la Seconda guerra mondiale. Solo il nazismo, in quanto forma statuale negatrice dei principi democratici, ha introdotto il sistema plebiscitario come strumento di controllo del consenso e costruzione dall’alto degli apparati dello Stato. La Francia già nel corso dell’Ottocento aveva, invece, mostrato una certa disinvoltura nell’utilizzare la modifica del sistema elettorale come strumento volto a precostituire esiti attesi, nella competizione elettorale, di fronte a crisi di sistema che apparivano difficilmente governabili con altri strumenti. Ne sono un esempio le due successive modifiche del 1885 e del 1889 che videro prima introdurre i collegi plurinominali e successivamente, in piena crisi boulangista, il repentino ritorno verso il tradizionale collegio uninominale garante de «la politique au village». Come punto d’arrivo di un lungo dibattito che attraversa gli ultimi anni dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, dopo la Prima guerra mondiale la Francia introdusse un sistema elettorale nuovo che chiamò «proporzionale», ma che della logica proporzionalista aveva di fatto principalmente il nome. Il sistema, più correttamente definibile misto, dal momento che allocava i seggi prima in base a logiche maggioritarie e solo successivamente secondo criteri proporzionali, restò in vigore per due tornate elettorali. A partire dal 1928 si ritornò al tradizionale sistema maggioritario uninominale a doppio turno. Dopo la Seconda guerra mondiale, gli esempi più eclatanti di manipolazione del sistema elettorale sono due: uno nel 1951 e il secondo nel 1985. Nel 1951 i governi cosiddetti della «terza forza» appoggiarono l’introduzione di una correzione fortemente maggioritaria del sistema elettorale in tutti i dipartimenti del territorio francese eccetto quello di Parigi, che eleggeva 75 rappresentanti e per il quale venne mantenuto il sistema proporzionale. L’obiettivo era riconfermarsi alla guida del Paese, limitando l’accesso in Parlamento sia alla destra gaullista sia alla sinistra comunista. Nel 1985, invece, fu il presidente Mitterrand che, per limitare la débâcle delle forze progressiste, riportò il sistema elettorale della Quinta repubblica, il maggioritario a doppio turno, verso logiche proporzionaliste, riuscendo in realtà non a impedire la rimonta delle forze moderate, ma solo a contenerne l’affermazione, il che lo vedrà comunque costretto a chiamare al governo Jacques Chirac, dando avvio alla prima «coabitazione» del sistema politico francese. In Italia la prima manovra elettorale volta a favorire le forze politiche al governo la si può far risalire al 1882 quando, con l’introduzione, a fianco dell’allargamento del voto, di un maggioritario, formalmente a doppio turno, su collegi plurinominali, insieme al conclamato obiettivo di portare il dibattito della deputazione nazionale fuori dalle logiche di campanile, apparve evidente il guadagno che il nuovo sistema di traduzione dei voti in seggi dava alle forze ministeriali. Non è casuale che nel giro di dieci anni si ritornasse, con la reintroduzione dell’uninominale, a ripristinare, per quanto riguardava l’estensione dei collegi, rapporti di forza più equilibrati. Le riforme che, invece, vennero promosse nei primi due decenni del Novecento ebbero sul sistema politico un impatto strutturale. La prima fu avviata, dopo un lungo dibattito, nel 1912 da Giovanni Giolitti. Con l’introduzione del suffragio quasi universale maschile (il diritto di voto riconosciuto a tutti i cittadini maschi che avessero compiuto il trentesimo anno di età; mentre mantenevano il diritto di voto a 21 anni solo coloro che erano alfabetizzati) Giolitti cercò di anticipare la formulazione di richieste che stavano maturando nel dibattito suffragista, in casa sia radicale sia socialista, nella speranza che questo provvedimento potesse favorire la sua politica di aggregazione al centro di parte della sinistra. Va tuttavia sottolineato che è con questa riforma che il sistema politico italiano assunse pienamente quella forma di Stato pluriclasse più volte ricordata da Massimo Severo Giannini. La seconda riforma, che ebbe un impatto fondamentale sulla struttura dello Stato, fu avviata invece nel 1919, quando al governo sedeva Francesco Saverio Nitti. Con questa anche l’Italia, come molti altri Stati usciti dalla Prima guerra mondiale, scelse di abbandonare il tradizionale maggioritario per adottare le logiche proporzionaliste proposte da Victor D’Hondt. Furono soprattutto le forze politiche da sempre considerate antisistema, i socialisti e i cattolici (questi ultimi da poco costituitisi in forza politica autonoma, col nome di Popolari), che, affiancati dai radicali, si batterono per l’approvazione della proporzionale, mentre le varie nuances del vecchio liberalismo cercarono prima di ostacolare, poi di addomesticare la riforma introducendo nel testo normativo correttivi volti a rendere morbido il passaggio dal vecchio al nuovo sistema. L’introduzione della proporzionale ebbe una precisa funzione nell’impianto dello Stato: con essa il governo passava dalle mani dei notabili a quelle dei partiti, che da questo momento in avanti diventarono attori principali e non più comprimari della scena politica. L’idea che si potesse intervenire strumentalmente nell’organizzazione delle norme elettorali e quindi che il voto potesse essere piegato a fini politici precostituiti tornò con forza negli anni del fascismo. È nel ventennio, infatti, che, prima dell’introduzione del plebiscito nel 1928, vanno registrate due riforme elettorali entrambe fatte approvare per fini politici: la legge Acerbo del 1923 e la legge, mai applicata, del 1925 con la quale si introduceva per la prima volta il maggioritario secco su collegi uninominali. È tuttavia nei difficili anni della giovane Repubblica italiana che si ha la netta percezione che i partiti, non sempre capaci di governare un sistema politico fortemente segmentato e attraversato da profonde fratture al proprio interno, individuino nelle modifiche elettorali il meccanismo di governo e di mantenimento sotto controllo del sistema. Di questa tendenza si hanno esempi a partire dalla tanto discussa legge maggioritaria del 1953, comunemente conosciuta come «legge truffa», per finire al testo normativo del 2005 che introduce un sistema ibrido, impropriamente chiamato proporzionale, che toglie all’elettorato quel minimo di selezione del personale politico proprio del voto di preferenza. Riforme di struttura e riforme di opportunità in campo elettorale risultano dunque un buon punto di osservazione per testare la forza o la debolezza dei sistemi politici.