Elettorali, sistemi
I s. e. sono meccanismi complessi il cui obiettivo primario consiste nella traduzione dei voti espressi dagli elettori in seggi nelle assemblee rappresentative. Fino a tempi molto recenti la letteratura di scienza politica concordava sull'esistenza di tre grandi categorie di s. e.: plurality, majority e proporzionali. Nell'ultimo decennio si è fatta strada una quarta categoria: quella dei sistemi cosiddetti misti (Mixed-member electoral systems. The best of both worlds?, 2001; Chiaramonte 2005). Vi apparterrebbero in via di principio tutti i s. e. che combinino alcuni elementi maggioritari con alcuni elementi proporzionali. Poiché, però, la categoria dei sistemi misti appare estremamente composita e variegata, nella sostanza priva di una sua specificità distintiva, sembra forse più utile definire ciascun sistema eventualmente misto come una variante di un sistema maggioritario o di uno proporzionale con riferimento preciso alla prevalenza, e quale e quanta, dell'una o dell'altra formula nell'attribuzione dei seggi.
A lungo l'attenzione degli studiosi è stata in particolar modo diretta all'influenza dei s. e. sui partiti e sui sistemi di partito (Electoral systems and party systems. A study of twenty-seven democracies, 1945-1990, 1994; Fisichella 2003; Baldini, Pappalardo 2004). Si sà che i s. e. esercitano un'influenza a molto più ampio raggio: a monte, sulle modalità con cui gli elettori pervengono alla loro opzione di voto; in fase intermedia, sulle modalità con le quali i partiti tentano di 'coordinare' i comportamenti elettorali e decidono delle loro alleanze; a valle, sulle modalità con cui vengono formati non soltanto i Parlamenti, ma gli stessi governi. In definitiva, come risulta in maniera molto evidente ogniqualvolta si discute di una riforma elettorale e la si effettua, i s. e. occupano un posto centrale sia nella vita sia nella dinamica dei regimi democratici.
Le tre grandi categorie
Quando si iniziò a votare negli Stati Uniti e nei sistemi politici dell'Europa occidentale che si avviavano sulla strada della democrazia, il s. e. prescelto fu quello definito plurality ovvero first-past-the-post (dalla terminologia ippica dove the post è il palo che segnala il traguardo), s. e. maggioritario semplice applicato in collegi uninominali nei quali vince un solo candidato. In società e in elettorati ristretti, e quindi piuttosto omogenei, erano le qualità personali che potevano fare la differenza poiché le distanze politiche non apparivano ampie. Per vincere era sufficiente che il candidato ottenesse la maggioranza relativa, ovvero anche di un solo voto, dei voti espressi dagli elettori. Naturalmente, in maniera abbastanza rapida, con la crescita della presenza e dell'influenza dei partiti, il numero dei candidati si ridusse poiché non era politicamente razionale consentire a un candidato di vincere il seggio con percentuali molto basse. Da un lato, gli elettori andavano alla ricerca del candidato meno sgradito che fosse in grado di sconfiggere quello più sgradito; dall'altro, i dirigenti dei partiti suggerivano e coordinavano questi spostamenti elettorali (Cox 2005).
Tuttavia, contrariamente a opinioni molto diffuse, i s. e. plurality non producono sempre e dovunque sistemi bipartitici con riferimento esclusivo al numero dei partiti rappresentati in Parlamento. Riescono a farlo soltanto laddove due partiti sono già grandi, forti e presenti su tutto il territorio nazionale, come, per es., negli Stati Uniti, oppure, fino alla riforma del 1993, in Nuova Zelanda. L'esistenza di minoranze geograficamente concentrate, e irriducibili, in grado di vincere un numero considerevole di seggi uninominali, come, per es., in India, è destinata a impedire la formazione di un sistema effettivamente bipartitico. Semmai, si può concludere su questo aspetto sottolineando che un sistema plurality opera in maniera molto efficace per il mantenimento e la persistenza di un sistema che è già bipartitico. Se nel Regno Unito venisse introdotto un s. e. proporzionale, la conseguenza immediata sarebbe la trasformazione del sistema dei partiti dal bipartitismo in multipartitismo con la necessità di dare vita a governi di coalizione.
I due elementi costitutivi dei sistemi plurality sono: formula della maggioranza semplice e collegi uninominali. Essi sono comuni a tutti questi sistemi, caratterizzanti e immodificabili. Tuttavia, nell'ambito dei sistemi plurality, utilizzati, in generale, nei sistemi politici definiti anglosassoni, esistono alcune poche differenze relative alla dimensione del collegio in termini del numero degli elettori; alla frequenza, abitualmente almeno decennale, con la quale vengono ridefiniti i collegi per mantenerli equilibrati; e al ritaglio del collegio che deve evitare fenomeni di gerrymandering, ovvero di disegno dei confini in modo da favorire truffaldinamente il candidato di un partito rispetto a tutti gli altri.
Appartengono alla categoria dei s. e. maggioritari (majority) quei sistemi che richiedono la maggioranza assoluta dei voti espressi affinché un candidato vinca la carica per la quale concorre. Per limitarsi alle cariche più elevate, molti capi di Stato (per es., quelli di alcune repubbliche presidenziali e semipresidenziali, a cominciare dalla Francia), sono eletti con un sistema maggioritario che prevede un'elezione valida al primo turno soltanto se un candidato ottiene la maggioranza assoluta dei voti. Altrimenti, passano al secondo turno i due candidati più votati, fenomeno definito ballottaggio, e vince il candidato che ottiene più voti, vale a dire, in modo automatico, la maggioranza assoluta. Quello che qui interessa è, però, sostanzialmente il s. e. utilizzato per eleggere un Parlamento.
Per quanto poco noto, è di tipo majority il s. e. australiano, nel quale gli elettori debbono mettere in ordine di preferenza tutti i candidati e in ciascun collegio uninominale vince il seggio il candidato che supera il 50% delle preferenze espresse. Il più noto dei sistemi majority per l'elezione del Parlamento è quello francese della Quinta Repubblica, meglio definibile come 'maggioritario a doppio turno con clausola' di passaggio al secondo turno. Nel caso francese, vince il seggio il candidato che, al primo turno, nel collegio uninominale, abbia ottenuto la maggioranza assoluta dei voti (avviene, abitualmente, all'incirca per un centinaio di candidati dei 577 collegi). Altrimenti, hanno la facoltà di ripresentarsi al secondo turno tutti quei candidati che abbiano ottenuto almeno il 12,5% degli aventi diritto al voto (concretamente, tra il 16 e il 18% degli elettori effettivi). È una soglia elevata che mira a contenere la frammentazione partitica.
Non è, ovviamente, l'unica soglia concepibile, poiché proprio nel corso della Quinta Repubblica il punto di partenza fu del 5% per salire progressivamente. Addirittura, nella Terza Repubblica i francesi votavano con un sistema a doppio turno privo di clausola di passaggio al secondo turno, cosicché non soltanto tutti i candidati potevano ripresentarsi, ma era addirittura consentita l'ammissione di nuovi candidati. Il vantaggio del doppio turno è che consente a elettori, candidati, dirigenti di partito di ottenere informazioni fin dal primo turno sul seguito elettorale e sui programmi dei candidati, nonché sulle possibili alleanze dei partiti. Il doppio turno misura fattori politici importanti e offre all'elettore al primo turno la possibilità di selezionare i candidati e, al secondo turno, quella di eleggere il candidato preferito, o meno sgradito. Oltre a contenere la frammentazione partitica, il doppio turno con clausola incentiva la formazione di coalizioni, certamente fra il primo e il secondo turno e, a sistema dei partiti assestato e consolidato, già in vista del primo turno. In questa situazione, l'elettore è consapevole che la sua preferenza per un candidato costituisce anche l'indicazione per una coalizione di governo.
I s. e. a doppio turno per l'elezione delle assemblee parlamentari, tutti applicati in collegi uninominali, differiscono fra loro essenzialmente con riferimento alla clausola che consente o impedisce il passaggio dei candidati al secondo turno. Quanto agli effetti sui partiti, oltre al probabile contenimento della loro frammentazione, il doppio turno svantaggia i partiti (e i loro candidati) che non riescono a trovare oppure non vogliono cercare alleati. Sono, in generale, i partiti collocati alle estremità dello schieramento partitico, come in Francia, prima i comunisti e, oramai da tempo, l'estrema destra rappresentata dal Front national di J.-M. Le Pen. In definitiva, da molti punti di vista, come ha scritto D. Fisichella (2003), i sistemi a doppio turno sono sicuri "dispensatori di opportunità politiche" per gli elettori, per i candidati e per i partiti.
La terminologia che fa riferimento al sistema proporzionale al singolare, abitualmente utilizzata in Italia, è nettamente fuorviante. Infatti, una volta stabilito che qualsiasi s. e. è proporzionale, poiché esiste un rapporto per l'appunto proporzionale fra la percentuale di voti ottenuta da ciascun partito e la percentuale di seggi di sua spettanza, possono esistere diverse clausole, tutte abitualmente intese a contenere e, addirittura, a ridurre deliberatamente la proporzionalità della traduzione di voti in seggi parlamentari.
Infatti, il grande pericolo che corrono i sistemi proporzionali è quello di consentire (non di produrre) la comparsa di un sistema partitico estremamente frammentato che renderebbe molto difficile la formazione dei governi, inevitabilmente multipartitici, molto precaria e instabile la loro esistenza, e molto dubbia ovvero inadeguata la loro efficacia decisionale. Con maggiore o minore consapevolezza di questi inconvenienti, ma anche della necessità di garantire un'ampia rappresentanza di interessi, preferenze, ideali, i fautori dei s. e. proporzionali hanno individuato alcune clausole intese, come detto, a evitare la frammentazione eccessiva dei partiti. La prima clausola è costituita dalla formula matematica di traduzione dei voti in seggi che si applica in tutte le circoscrizioni dove vengono eletti più candidati. Si va dalla formula che favorisce i partiti più grandi, ovvero d'Hondt, alla formula che favorisce i partiti di media grandezza, Sainte-Lagüe, a quella che svantaggia di meno i partiti più piccoli, Hare. La seconda clausola riguarda l'esistenza o meno di una soglia percentuale di voti per avere accesso al Parlamento.
Memori delle tragiche conseguenze della frammentazione del sistema partitico della Repubblica di Weimar, i costituenti tedeschi del dopoguerra decisero quasi subito di introdurre una soglia del 5% per l'accesso al Bundestag, ovvero, a tutela di eventuali minoranze geograficamente concentrate, dell'elezione di almeno tre rappresentanti nei collegi uninominali nei quali vengono assegnati la metà dei seggi sulla base, tuttavia, della percentuale di voti ottenuta dai partiti. La soglia ha funzionato ottimamente poiché il sistema partitico tedesco ha oscillato da tre a cinque partiti aventi rappresentanza parlamentare. Altrove, come in Svezia, la soglia di accesso al Parlamento è del 4% e, in Spagna, del 3%. La terza clausola che mira a contenere la frammentazione partitica è la dimensione delle circoscrizioni, che va misurata non con riferimento al numero degli elettori, ma al numero degli eleggibili. Una circoscrizione è grande se vi si eleggono più di venti parlamentari; ha dimensioni medie se vi si eleggono più di dieci e meno di venti parlamentari; è piccola quando gli eletti saranno meno di dieci. In assenza di altre clausole, infatti, per eleggere un parlamentare in una circoscrizione che disponga di dieci seggi, un partito deve ottenere circa il 10% dei voti, e così via.
La quarta clausola che può ridurre la proporzionalità dell'esito, anche se il suo scopo principale non è questo, è l'esistenza di un premio di maggioranza. Inevitabilmente, un tale premio, inteso a consentire la formazione di un governo fondato su un'ampia maggioranza di seggi, sottrarrà seggi alla coalizione e/o ai partiti che hanno perso le elezioni. In generale, i s. e. proporzionali consentono la formazione di sistemi multipartitici e sono associati a governi prevalentemente di coalizione. Tuttavia, se le circoscrizioni sono piccole, come in Spagna, e se le soglie percentuali per l'accesso alla distribuzione dei seggi sono elevate, come in Grecia, allora i sistemi partitici, pure multipartitici, avranno un basso numero di partiti con conseguenze complessivamente positive sulla governabilità del sistema politico.
Del caso italiano
Dal 1946 al 1993 l'Italia ha avuto una legge elettorale proporzionale applicata in circoscrizioni mediamente grandi, in molte delle quali venivano eletti più di venti deputati e che, quindi, facilitavano l'accesso al Parlamento anche di partiti che ottenessero intorno al 2% dei voti su scala nazionale, con due clausole poco incisive. Per conseguire rappresentanza parlamentare un partito doveva ottenere almeno 300.000 voti e 'fare' un quoziente, ovvero avere un seguito elettorale concentrato in una circoscrizione tale da consentirgli di superare il quorum per l'attribuzione dei seggi, abitualmente all'incirca 60-70.000 voti. Per quanto basse, queste clausole falcidiarono nelle elezioni del 1972 alcuni partiti, anche di media grandezza come il PSIUP, e altri minori (il Manifesto, il Movimento politico dei lavoratori, i Marxisti-leninisti), e non furono mai un disincentivo alle scissioni, l'ultima delle quali effettuata in tempo utile fu quella di Rifondazione comunista nel gennaio 1991, quando il Partito comunista italiano si trasformò in Partito democratico della sinistra. Criticato perché si riteneva che facilitasse l'immobilismo delle coalizioni, il sistema proporzionale italiano cambiò sotto la spinta del Movimento referendario prima nel 1991, con la riduzione a una sola delle preferenze esprimibili per i candidati; poi, nella sua struttura profonda, nel 1993. Dal 1993 al 2005 fu in vigore, e venne utilizzato in tre elezioni politiche (1994, 1996, 2001) un s. e. con formula tre quarti plurality in collegi uninominali e un quarto proporzionale per liste di partito, con clausola del 4% su scala nazionale per avere accesso a questa distribuzione di seggi. Malamente congegnato, questo s. e. non impedì e non ridusse la frammentazione del sistema partitico. Al contrario, sembrò dare ai partiti minori, spesso indispensabili alla vittoria nei collegi uninominali, un grande potere di 'ricatto' nella distribuzione dei collegi sicuri e nella formazione dei governi.
Mai del tutto accettato dalla maggioranza della classe politico-parlamentare, abituata a comportamenti proporzionalistici, il sistema ironicamente denominato dal politologo G. Sartori Mattarellum, dal nome del suo relatore, il deputato ex democristiano S. Mattarella, venne riformato nell'autunno 2005 dal governo di centrodestra. La riforma elaborata e approvata dalla Casa delle libertà non configura un ritorno alla proporzionale del passato (1946-1993), poiché la legge ruota intorno a tre elementi del tutto nuovi: un premio di maggioranza da attribuirsi alla coalizione che abbia ottenuto la maggioranza relativa dei seggi al fine di consegnarle 340 seggi alla Camera dei deputati; un insieme di clausole di accesso o di esclusione dal Parlamento, delle quali la più importante è quella del 4% per i singoli partiti; la presentazione di liste bloccate di candidati in grandi circoscrizioni uninominali nelle quali, ovviamente, non soltanto viene meno qualsiasi possibilità di rapporto fra candidati e elettori, ma con cui si è consegnato ai dirigenti di partito il potere di designare, con ottime probabilità di riuscita, stabilendo l'ordine di lista dei candidati, coloro che essi decidono debbano diventare parlamentari. Lo stesso discorso vale per il sistema del Senato con l'inconveniente che il premio di maggioranza, in seguito a una probabilmente erronea interpretazione del dettato costituzionale che vuole il Senato "eletto su base regionale", viene attribuito regione per regione in modo da consentire alla lista vincente di ottenere il 55% dei seggi. Questo meccanismo renderebbe possibile, ancorché non probabile, la comparsa al Senato (dato il numero sensibilmente diverso di senatori attribuiti alle singole regioni) di una maggioranza diversa da quella della Camera.
Tutti i s. e. combinano, in qualche modo, obiettivi particolaristici con esigenze sistemiche. La legge proporzionalistica voluta dalla Casa delle libertà è tecnicamente una controriforma non soltanto perché capovolge il sistema maggioritario e ne distrugge le acquisizioni, restituendo enorme potere ai partiti, ma soprattutto perché, mirando a contenere le dimensioni della eventuale vittoria del centrosinistra alle elezioni del 2006, esalta gli obiettivi particolaristici a scapito delle esigenze sistemiche. Anche se non esiste un s. e. perfetto, è pur vero che esistono s. e. preferibili e migliori di altri, siano essi proporzionali, come quello spagnolo e quello tedesco, o maggioritari, come quello francese (Massari, Pasquino 1994). Sono preferibili poiché consentono agli elettori non soltanto di votare per i candidati e i partiti che gradiscono di più, ma anche di dare un'indicazione abbastanza vincolante del governo che vorrebbero vedere in carica. In definitiva, è il potere conferito all'elettorato il criterio con il quale valutare in maniera delicata ed equilibrata i sistemi elettorali. Le riforme elettorali sono, pertanto, più o meno accettabili nella misura in cui intendano accrescere il potere degli elettori rispetto a quello dei dirigenti di partito.
bibliografia
A. Lijphart, Electoral systems and party systems. A study of twenty-seven democracies, 1945-1990, Oxford 1994.
Rappresentare e governare, a cura di O. Massari, G. Pasquino, Bologna 1994.
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D. Fisichella, Elezioni e democrazia, Bologna 2003.
G. Baldini, A. Pappalardo, Sistemi elettorali e partiti nelle democrazie contemporanee, Roma-Bari 2004.
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P. Norris, Electoral engineering. Voting rules and political behavior, Cambridge 2004.
A. Chiaramonte, Tra maggioritario e proporzionale. L'universo dei sistemi elettorali misti, Bologna 2005.
G.W. Cox, I voti che contano. Il coordinamento strategico nei sistemi elettorali, Bologna 2005.