IPERSTATICI, SISTEMI (XIX, p. 476)
Ragioni evidenti di economia e la necessità di ridurre il peso proprio delle strutture, onde coprire senza appoggio intermedio luci sempre maggiori, hanno decisamente orientato la tecnica moderna verso soluzioni in parete sottile, vale a dire verso strutture resistenti di piccolo spessore, ad ossatura diffusa. È tuttavia nota delle strutture sottili la scarsa resistenza flessionale che diminuisce all'ingrosso col quadrato dello spessore. Il problema che domina nell'odierno indirizzo rivolto al rinnovamento ed al progresso degli schemi costruttivi è pertanto quello di ricercare soluzioni in parete sottile che siano aflessionali, nelle quali cioè gli elementi strutturali di piccolo spessore non siano direttamente soggetti a momenti flettenti. Ciò implica che nei problemi di maggiore respiro risulta spesso opportuno abbandonare i due schemi classici della tecnica costruttiva tradizionale, e cioè la trave e l'arco. La trave infatti (e la piastra che da essa concettualmente deriva) è sempre soggetta ad azioni flessionali: il carico applicato alla trave (o alla piastra) non può essere sopportato dalla struttura che per differenza di forze taglianti: e la coppia (o le coppie, nel caso della piastra) generata dalle forze di taglio non può essere equilibrata che per differenza di momenti flettenti. L'arco, a sua volta, lavora a compressione semplice, senza flessione, solo in circostante eccezionali, e cioè, come è noto, quando la funicolare dei carichi applicati coincida con la fibra media dell'arco: non appena però questa coincidenza venga a mancare per lo spostarsi di un carico o per qualsiasi altra causa, l'arco risulta soggetto anche a sforzi di flessione e taglio.
La trave e l'arco sono strutture ad equilibrio piano (ogni porzione elementare di struttura è in equilibrio per effetto di forze appartenenti allo stesso piano). Le soluzioni senza flessione sono invece ottenute ricorrendo ad opportune strutture spaziali, lavoranti a guisa di membrana o velo, delle quali ogni porzione elementare sia in equilibrio per effetto di azioni non tutte appartenenti allo stesso piano (equilibrio spaziale).
Come ciò sia ottenuto non è difficile intendere. Tre sono, nel momento presente, le soluzioni a membrana più diffusamente adottate nella pratica costruttiva.
Nella prima di esse, la superficie media della struttura sottile deve essere dotata di almeno una curvatura: nel senso di questa ultima, la struttura lavora allora come un arco trasformando il carico P (fig. 1) in forze di compressione N: queste ultime (a differenza di quanto avviene nell'arco semplice) possono essere sempre in equilibrio tra loro e col carico tangenziale Q, senza intervento di momenti flettenti, in virtù delle forze S derivanti dalla continuità spaziale della struttura. Naturalmente nella direzione ortogonale al piano contenente la curvatura, l'equilibrio delle forze S richiede la presenza nella struttura di altre azioni N′ (fig. 1) di trazione e compressione: si rende in tal guisa evidente il carattere spaziale dell'equilibrio di ogni porzione elementare di struttura; la circostanza che le azioni N, S, N′ appartengano tutte alla superficie media della struttura significa appunto che quest'ultima lavora a guisa di membrana senza l'intervento di azioni flettenti nello spessore della struttura stessa. È importante osservare come il funzionamento a membrana dianzi descritto sia possibile essenzialmente in virtù delle azioni S, e cioè in virtù della continuità della struttura: ove questa continuità viene a mancare, e cioè nelle zone terminali, occorre provvedere, applicando alla struttura dei diaframmi infinitamente rigidi nel loro piano (timpani) i quali, per così dire, sostituiscano, nell'azione di continuità, le porzioni di struttura mancanti.
Il secondo tipo di soluzione a membrana differisce concettualmente dal primo solo in questo, che la operazione preliminare di trasformare il carico laterale P in azioni appartenenti alla superficie media della struttura non è affidata alla curvatura della superficie, ma è invece dovuta all'azione di diaframmi sottilissimi infinitamente rigidi nel proprio piano e perciò analoghi ai timpani del caso precedente. Tali diaframmi sono numerosissimi e tra loro molto vicini: al limite in numero infinito e tra loro infinitamente vicini. Data la infinita rigidezza nel proprio piano, tali diaframmi hanno appunto la proprietà di poter trasformare il carico laterale P in una distribuzione - vettorialmente equivalente a P - di azioni L appartenenti alla superficie media della struttura. Le L sono equilibrate dalla variazione in direzione ortogonale ai diaframmi delle solite forze S dovute alla continuità (fig. 2). Dopo di ciò il funzionamento statico è perfettamente analogo a quello del caso precedente: nella direzione ortogonale ai diaframmi le azioni S richiedono, per l'equilibrio, l'intervento di sforzi longitudinali N′ di trazione e compressione. Morfologicamente la differenza tra il primo e il secondo tipo di soluzione sta dunque in questo che nel primo tipo si ha curvatura ovunque finita e continua, e i timpani sono disposti soltanto nelle zone terminali della struttura, mentre nel secondo tipo i timpani sono molto numerosi e tra loro vicinissimi, e la curvatura può essere evanescente, cioè la struttura avere foggia prismatica.
Infine il terzo tipo di soluzione a membrana è intermedio tra i due prima descritti: in esso la operazione preliminare di trasformare il carico laterale P in azioni appartenenti alla superficie media della struttura è affidata contemporaneamente alla curvatura della superficie media stessa e ai diaframmi, la cui rigidezza nel proprio piano è però di solito limitata.
Le moderne strutture autoportanti, cilindriche o di traslazione, largamente impiegate in ardite coperture, sono un esempio del primo tipo di soluzione (fig. 3, si notino i quattro timpani di estremità). Le ali "a guscio" degli odierni velivoli sono un esempio cospicuo del secondo tipo di soluzione a membrana (fig. 4, si noti l'assenza quasi completa di curvatura e la fitta distribuzione di diaframmi). Le strutture traviformi con ordinate "vuote" e perciò deformabili nel proprio piano, come le fusoliere dei velivoli, si avvicinano spesso al terzo tipo di soluzione a membrana (la superficie media con curvatura, e i diaframmi tra loro piuttosto lontani).
Non è difficile intuire la complessità dei problemi che il calcole delle strutture sopra ricordate comporta. Basti osservare che, trattandosi di strutture spaziali esse non rientrano quasi mai nel dominio della classica scienza delle costruzioni, la quale è principalmente costituita dalla teoria della trave e dell'arco: tali strutture spaziali debbono perciò essere studiate al lume della teoria matematica della elasticità, la quale però conduce spesso a soluzioni di una laboriosità inaccettabile ai fini pratici; si osservi ancora che diminuendo lo spessore delle strutture si guadagna è vero in peso, ma si introduce la insidia della instabilità elastica, dando origine così a problemi di carico critico che, riferendosi a strutture curve e spaziali, sono ben più complessi del problema Euleriano dell'asta caricata di punta.
Si osservi ancora che il comportamento a membrana delle strutture sopra ricordate spesso è tale solo da un punto di vista macroscopico, essendo gli sforzi flessionali presenti anche essi in qualità di sforzi secondarî: essi sono confinati in zone ristrette della struttura la quale perciò nella sua quasi interezza lavora effettivamente come un velo. La determinazione degli sforzi secondarî di flessione, anch'essa di grande importanza per il necessario irrobustimento delle zone interessate, corrisponde spesso a un problema matematico di laboriosa soluzione.
Si comprende quindi senza diffificoltà come la serie di problemi ai quali si è accennato abbia determinato per la teoria delle strutture elastiche un desiderio di rinnovamento e di progresso dal quale sono stati originati moderni metodi di indagine e di calcolo. Di uno di essi - a titolo di esempio - si dà breve cenno, facendo riferimento non soltanto alle strutture a membrana dianzi descritte, ma in generale a tutti i problemi di elasticità.
Il metodo di equivalenza. - I problemi di elasticità conducono ovviamente, stante le ipotesi fondamentali della sovrapponibilità degli effetti, a equazioni di tipo lineare; così nel caso di sistemi continui e spaziali, come sono quelli dianzi accennati, le equazioni differenziali alle derivate parziali che reggono il problema possono sempre pensarsi, almeno per approssimazione, sostituite da sistemi di equazioni algebriche alle differenze finite. Ciò significa che ogni difficoltà e laboriosità deriva sostanzialmente dall'immenso numero di equazioni lineari e di incognite che occorrerebbe mettere in conto per ottenere una soluzione ragionevolmente approssimata dei problemi complessi. Questo numero è tanto più grande in quanto, di consueto, le quantità che il tecnico ricerca non figurano esse stesse come incognite nelle equazioni risolutive, ma assai più spesso le loro derivate di ordine più o meno elevato, ed è noto come, per ottenere una assegnata esattezza nei valori di una derivata occorra di solito conoscere con ben maggiore precisione la funzione primitiva. La ricerca di nuovi metodi di calcolo per i sistemi elastici corrisponde dunque assai spesso alla questione matematica di trovare modo di risolvere in forma pratica determinati sistemi di equazioni lineari a grande numero di incognite.
Se si volesse del problema elastico una soluzione "esatta", l'assunto sarebbe estremamente difficile. A causa della incertezza pratica sul valore dei carichi esterni e sulle caratteristiche geometriche ed elastiche della struttura, è ben evidente però che non ha senso richiedere ai risultati una esattezza maggiore di un dato limite.
Così, ad es., risulta evidente che la sollecitazione derivante al solaio del piano terreno di un edificio in cemento armato alto dieci piani per effetto di un carico sul terrazzo dell'edificio medesimo è del tutto trascurabile da un punto di vista pratico. Ciò significa che, mentre dovendo progettare l'edificio in questione con uno dei metodi generali della elasticità, occorrerebbe a rigore tener conto anche dei carichi sul terrazzo, viceversa è a priori certo come l'effetto di tali carichi sia, nei limiti di approssimazione consueti, assolutamente irrilevante. È chiaro pertanto come una decisiva semplificazione nella risoluzione dei problemi di elasticità si possa ottenere tenendo conto della ovvia osservazione ora accennata. A tale scopo tuttavia è necessario saper distinguere, per ciascuna parte della struttura, quei carichi l'effetto dei quali è rilevante da quelli l'effetto dei quali è trascurabile; inoltre occorre applicare un analogo concetto a quelle strutture e a quelle condizioni di carico per le quali non ci si trovi in condizioni così estreme ed evidenti come quelle dell'esempio citato. Una guida sicura a tale scopo è fornita dal principio di de SaintVenant. Un insieme di forze esterne vettorialmente equivalente a zero, se applicato ad una regione ristretta di un corpo elastico, ha effetti di carattere meramente locale. Tuttavia i carichi esterni realmente applicati a una struttura elastica non si trovano in generale nella condizione richiesta per l'applicabilità del principio di de Saint-Venant, vale a dire non costituiscono un sistema vettorialmente nullo applicato ad una zona ristretta del corpo stesso. Pertanto è di grande importanza avere regole generali le quali consentano, per una categoria di corpi elastici più vasta possibile, la trasformazione del problema in guisa tale che i carichi esterni figurino raggruppati in sistemi vettorialmente nulli, ciascuno dei quali sia applicato a una zona ristretta del corpo elastico in esame. Serve a tale scopo un metodo di equivalenza, che per semplicità verrà ora illustrato con un esempio.
Si considerino (fig. 5a), due travi rispettivamente di rigidezza A1 e A2, collegate da n montanti incernierati dei quali si ritengano trascurabili le variazioni di lunghezza. Se, per ogni ascissa x, alla prima trave fosse applicato un carico
e alla seconda trave un carico
le due travi avrebbero eguali linee elastiche, e quindi le reazioni dei montanti sarebbero tutte nulle. Se invece, per ogni ascissa x, p1 dx e p2 dx (con p1 + p2 = p) sono i carichi rispettivamente applicati alle due travi, nei montanti nasceranno ordinatamente delle reazioni R1, R2....., Rn, che costituiscono le incognite del problema. Si cerchi allora una condizione di carico, "equivalente" a quella data, vale a dire che produca nei montanti reazioni ordinatamente uguali a quelle reali. Una tale condizione di carico è ovviamente sostituibile a quella effettiva, nel problema della determinazione delle incognite R1, R2 ... Rn. Immaginando di sovrapporre sulla struttura data la condizione di carico reale e quella equivalente cambiata di segno, le reazioni nei montanti debbono risultare tutte nulle, e cioè in tale sovrapposizione la trave superiore viene ad avere il carico
e la trave inferiore il carico
Il carico equivalente cercato è dunque costituito per ogni ascissa x, sulla trave superiore da
e sulla trave inferiore da
Volendo calcolare le reazioni R1, R2 .... Rn è perfettamente lecito sostituire alla effettiva condizione di carico quella equivalente costituita per ogni ascissa dalle due forze + q dx (sulla trave superiore) e − q dx (sulla trave inferiore), formanti un sistema vettorialmente nullo (fig. 5b). Il procedimento può estendersi in modo analogo e in forma altrettanto semplice a vaste categorie di strutture elastiche per le quali è possibile sostituire una qualsiasi condizione di carico con una equivalente costituita da sistemi vettorialmente nulli. Ciò ottenuto è facile intuire, al lume del principio di de Saint-Venant, il procedimento di risoluzione. Basta invero immaginare che ciascun sistema nullo abbia effetto locale, vale a dire, la sua azione si spenga non appena ci si allontani di un tanto prefissato dalla regione ristretta cui esso è applicato. In realtà l'azione di ciascun sistema nullo si estende sino all'infinito per poterla supporre spenta non appena ci si allontana dalla zona di carico occorre applicare, laddove erroneamente si suppone spento l'effetto del sistema nullo, opportuni carichi residui immediatamente calcolabili. Tali carichi residui possono sempre, in virtù del concetto di equivalenza, supporsi costituiti da sistemi nulli, naturalmente di minore importanza dei precedenti, e quindi si può su di essi operare come dianzi, e così via. Si ottiene in tal modo un procedimento di approssimazione successiva la cui esattezza può spingersi a piacere. Una illustrazione sintetica di tale metodo può aversi riprendendo l'esempio delle due travi con montanti incernierati, sottoposte al carico equivalente q e − q. Indicando con â la differenza tra gli spostamenti w1 e w2 delle due travi, si ha per la prima trave l'equazione
e per la seconda trave
e per differenza
Tale ultima equazione va integrata con la condizione che sia â = 0 in corrispondenza dei montanti.
Essa con la condizione â = 0 in determinati punti, non è che l'equazione di una trave continua di carico q dx, di rigidezza
semplicemente appoggiata nei punti dove è â = 0.
Basta dunque studiare tale trave continua per avere nelle reazioni R1, R2 .... Rn degli n appoggi di essa esattamente ed ordinatamente le reazioni R1, R2 .... Rn dei montanti. Poiché la trave continua è il sistema per eccellenza adatto ai metodi di successiva approssimazione, risulta così chiaro come il metodo indicato abbia la possibilità di trasformare una struttura che per avere pochi vincoli esterni sembrerebbe refrattaria ai metodi di successiva approssimazione in una struttura equivalente che per avere moltissimi vincoli esterni (fig. 5c) è notoriamente e facilmente calcolabile con tali metodi. Il procedimento indicato è applicabile, come si è detto, a un grandissimo numero di strutture, e cioè non solo a quelle del tipo in parallelo, come la struttura dell'esempio indicato, ma a strutture allungate, come le strutture a guscio, i telai elastici piani, i tralicci, i grattacieli, ecc., nonché a strutture spaziali come le vòlte autoportanti già accennate. Tale metodo può applicarsi anche a problemi non di elasticità, ma interessanti la fisica matematica e a qualunque tipo di dati del problema, e cioè non soltanto per trasformare i carichi esterni, ma anche per operare sui cedimenti dei vincoli, spostamenti relativi (incongruenze), variazioni termiche, ecc.
Si osservi inoltre che è possibile stabilire quattro teoremi sintetici che definiscono le modalità e le ragioni intrinseche della convergenza del metodo di equivalenza. Basti in questa sede accennare al primo di essi, detto Principio del massimo lavoro, il quale stabilisce una proprietà variazionale, la cui ovvia interpretazione fisica è la seguente: se ad un sistema elastico soggetto a determinati carichi si aggiungono dei vincoli senza attrito, il lavoro di deformazione non può aumentare (in altre parole: tra tutte le deformate ottenute aggiungendo vincoli senza attrito, quella vera corrisponde al massimo lavoro di deformazione). Anche il principio di massimo lavoro e gli altri tre teoremi sintetici sopra accennati possono estendersi a molti problemi che non sono di elasticità ma appartengono a settori diversi della fisica matematica. Dai detti quattro teoremi possono farsi derivare diversi metodi di successive approssimazioni, che possono classificarsi in tre gruppi, secondo che la iterazione si riferisca soltanto agli sforzi, oppure soltanto alle deformazioni o infine alternativamente agli sforzi e alle deformazioni.
Bibl.: W. Flügge, Statik und Dynamik der Schalen, Berlino 1934; G. Krall, Strutture in foglio, volte-travi e volte secondo superficie di translazione, Bologna 1928; id., Moltiplicatore critico di una distribuzione di carico su una volta autoportante, in Rend. Acc. Naz. Lincei, 1946; L. Broglio, Contributo alla teoria della trave continua e dei telai elastici piani, in Ricerche d'Ingegneria, 1937; id., Introduzione di un metodo generale per il calcolo delle strutture a guscio, in Monografie Scientifiche d'Aeronautica, n. i, 1945; id., A method of Equivalence applied to the solution of problems of Elasticity and of Mathematical Physics, in VII International Congress of Applied Mechanics, Londra 1940; id., Introduzione di un principio di "massimo lavoro" per il calcolo delle strutture elastiche, 1940; id., Some synthetic theorems of Elasticity and of Mathematical Physics. Their development from the practical point of view. Three methods of successive approximations, in VII International Congress of Applied Mechanics, Londra 1948.