Sistemi locali e sfide globali
Nei primi decenni del 20° sec. l’idea di globale fece la sua comparsa in un ristretto nucleo di pensiero filosofico, che riteneva possibile l’unificazione del globo secondo un punto di vista essenzialmente speculativo. Solo in quest’ambito filosofico si cominciò ad affermare un pensiero per linee generali: con il termine globale viene quindi indicato il carattere tanto planetario-complessivo, quanto territoriale-superficiale proprio di questo modo di pensare.
È però soltanto all’inizio degli anni Novanta che il neologismo globalizzazione cominciò a circolare più diffusamente nella letteratura specialistica (socioeconomica, territoriale-geografica, giuridico-politologica) con una crescente forza e capacità di rappresentazione della realtà. Ma in quella fase il concetto non si era ancora affermato nel lessico corrente con tutto il carico di significati – economici, politici, simbolici – che esso porta con sé. Con il 21° sec. questa parola si è diffusa prepotentemente con l’intento di indicare la tendenza mondiale all’unificazione e di anticipare sviluppi futuri che si stanno peraltro largamente realizzando.
Negli anni più recenti questi sviluppi si sono concentrati soprattutto nella sfera della globalizzazione economica. Il tema della creazione di un mercato globale, trainato dalle azioni di imprese o multinazionali globali, e della organizzazione di flussi di produzioni, merci, saperi, persone e prima di tutto di capitali finanziari, ha rappresentato il leitmotiv della ricerca economica. Solo pochi autori si sono invece concentrati sul tema della società globale, vale a dire della creazione di una comunità mondiale interconnessa, seppur divisa da profonde e crescenti diseguaglianze. Nel mezzo, per così dire, si colloca la ricerca, in modo particolare quella di carattere politologico e giuridico, sulle difficili condizioni di una governance globale, in presenza di un evidente, drammatico vuoto di istituzioni e sistemi di norme condivisi in grado di regolare non soltanto il funzionamento del mercato globale ma la stessa convivenza mondiale.
Anche il tema del locale ha conosciuto una fioritura nel corso degli ultimi due decenni. Si è trattato in parte di una riscoperta di dimensioni politiche e culturali di reazione alla globalizzazione da parte di gruppi sociali premoderni (piccole imprese marginali, piccolo commercio individuale, lavoro autonomo di prima generazione). Ciò ha portato, in una prima fase, alla chiusura difensiva e localistica da parte di settori sociali che si sono sentiti messi a rischio dalla delocalizzazione di produzioni verso i Paesi meno sviluppati (offshoring) e dal flusso di immigrazione verso i Paesi più sviluppati.
Questa risposta localistica alla globalizzazione non deve essere però sopravvalutata ed è probabilmente destinata al ridimensionamento. Se infatti è impensabile un ritorno a sistemi economici chiusi e a segregazioni socioetniche di tipo comunitario, d’altra parte la ricerca più fondata si è focalizzata sulle interconnessioni e interrelazioni tra globale e locale. Negli ultimi anni è stato coniato e si è diffuso un neologismo, glocalization, per rappresentare l’interdipendenza dei due fenomeni. Il globale contiene in sé il locale, e perfino il locale contiene in sé già il globale: la tesi elaborata sul piano epistemologico da Jean Petitot (Locale/globale, in Enciclopedia Einaudi, 8° vol., 1979, pp. 429-90) è stata ripresa e declinata nei campi dell’economia, della sociologia e delle scienze politiche, degli studi antropologico-culturali, della geografia e degli studi territoriali, e in altri ancora.
La governance ha unificato i temi del globale e del locale: il termine è nato nella scienza della politica internazionale, per rappresentare un sistema mondiale di relazioni inter- e transnazionali sempre meno fondate su solidi presupposti di diritto internazionale. La governance è dunque il sistema di reti che connette gli attori sulla scena mondiale, in cui nessun diritto né legittimità globali vigono da tempo (secondo i più, da quando si è esaurito un assetto bipolare uscito dalla Seconda guerra mondiale e che aveva retto il mondo da Jalta alla caduta del muro di Berlino). Ma se la global governance esprime la ricerca di forme di governo non fondate sulla sovranità di tipo statale (secondo alcuni di un dominio senza sovranità), la local governance pone in rilievo questi stessi processi nella sfera del locale. Anche in questo caso, il governo si declina non più su basi di autorità di tipo statuale, ma sulla ricerca del consenso, sull’implicazione e il coinvolgimento in forme reticolari di attori diversi, pubblici e privati (soprattutto imprese), ciascuno portatore di interessi che vengono riformulati e ricostruiti nei diversi contesti locali. In questo senso, il punto focale su cui sembrerebbe convergere il dibattito è quello di una definizione di globalizzazione come rete (network) globale. Secondo questa ottica, la globalizzazione è una complessa rete di interazioni tra differenti attori e diverse aree geopolitiche dell’economia mondiale che, pur conservando strutture distintive e identità culturali proprie, concorrono ad ampi processi di integrazione. È questo il punto di vista espresso dalle ricerche di Suzanne Berger. Il prodotto mondiale concepito, progettato, realizzato e assemblato in luoghi diversi, infine trasportato e immesso nei mercati globali corrisponde a una crescente interrelazione tra segmenti sociali, organizzativi e culturali distinti.
Questa definizione apparentemente debole di globalizzazione può rappresentare un punto di vista intermedio tra la teoria economica, che mette in evidenza quelle che sono le forze omologanti della globalizzazione, e le teorie socioculturali, che mettono al contrario in evidenza la dipendenza storica dai percorsi nazionali (path dependence). La definizione permette invece di prendere in considerazione una più ampia visione di società mondiale come ‘campo’, nel senso che Pierre Bourdieu (Campo del potere, campo intellettuale e habitus di classe, «Rassegna italiana di sociologia», 1975, 3, pp. 347-68) ha voluto imprimere a questo termine, dove attori autonomi ma interrelati prendono parte a un gioco le cui regole sono in buona misura ancora da scrivere.
Produzioni locali nell’economia-arcipelago
È emerso dunque un nuovo modello di economie-territorio, assai più complesso del vecchio mosaico internazionale descritto dalla teoria di Raymond Vernon sul commercio e il ciclo di vita del prodotto. Ormai alla vecchia gerarchia di economie nazionali e alle relazioni del tipo centro-periferia si è sostituita una crescente interdipendenza tra globale e locale. Alla base di questo fenomeno vi sono la natura contestuale oltre che codificata della conoscenza, la natura relazionale e sistemica della competizione e il ruolo dell’incertezza. Viene alla luce un mondo multipolare, fatto di flussi e di legami in tutte le direzioni tra i diversi poli, e di un insieme di reti sia orizzontali sia verticali.
Come spiegano i modelli a rete, i nodi sono costituiti da città e da regioni (global city-regions, nella formulazione di Allen J. Scott), che riacquistano perciò un ruolo centrale nella globalizzazione. La dinamica dei nuovi amalgami territoriali è basata sulla varietà delle loro economie, inserite in lunghe catene del valore globali (le global value chains studiate da Gary Gereffi), piuttosto che sulla specializzazione di tipo fordista. Anche se soltanto una élite di questi nodi forma quel club esclusivo definito da Saskia Sassen ‘città globali’, cioè centri di comando dell’economia mondiale. In realtà le dinamiche dell’economia-arcipelago moltiplicano su scala allargata le opportunità e le nuove occasioni dei sistemi territoriali di entrare in reti allungate di produzione. È il caso dei distretti industriali la cui produzione viene localizzata essenzialmente fuori distretto, mantenendo in loco solamente le funzioni terziarie di coordinamento e progettazione di una produzione delocalizzata.
Il nuovo ruolo delle comunità locali
Il fenomeno paradossale della ripresa del concetto di comunità locale nell’epoca della globalizzazione ha più di una spiegazione. Una difesa della comunità locale come luogo di identità protetta, infatti, costituisce soltanto una spiegazione parziale. Infatti solo se una comunità politica è vista come un gruppo integrato che condivide una visione morale o religiosa, allora si producono localismo o persino fondamentalismo. Tuttavia buona parte del pensiero neocomunitario rifiuta questa prospettiva, sottolineando invece gli aspetti espressivi e non strumentali della sfera di comunità e perfino la sua natura ‘inoperosa’ (J.-L. Nancy, La communauté désœuvrée, 1986; trad. it. 1992). Se invece la comunità locale è vista nell’ottica della democrazia deliberativa, essa è un luogo di autonomia politica, la quale richiede che coloro che sono governati debbano trovare accettabili le basi delle decisioni collettive, anche qualora siano in disaccordo sui dettagli di una decisione. Le scelte che mettono in gioco una comunità, per es. quelle relative alla dotazione di beni collettivi per la competitività, vanno assunte coinvolgendo i diversi portatori di interessi locali. Le strategie di sviluppo locale sono promosse dalle scelte di diversi attori, locali e regionali, nazionali e sovranazionali, che è necessario – ma assai difficile – ricondurre a una governance multilivello.
La partecipazione a reti globali mediante la delocalizzazione di produzioni verso Paesi a basso costo è solo una delle possibili varianti che rendono fragile una comunità locale. Altri casi sono quelli delle integrazioni sovralocali, di apertura di nuovi distretti produttivi, di specializzazioni e cooperazioni tra territori. In alcune situazioni è stata riscontrata (Saxenian 2006) la formazione di un vero e proprio pendolarismo imprenditoriale sovranazionale, come nel caso di imprese californiane promosse da imprenditori cinesi che hanno successivamente creato attività indigene a Taiwan, e, più recentemente, nel caso di analoghe integrazioni tra imprese di Silicon Valley e regioni come Bangalore in India.
Il decentramento postfordistae la delocalizzazione
Mentre all’epoca degli Stati nazionali la centralizzazione implicava un monopolio delle funzioni normative che escludeva qualsiasi competizione di poteri regionali o settoriali, questo non rappresenta necessariamente un attributo del comportamento dei sistemi produttivi e regolativi postfordisti. Infatti essi ammettono nei sistemi sia economici sia di regolazione un considerevole grado di decentramento. Centri di produzione delocalizzati, ma anche sistemi locali, clusters regionali, piccoli Stati regionali, città-Stato (come, per es., Singapore), agenzie multilocalizzate: un fiorire di attori non centrali caratterizza l’evoluzione di numerosi sistemi produttivi e regolativi contemporanei.
Vi sono buone ragioni a favore del decentramento, come la competizione tra sistemi e comunità locali che tende a generare un confronto tra le diverse performances e, quindi, una migliore erogazione di servizi pubblici e privati. Le comunità locali più efficienti saranno premiate da investimenti dall’esterno e anche da nuovi residenti, almeno in condizioni di elevata mobilità. Una ripresa di questi temi è propria della pianificazione strategica di città e territori, sia negli Stati Uniti sia in Europa. Si punta a creare territori di qualità in grado di competere su scala globale, non sul costo del lavoro ma sui fattori rari e irripetibili del design, della progettazione, della creatività.
Nel continente asiatico, che è stato pronto a ricevere intensi flussi di delocalizzazione produttiva dalle imprese multinazionali dei Paesi più sviluppati e ad attivarne di propri in direzione dei Paesi sviluppati e di quelli in via di sviluppo, si sta attuando un singolare rovesciamento di prospettiva. Infatti la Cina non delocalizza ma prende lavoro dal resto del mondo, ed è destinata a divenire la principale piattaforma manifatturiera globale. I differenziali di costo del lavoro diretto (1:20) e soprattutto diretto+indiretto (1:40) tra le produzioni asiatiche e quelle occidentali rendono ormai questo processo irreversibile, anche scontando una progressiva lievitazione dei salari (ed eventualmente uno sviluppo delle tutele sindacali) nei Paesi asiatici. Per i Paesi industriali avanzati si prepara un destino no-manufacturing.
La diffusione
La ritirata dello Stato nei confronti del mercato e il decentramento operativo della produzione hanno avuto un corrispettivo nella diffusione del potere nell’economia mondiale. Uno slittamento di potere dallo Stato al mercato è stato certamente uno dei principali eventi della fine del 20° e l’inizio del 21° sec.: soprattutto nei settori della produzione, del commercio e della finanza questo processo ha assunto grande rilevanza. Tra gli effetti più evidenti vi è stato l’aumento di potere delle imprese multinazionali, o transnazionali, e delle loro reti (network). Si può quindi sostenere che la diffusione dei poteri abbia coinciso con una concentrazione in capo a un numero significativo di imprese globali o global players (da 30.000 a 100.000 a seconda del tipo di stima).
Il processo ha avuto delle ripercussioni anche sulle imprese cosiddette domestiche. Tali imprese, grazie a economie di scopo, sono state messe in grado di competere, attraverso collegamenti a rete, su più mercati dei prodotti. Parti di produzione si sono spostate all’estero, ma soprattutto ciò che resta in loco è una fabbrica senza operai: prevalgono infatti le funzioni manageriali strategiche, quelle tecniche e impiegatizie di controllo dei cicli globali di approvvigionamento (outsourcing) e di subfornitura. Il caso delle costellazioni e dei settori produttivi italiani, che può essere riassunto nella locuzione made in Italy, appartiene a questa evoluzione: anche il made in Italy è ormai largamente made in the world.
Le federazioni
I sistemi di produzione flessibile del tipo made in Italy potranno rappresentare ancora per un certo periodo di tempo una fonte di vantaggio competitivo nella sofisticata economia globale della varietà, solo a condizione che siano consapevoli di dover cambiare. Avranno un futuro nella globalizzazione scegliendo due vie alternative di sviluppo. Possono puntare a una soluzione gerarchica, divenendo imprese-rete che internalizzano pianificazione strategica, design e marketing, affidando a imprese esterne (e spesso delocalizzando in aree a basso costo) la maggior parte della produzione manifatturiera; ed è questa la tendenza attualmente più evidente. Oppure possono puntare su una soluzione non (o meno) gerarchica, divenendo reti federative o costellazioni pianificate, senza che le funzioni chiave siano centralizzate nell’impresa ma moltiplicando le forme di cooperazione orizzontale e laterale. Questa alternativa sembra essere seguita soprattutto dai settori produttivi più sofisticati a forte contenuto di moda e design.
Si noterà così che la problematica federativa rappresenta un ponte gettato tra i sistemi economici postfordisti e i sistemi politici postnazionali nella fase attuale: ma, pur essendo assimilabili i modelli organizzativo-istituzionali che reggono entrambi, profondamente diverse appaiono le risorse che essi hanno rispettivamente a disposizione. Ciononostante, sia le federazioni produttive sia le federazioni istituzionali seguono principi comuni: ridurre il ruolo del centro, privilegiare i processi di mutuo adattamento e apprendimento tra le componenti del sistema, fare proprie logiche di esplorazione anziché di comando e controllo.
La globalizzazione
In un’ottica critica, le posizioni dei globalisti possono essere ricondotte a due diverse interpretazioni. Ciò che unifica le due posizioni è il profondo scetticismo verso gli Stati-nazione, ritenuti incapaci di orientare le politiche macroeconomiche e le stesse politiche di welfare: come afferma Sassen (2006), essi stanno perdendo il controllo. Dal punto di vista dei globalisti, gli Stati-nazione sono ostaggi del mercato globale. La loro nuova ortodossia, tuttavia, si articola seguendo almeno due scuole rivali. I neomedievalisti ritengono che reti locali, regionali e imprese transnazionali si svilupperanno senza che lo Stato (un po’ come avveniva nel Medioevo per l’Impero) possa giocare alcun ruolo cruciale; la governance globale che alla fine emergerà sarà composta di reti interconnesse, sia che si tratti di imprese, di regioni, di istituzioni politiche o sociali, di Organizzazioni non governative (ONG). Gli internazionalisti liberali sostengono invece che le istituzioni esistenti continueranno a esercitare il loro potere all’interno di un nuovo governo mondiale.
D’altra parte una visione critica della globalizzazione tarda ad affermarsi, sia che per questo si intenda qualcosa che unifichi i movimenti di protesta emersi, a partire dagli anni Novanta, dalla contestazione al WTO (World Trade Organization) di Seattle e dalla Conferenza di Rio de Janeiro sull’ambiente e lo sviluppo (in evidente ritirata), sia che si tratti piuttosto di blocchi geopolitici di Paesi e sistemi economici collocati ai margini del processo o decisamente nel ruolo di perdenti. Peraltro il vecchio schema vincenti-perdenti, che identificava i primi con i Paesi sviluppati e i secondi con i Paesi in via di sviluppo, è ormai smentito dai fatti: l’India e il Brasile, oltre alla Cina, sono chiaramente tra i protagonisti dell’economia globalizzata.
La governance
Il progressivo slittamento dal government alla governance, che si è enfatizzato nel passaggio dal 20° al 21° secolo, esprime chiaramente l’esaurimento, o la mera sopravvivenza sterilizzata, del vecchio potere gerarchico e l’affermarsi di reti di attori, economici e sociali, che operano accanto a quelli politici e istituzionali e ricercano mediante la negoziazione e l’intesa una nuova capacità di governo.
Da un punto di vista istituzionalista, la governance democratica significa qualcosa di più della mera gestione di coalizioni politiche o lo scambio di benefi-ci entro limiti dati. Governance significa anche influenzare il processo attraverso cui quei limiti sono definiti, puntando allo sviluppo di identità di cittadini e di gruppi, al dispiegamento di capacità istituzionali nuove, e alla sperimentazione di pratiche dialogiche volte a ottenere il controllo e la responsabilità dei sistemi democratici e una loro flessibilità in grado di misurarsi con le nuove domande. Si tratta di un decalogo di obiettivi cui potrebbe ispirarsi una visione critica positiva, e non solo di protesta, della globalizzazione. Infatti dalla formazione di nuove identità collettive potranno emergere nuove forme di solidarietà oltre quelle definite dai vecchi confini nazionali. Questa visione di una solidarietà globale o cosmopolita da costruire si accompagna, ancora una volta, all’emergere della governance locale, che può essere definita come la capacità di mettere insieme diversi interessi, attori, organizzazioni e dar loro espressione nell’ambito di una comunità locale. La governance locale esprime così la capacità di sviluppare una strategia e un progetto collettivo che dalla singola dimensione locale sia capace di dialogare con altri livelli di essa. Si tratta quindi di una visione della governance multilivello: essa esprime il passaggio da una legittimità delle istituzioni ancorata all’input (quindi sostenuta dalla forte identità collettiva tipica della comunità) a una basata sull’output, cioè sul rendimento economico delle istituzioni e, quindi, su meccanismi di legittimazione assai più differenziati, limitati e contingenti.
L’identità orientata all’output peraltro può facilmente ammettere la coesistenza di identità collettive multiple interconnesse e in parte sovrapposte su specifici problemi che richiedono soluzioni collettive. Questo è il caso della governance multilivello dell’Europa nella sua attuale configurazione federativa: di qui il contributo critico alla globalizzazione che dall’esperienza europea si può far emergere, nel senso non di omologazione ma di un nuovo pluralismo e di un multipolarismo sia economico sia politico.
L’impresa globale
I cambiamenti avvenuti nel mondo a partire dalla fine del 20° sec. che hanno maggiormente influenzato la struttura e il funzionamento delle imprese multinazionali nel primo decennio del 21° sec. sono stati l’abbassamento delle barriere commerciali (accordi GATT, General Agreement on Tariffs and Trade) e la rivoluzione nei trasporti e nelle comunicazioni internazionali (in particolare l’impatto della ‘containerizzazione’, che ha abbattuto drasticamente i costi del trasporto delle merci via mare, i trasporti aerei e la rete di collegamenti delle telecomunicazioni su scala planetaria). Le imprese hanno così cominciato a operare in maniera assai più integrata su scala mondiale, mentre quelle che operavano Paese per Paese si sono trovate in serio svantaggio.
Nuovi segmenti di mercato globale sono stati creati, la tecnologia è stata diffusa quasi istantaneamente su scala globale nelle economie avanzate e in via di sviluppo (anche se gli 1,2 miliardi di utenti Internet nel 2006 rappresentano tuttora una minoranza privilegiata a fronte di 5 miliardi di esclusi), ed economie di scala e di scopo hanno permesso di sfruttare i benefici su segmenti multipli di mercato. Le caratteristiche del management e dell’organizzazione sono state progressivamente orientate verso un modello ‘geocentrico’. Le risorse umane dell’impresa, centrate sui cosiddetti lavoratori della conoscenza (knowledge workers), tendono così a formare un network globale di dirigenti che agiscono in rete, con una riduzione di importanza dei piani strategici formulati su variabili esclusivamente di natura finanziaria: anche se questa tesi sembrerebbe smentita dai processi di fusione e acquisizione che spesso hanno esclusivamente motivazioni finanziarie. Per descrivere i cambiamenti dell’impresa globale è stato proposto il concetto di eterarchia: a) molti centri di tipo differente; b) ruolo strategico delle subunità estere; c) ampio spettro di modelli di governance; d) integrazione più normativa che coercitiva; e) coalizioni con altre imprese; f) orientamento radicale ai problemi; g) organizzazione ‘olografica’, con informazione sull’intera impresa posseduta da ciascuna sottounità; h) modello di azione dell’impresa come organismo cognitivo. In merito a questi aspetti il contributo di Ikujiro Nonaka e Hirotaka Takeuchi (The knowledge-creating company, 1995) ha poi specificato che l’impresa non soltanto elabora informazione, ma crea conoscenza. La distinzione è importante: infatti, mentre l’informazione è tangibile e risiede nei media e nei network, la conoscenza risiede in uno spazio simbolico ed è intangibile.
Pur essendo questo l’approccio prevalentemente diffuso, tuttavia anche un criterio più orientato alla dimensione nazionale è sopravvissuto nella teoria dell’impresa. Qualche autore, in posizione relativamente marginale, ha osservato che negli ultimi decenni molti pretesi sinonimi di impresa globale sono stati usati, da internazionale a transnazionale a mondiale, ma si può dubitare che siano realmente sinonimi. Secondo alcuni le imprese globali o ‘senza Stato’ sono in realtà imprese nazionali che operano con strutture internazionali.
La rinnovata dimensione locale
Come si è visto, nella letteratura sulla globalizzazione il globale è normalmente contrapposto al nazionale, mentre il locale è posto in una collocazione più ambigua e per alcuni versi convergente con il globale. Infatti l’opposizione globale/locale svanisce se si considera la distanza spaziotemporale, come fa Anthony Giddens nei suoi studi dagli anni Settanta a oggi, riferendosi alla complessa interrelazione che si stabilisce tra implicazioni locali e interazione remota (The consequences of modernity, 1990; trad. it. 1994). Nella modernità la distanza spaziotemporale è divenuta molto più comprimibile rispetto ai tempi passati, ed è intervenuto uno ‘stiramento’ tra il locale e le forme e gli eventi remoti. Tra tali elementi si instaura una relazione che li rende, pur essendo appartenenti a regioni diverse e a contesti sociali distinti, parti di una stessa rete mondiale. La globalizzazione è questa intensificazione delle relazioni sociali, cognitive e produttive su scala mondiale che rende gli eventi locali modellati reciprocamente da altri eventi locali che si verificano in situazioni remote. Questa azione reciproca è parte della modernità ‘riflessiva’, in cui appunto il mondo agisce riflettendo sulle azioni che sta compiendo e, quindi, essendone continuamente rimodellato (The constitution of society, 1984; trad. it. 1990).
Locale può anche significare lo spazio usato per l’interazione, sia esso una stanza, una via, una regione, il territorio di uno Stato, il mondo. Il locale significa qui contestuale, cioè contesto di interazione, e richiama assai bene la fissità delle istituzioni. Ciascun locale inoltre appare internamente regionalizzato, nel senso che ha uno spazio frontale e un retroscena, entrambi essenziali per costituire i contesti di interazione.
Il pensiero sul locale si è arricchito nei primi anni del 21° sec. grazie al lavoro epistemologico di Bruno Latour (2005), che sottolinea l’importanza dei siti locali dove sono elaborate le strutture dette globali: tutta la topografia del mondo sociale ne risulta modificata. Macro non designa più un sito più grande in cui il livello micro si incastra, ma un altro luogo, anch’esso micro, anch’esso locale connesso ad altri. La scala, anziché essere configurata a priori, viene definita dai rapporti dei diversi attori che interagiscono reciprocamente grazie alle loro tracce specifiche. Latour propone di procedere in tre mosse: a) localizzare il globale: il globale è patterned ground, un terreno modellato dove si formano intrichi, si incrociano flussi; b) ridistribuire il locale: la struttura locale è preformata da ‘altre cose’ (siti, momenti, attori). Anziché partire dal luogo, partiamo dalla circolazione tra i luoghi; c) connettere i siti: i siti del globale e del locale sono costituiti da un andirivieni di entità in circolazione. In primo piano non sta più la struttura né il soggetto, ma i flussi di condotte, circuiti che forniscono agli attori strumenti necessari a interpretare la situazione data.
Le facoltà cognitive non stanno in noi, né emergono dal contesto, ma si propagano nell’ambiente formattato mediante patches e plug-in (connessioni).
Gli oggetti, i modi d’esistenza, i contenuti e gli attachments, i mediatori sono entità, esseri, oggetti, cose, regimi di enunciazione che popolano il mondo e formano dei collettivi. La società non è quel gran tutto nel quale il resto si trova incastrato, ma ciò che viaggia attraverso tutto il resto. Nella topografia reticolare e piatta disegnata da Latour il sociale circola entro le proprie catene metrologiche.
E tutto ciò che sta fuori, che non è connesso dalla rete? Latour lo chiama plasma; per es. la popolazione prima che si trasformi in cifre a opera dei procedimenti statistici: un vasto retroterra che fornisce le risorse necessarie al compimento di qualsiasi azione, una materia fluida e sconosciuta, sulla quale una nuova sociologia delle associazioni può iniziare l’esplorazione, come in una terra incognita.
Il declino della dimensione nazionale
Secondo alcuni studiosi, il dibattito sulla globalizzazione ha messo radicalmente in crisi l’idea di nazione, mentre per altri solo parzialmente. È stata a tale proposito opportunamente richiamata la teoria dell’antropologo Benedict Anderson (Imagined communities, 1983), secondo cui la nazione è una ‘comunità immaginata’ nel tempo e nello spazio, frutto della selezione di alcune lingue e della loro affermazione su altre, della tecnologia (in origine la stampa) che è stata in grado di creare un campo unificato di lettori della stessa lingua, del capitalismo e di una buona dose di casualità. Al marxista Anderson è stato risposto che anche la classe, il principale competitore della nazione, è una comunità immaginaria, e che insieme nazione e classe sono cresciute all’interno dello stesso processo di modernizzazione. Da ciò se ne potrebbe concludere che nazione e classe declinano insieme a conclusione di quel processo? In modo più cauto sul declino della nazione si esprimono gli storici, seguendo Michael Mann (Has globalization ended the rise and rise of the nation-state?, «Review of international political economy», 1997, 3, pp. 472-96) che invita a distinguere tra cinque reti (network) sociospaziali di interazione: locale, nazionale, internazionale, transnazionale e globale.
I network locali e nazionali sono inclusi nello Stato-nazione, quelli internazionali li collegano tra loro; in questi tre casi la dimensione nazionale non è mai realmente in discussione. Soltanto i network trans-nazionali operano ignorando i confini nazionali, ma non sono ancora necessariamente globali. Solamente questi ultimi operano inoltre su una scala mondiale coprendo una varietà di fatti, dai movimenti sociali ai mercati finanziari (The emergence of modern European nationalism, in J.A. Hall, I.C. Jarvie, Transition to modernity, 1992).
Una visione equilibrata dei rapporti tra la sfera nazionale e la sfera transnazionale è anche quella degli autori che si riconoscono nella scuola della ‘varietà dei capitalismi nazionali’. Partendo dalla varietà delle forme istituzionali, dai mercati puri alle imprese, dallo Stato alle associazioni formali e alle reti informali, questi autori hanno analizzato l’impatto della globalizzazione. Esso, anche se favorisce le forme pure di mercato e l’autonomia delle imprese, non porterà necessariamente al capitalismo deregolato: piuttosto saranno favoriti i regimi di regolazione ai livelli regionale, settoriale e globale (ma non a quello nazionale). Una riasserzione simbolica della sovranità nazionale non è peraltro completamente da escludere, se non altro allo scopo di impedire forme di governance sovranazionale. D’altra parte, nel momento in cui si parla di economie nazionali si ha sempre in mente la Francia, o la Germania, ma nel 21° sec. si deve piuttosto pensare alla Cina e all’India, il cui nazionalismo economico è fuori discussione.
Il ritorno della dimensione regionale
La regione è stata nel 20° sec. una categoria di analisi marginale, se non assente in alcune discipline forti delle scienze sociali, specie in economia. Occorre risalire al 19° sec. per trovare attiva una teoria dell’economia di tipo regionale, come nei distretti di Lione, Sheffield e Solingen, Saint-Etienne e Birmingham studiati da Alfred Marshall, e riscoperti da Giacomo Becattini (Mercato e forze locali, 1987) e da Charles F. Sabel e Michael J. Piore (The second industrial divide, 1984; trad. it. 1987) come esempi di distretti e regioni a specializzazione flessibile. Ma almeno a partire dagli anni Cinquanta del Novecento la regione sparisce dall’analisi economica, e resta solo un’articolazione amministrativa di cui si occupano i giuristi. La regione è stata infatti sostituita, come unità di analisi economica, dalla nazione da un lato (the new industrial State) e dalla grande impresa fordista dall’altro.
Con la fine del 20° sec., però, l’incremento della competizione internazionale rende i mercati sempre più volatili e le imprese più dipendenti da forme nuove di organizzazione flessibile. Questi mutamenti portano a riconsiderare la regione come un’unità di produzione integrata e a ripensare le imprese come inserite entro una dimensione regionale. Secondo alcuni studiosi di geografia economica (Storper, Salais 1997; Scott 2006), le regioni (almeno quanto se non più delle nazioni) hanno proprie identità economiche in quanto i loro prodotti sono il risultato di convenzioni tra i rispettivi attori economici: la reputazione di certi prodotti deriva dalle cornici di azione che ne fanno (o meno) prodotti di successo. Ciò vale per i tessuti o le calzature dei distretti italiani non più che per il software californiano o la logistica olandese. L’identità economica di una regione, non meno di quella di una nazione, deriva anche dalla sua capacità di innovazione che, a sua volta, è il frutto di un efficace coordinamento tra gli oggetti (seguendo il pensiero di Latour) e gli attori che sono necessari a introdurla.
A questa analisi si accompagna l’indagine elaborata da sociologi dello spazio metropolitano come Neil Brenner (2004) che individua nelle nuove dimensioni della metropoli e della città-regione il frutto di un processo di rescaling da parte degli Stati: si tratterebbe di nuovi spazi creati o sostenuti dagli Stati nella gara competitiva globale.
Quanto più una regione, o città-regione globale, è dotata di elevate capacità di coordinamento, tanto più gode di un vantaggio comparativo rispetto ad altre regioni concorrenti. Le imprese appaiono quindi integrate entro contesti istituzionali regionali che ne influenzano i comportamenti e perfino le strategie e le strutture. Solo parzialmente queste ultime sono il frutto di una scelta deliberata da parte del management aziendale delle imprese che vi sono localizzate; in certa misura esse riflettono la cultura produttiva di una regione, la sua accumulazione di skills e di competenze distintive. In questo senso fare finanza nella City di Londra o fare logistica nel porto o retroporto di Rotterdam non è diverso dal fare mobili in Friuli o design a Milano: le regioni marcano le caratteristiche di quello specifico e peculiare ‘fare impresa’: lo fanno attraverso il deposito nel tempo di saperi e attraverso le concrete istituzioni regionali, che includono organizzazioni degli interessi e università, governi locali e fondazioni, scuole professionali e lobby, club imprenditoriali informali e perfino luoghi di incontro e di divertimento (che servono allo scambio fluido di conoscenza personale e della cultura del prodotto). Sono le reti più o meno dense e integrate di questi attori sia economici sia istituzionali a spiegare vantaggi comparati e diversità delle performances delle imprese e delle rispettive regioni.
Un mondo di reti
La globalizzazione è accompagnata dalla crescente diffusione delle reti: nel senso comune soprattutto delle reti di telecomunicazioni. Ma il nesso è più stretto. In letteratura si distinguono due principali approcci al tema delle reti (network). In un primo senso si pensa alle reti come strumento per analizzare le relazioni sociali entro l’impresa, oppure tra organizzazioni in un ambiente sistemico. Questa accezione è propria dell’analisi di rete in sociologia, ma anche dell’economia e delle scienze informatiche. Secondo l’economia, le reti producono esternalità: infatti la competizione di mercato tra sistemi mette in luce tre elementi centrali, le aspettative, il coordinamento e la compatibilità. Qui interviene il concetto di rete. Il coordinamento richiesto è estensivo ed esplicito, sia che si tratti della comune proprietà di componenti (si pensi alle reti di subfornitori), sia di regole e contratti relazionali tra le imprese, o del fissare standard comuni a tutti in un certo settore. Anche i consumatori fronteggiano situazioni che richiedono coordinamento: gli utenti della rete telefonica o telematica attribuiscono valore alla rete perché molti altri utenti finali ne fanno parte. Poiché il valore dell’appartenenza alla rete cresce con l’allargamento della stessa, si parla di esternalità di rete.
In una seconda e diversa accezione le reti indicano piuttosto una logica, uno spirito, un modo di governare le relazioni tra attori economici secondo una certa etica. In questo secondo approccio, sociologico e politologico, le reti sono cioè forme di governance, si tratti di relazioni tra imprese o tra istituzioni, di alleanze o contratti. Per alcuni le reti identificano un tipo ideale che caratterizza l’identità di intere economie che si reggono su certe relazioni nelle e tra le imprese; per altri si tratta del nuovo spirito capitalistico che il man-agement e la cultura economica hanno elaborato in risposta agli shock e alle turbolenze del 21° secolo.
Alcuni hanno parlato di società delle reti per indicare un cambiamento definitivo di paradigma, intendendo molto più che società dell’informazione o società postindustriale. La stessa idea, anche se su piani diversi, è presente nelle metafore dell’arcipelago e della città delle reti.
La sfida della città virtuale
La società in rete sta moltiplicando le occasioni di virtualità: è quella che Manuel Castells (1996) chiama la cultura della virtualità reale, intesa come un sistema in cui la stessa realtà, l’esistenza materiale e simbolica delle persone, è interamente catturata nel mondo della finzione. È forse la città virtuale, che si disarticola e si demoltiplica nella rete tecnica, quella che l’insieme di questi processi ha preparato, rendendo inessenziali i luoghi, nel senso sociologico e simbolico del termine, e gli stessi spazi?
Nell’informazione che circola nelle reti tecniche o nelle immagini che giungono sui nostri schermi domestici, o indifferentemente remoti, si esercita – come ha osservato l’antropologo Marc Augé (Non-lieux, 1992; trad. it. 1993) – una potenza che eccede di gran lunga l’informazione oggettiva. Questa potenza, che non ha una personalità o una localizzazione, esprime pienamente il dominio della tecnica. E le immagini che si sovrappongono e convergono (informazione, pubblicità e finzione) compongono sotto i nostri occhi un universo relativamente omogeneo, perché nel mezzo tecnico vengono ormai racchiusi tutti i messaggi.
Il luogo viene così sempre più sostituito da ‘non luoghi’, che sono definiti da Augé le installazioni necessarie alla circolazione accelerata delle persone e dei beni, o anche i mezzi di trasporto necessari alla nostra mobilità universale, o i grandi centri commerciali di consumo delle merci globali. Questa visione ha il pregio di mostrarci, rispetto alla città smaterializzata della banda larga, una piena materialità degli spazi e dei soggetti che li attraversano: ma entrambi ormai hanno perduto la personalità e il significato di luoghi.
Le città delle reti
Le città si stanno trasformando in nuovi amalgami socioeconomici che si diffondono e attendono di essere rappresentati e di assumere una forma politica. Che siano città globali o città-regioni, si tratta di estese aree metropolitane senza nome, senza cultura, senza istituzioni che sfidano il modo tradizionale di intendere la responsabilità politica, la partecipazione e la stessa amministrazione. Di conseguenza la risposta non può più essere quella del localismo o del comunitarismo. L’opposizione tra un’economia e una tecnica universali e una politica delle identità locali semplifica e banalizza la questione.
Oggi infatti la piena diffusione delle forme a rete nell’economia, un’economia-arcipelago fatta di nodi e di imprese-rete globali, e l’affermarsi di uno spazio dei flussi (Castells 1996) pongono una sfida. Dietro tale sfida, posta dalla sfera globale dell’economico, sta la tecnica razionale, una forza potenzialmente illimitata e ormai pienamente autoreferenziale. Perciò è necessario riformulare così la domanda classica: come è possibile la società nell’epoca delle reti? Un’epoca in cui non singole innovazioni seppur radicali, ma un nuovo paradigma tecnoeconomico si impone con la pretesa di unificare il mondo, esasperando il processo di razionalizzazione ma senza alcuna visione di scopo che non sia il proprio pieno dispiegarsi e il superamento di ogni vincolo; e nel contempo modificando la forma dell’interazione reciproca, il rapporto io-altro, nella forma della virtualità reale. La rete tecnica ridisegna lo spazio: modifica l’essere insieme, riscrive i confini della società, rende equivalenti l’appartenenza e l’assenza locale, aumenta l’indifferenza per lo spazialmente vicino e stringe la relazione con ciò che è spazialmente remoto. Perciò lo spazio non è più la possibilità dell’essere insieme. Infatti è intervenuta la rete, l’operatore spazio-temporale che collega campi eterogenei, in cui gli attori entrano ed escono non per situazioni prestabilite ma solo per un’azione al momento presente (L. Sfez, Eléments de synthèse pour penser le réseau, in P. Musso, Réseaux et société, 2003). Quale spazio resta quando i luoghi perdono il loro significato culturale e sono reintegrati in reti funzionali e in collage di immagini? (Castells 1996).
Ma nell’epoca della sua supposta estinzione la città torna in gioco perché è il luogo in cui la civiltà tecnica e l’individuo moderno si sono incontrati. Il nucleo di questo incontro è tra globale e locale, tra i fenomeni sociali macroscopici e l’insopprimibile dimensione individuale delle società. La città è esattamente quel commutatore che integra conoscenza e tecnica globali e contesti d’azione locali, quel dispositivo che connette l’interazione diretta e l’interazione a distanza.
Questo nucleo, rappresentato dalla città, ritorna al centro della scena nel 21° sec. nel momento in cui l’attore principale che ha occupato questa scena nei secoli precedenti, lo Stato nazionale, è costretto a ritirarsi. O, forse, si è ristrutturato su più livelli lasciando più spazio di manovra, e insieme esercitando maggiori pressioni, al livello della città. Nella definizione di Castells anche lo Stato diventa network State, comprendendo istituzioni sovranazionali frutto dell’interazione tra Stati nazionali indeboliti ma ancora in sella, enti regionali e locali, organizzazioni non governative. Essenzialmente si tratta dell’idea che il governo, inteso come gerarchia e come autorità, stia giocoforza allargando il campo alla governance, che è autorganizzazione e capacità di gestire attraverso il dialogo complesse reti di linguaggi, di interessi e di attori, e di conseguenza di rappresentarli.
Questo intreccio tra globale, nazionale e locale è in corso, non sappiamo ancora dove approderà. Per il momento si possono però avanzare alcune critiche. La visione di un mondo che diviene città virtuale o città dei bit, di William J. Mitchell (City of bits, 1995; trad. it. 1997) e Nicholas Negroponte (Being digital, 1995; trad. it. 1995), non sembra in grado di cogliere la nuova dimensione: perché presuppone di possedere nella potenza tecnica della nuova economia digitale il traduttore universale dei linguaggi. Al contrario, ogni linguaggio rinvia a un testo e ogni testo richiama un processo di individuazione: la governance non è un linguaggio standard, come poteva pensare ingenuamente il modernismo, ma la pluralità interdiscorsiva. La città virtuale non regge alla prova della decostruzione, che esprime la complessità polisemica del mondo.
Ma anche il classico discorso politico-istituzionale va ripensato. Ancora seguendo la lezione di Castells, si rende opportuno un ripensamento del concetto di spazio pubblico che colga il nesso tra spazi fisici e spazi dei flussi. Occorre individuare lo spazio pubblico come dispositivo comunicativo di base, che colga le nuove pratiche sociali al di là dei confini istituzionali. Se quindi si guarda alle nuove forme istituzionali, di nuovo si giunge a una visione di città delle reti. Ma un ripensamento radicale del concetto di locale è alla base di questa riscoperta della città (Pichierri 2002). Da un lato vi è un locale non più confinato, ma anch’esso senza precisi confini. L’aveva già visto Georg Simmel (Soziologie, 1908), scrivendo che l’ambito di importanza di una città entro uno Stato non termina al suo confine geografico, ma si estende e si espande sullo Stato complessivo. Oggi quest’espansione è non più solo sullo Stato complessivo, ma sul mondo. Dall’altro è un locale che si coniuga con la competizione virtuosa tra sistemi: un’idea che risale ad Alexis de Tocqueville, che vide due società distinte e incastrate, due governi separati e quasi indipendenti, federale e statale, nella democrazia americana. Essi sono rivali e insieme solidali, richiedono autonomia ma si sottomettono solo quando si tratti di interessi da condividere con altri. Questa visione anticipa il nostro concetto di rete e di governance reticolare.
Stato e rete
Lo Stato e la rete storicamente rappresentano l’uno la dimensione discendente, l’altra la dimensione ascendente del potere. Nella storia si è proposto un lungo confronto in cui la rete è spesso ricomparsa come un paradigma sommerso, che riemerge in modelli sia associativi sia dissociativi (come è stato nelle diverse versioni del federalismo).
Oggi la coppia locale/rivale si declina come federalismo competitivo, come territori che cooperano e competono: essenzialmente grandi città-regioni e sistemi di città. Anche qui ci sono due modelli a confronto: nei vecchi Stati europei, i cui centri di autorità locali erano stati soppressi nella storia moderna, riemergono forti spinte, neoregionaliste o neomunicipaliste, in permanente contrasto con le residue tendenze al riaccentramento statale. Anche se l’Europa delle città non è l’opzione vincente, essa si continua a proiettare nel 21° sec. come peculiare formazione di capitalismo territorializzato (Le Galès 2002). Nelle altre formazioni nazionali in cui lo Stato si è costruito per aggregazione progressiva e prolungata, come negli Stati Uniti, il tessuto di rete è più strutturato e predisposto alla flessibilità istituzionale, ai mille governi delle città: eppure anche lì le tensioni tra queste sfere sono in aumento. I sistemi asiatici sono infine un terzo genere, in cui le città sotto forma di megalopoli costituiscono le nuove piattaforme produttive mondiali, ma restano inserite in solidi sistemi nazionali.
Tuttavia in Europa si sta sviluppando un fenomeno nuovo: reti translocali, associazioni di città e di regioni, cominciano a rappresentare quello che po-tremmo chiamare il territorio in azione. Si tratta di reti di attori sia multilocalizzati sia locali, orientati alla produzione congiunta di beni pubblici e di beni di club. Governance appunto: una città delle reti a molti livelli e piani, frutto della simultanea devoluzione di poteri statali verso l’alto e verso il basso, di una variabile combinazione di beni pubblici globali e locali (Crouch, Le Galès, Trigilia, Voelzkow 2001).
Lo sviluppo impressionante della tecnica favorisce questa città delle reti. Priva di finalismo, indifferente a ogni scopo che non sia il proprio autonomo dispiegarsi, la rete tecnica è a disposizione non soltanto di un illimitato sviluppo economico del capitalismo, ma anche di un sapiente utilizzo delle sue potenzialità da parte di sistemi di governance basati sull’autorganizzazione: città, distretti, regioni e le loro variabili combinazioni.
La città mobile
Si sta ormai scrivendo una nuova geografia della governance territoriale. Essa in parte riannoda i fili dell’antica rete europea delle città, ma non è il ritorno alle città-Stato del passato. La circolazione aerea di cui parlava Fernand Braudel è oggi una rete di flussi in gran parte nuovi, differenziati e largamente immateriali: conoscenza, reti logistiche, cultura. Una nuova mappa dei sistemi ‘glocali’ a rete tende a sovrapporsi alla vecchia carta degli Stati nazionali, anche se più per ristrutturazione che per sostituzione. Perfino le modalità di azione delle nuove città delle reti sono molto diverse rispetto a quelle tradizionali degli Stati: oggi le città, anziché procedere per norme e altre forme regolative, preferiscono produrre piani strategici, visioni e progetti; e, anziché sul controllo esclusivo dei propri confini territoriali, spingono per il loro sistematico superamento. È la ‘città mobile’ di Philippe Estèbe.
Guardando la città europea, assistiamo a un duplice movimento. Da un lato, la città si ricentra, ricorda il suo centro e lo fa rivivere (funzioni di comando dell’economia e della finanza, installazioni culturali o potere). Si stanno riportando nel centro delle città (ma se ne erano mai davvero andate?) le funzioni strategiche e le popolazioni cosmopolite dei city-users, confermando la vecchia idea proposta da Lewis Mumford in The city in history (1961; trad. it. 1964) per cui la città moderna, nonostante tutto il vetro e l’acciaio, è ancora fondamentalmente una struttura dell’età della pietra. Dall’altro lato, la città mobile esce dai confini: qualsiasi progetto di città ne comporta di nuovi, sempre meno tracciati fisicamente ma risultanti dall’intersezione di flussi sia materiali sia immateriali, se-condo una visione molto vicina a quella città invisibile della quale parlava proprio Mumford.
E anche questo doppio movimento della città mobile è perfettamente compatibile con la tecnica che decentralizza e insieme ricentra, senza comunque che l’una tendenza si opponga davvero all’altra. Ma lo stesso sviluppo omologante di funzioni tutte uguali e ugualmente indifferenti nei centri-città e di grandi periferie anonime, che Mumford chiamava anticittà, risulta perfettamente compatibile con la tecnica. Quindi la tecnica sembra essere a disposizione sia dell’una sia dell’altra prospettiva.
L’economia dello spazio
Come si è visto a proposito della regione, ma anche a proposito della città, l’economia tiene ai margini i concetti di tipo spaziale: almeno fino alla fine del 20° sec. nessun indice dei libri di testo di economia conteneva parole come località, spazio, regione, città.
Il recente interesse per l’economia spaziale ha chiaramente a che fare con la globalizzazione. Così è nata una New economic geography, che dai suoi autori è presentata come un genere: uno stile di analisi economica che cerca di spiegare la struttura spaziale dell’economia usando modelli basati su ritorni crescenti e competizione imperfetta.
Le scienze sociali come la sociologia e la storia possono su queste basi cercare un dialogo con l’economia. Infatti, la teoria economica che crede a leggi universali che guidano l’azione umana chiaramente lascia ai margini lo spazio (e il tempo). Lo spazio, sia fisico sia politico, è solo un parametro aggiunto per specifici casi. Mentre se si assume, come fa la New economic geography, una varietà di economie, con diversi sistemi di funzionamento, ecco che precisarne le caratteristiche spaziali e temporali diventa fondamentale.
Il nuovo territorio
Con la globalizzazione il territorio esce dal campo di interesse di alcuni specialisti (urbanisti, geografi) e rientra nella riflessione a tutto campo delle scienze sociali. Ma paradossalmente in alcuni casi ciò avviene solo per annunciare la fine dei territori, la loro avvenuta dissoluzione a causa dell’impossibilità di definirne i confini. Si affermano un’economia e una società dei flussi, che attraversano in ogni direzione il territorio senza alcuna possibilità di controllo da parte degli Stati o di altri soggetti regolativi. Tuttavia è difficile pensare che la categoria ‘territorio’ possa essere abolita, se non altro perché il sistema normativo, conservatore com’è, continua a obbedire ai suoi principi. Certamente si tratta di un nuovo territorio, poroso e discontinuo ma soprattutto a geometria variabile quanto lo sono i fenomeni che lo attraversano.
In ogni caso il principio territoriale come base dell’ordine internazionale è ormai dissolto. Un nuovo scenario mondiale viene alla ribalta: uno spazio per certi versi aterritoriale, e nello stesso tempo soggetto a logiche di competizione tra territori, che sempre meno sono però nazioni. Su questo punto si è spezzata forse perfino la visione di Max Weber dello Stato che monopolizza la violenza legittima. Il rapporto tra le nazioni sempre più si intreccia a un funzionamento della scena mondiale basato sui network, sulla proliferazione e volatilità di alleanze che sono inserite in molti e diversi ambiti spaziali. In questo senso forse Castells è lo studioso che si è maggiormente avvicinato a una costruzione teorica che, sulla scia di quanto ha fatto Weber all’inizio del 20° sec., riscrive ‘l’economia e società’ del 21° secolo.
La dimensione transnazionale
L’economia industriale è stata finora il leader in materia transnazionale; ha studiato come diverse industrie internazionali si sono, in diversi settori, mutate in formazioni integrate su base supernazionale o transnazionale: per es. a suo tempo l’elettronica di consumo ha offerto il più chiaro modello di industria globalizzata, come è oggi l’industria del software; mentre altri settori sono rimasti prevalentemente nazionali, e altri ancora, come le telecomunicazioni, si sono collocati a cavallo tra i due. Il manager dell’impresa trans-nazionale sembra essere l’eroe della globalizzazione, come il borghese di Werner Sombart (Der Bourgeois, 1913; trad. it. 1950) all’inizio del Novecento lo era del capitalismo nazionale.
Tuttavia, a guardare dal punto di vista degli storici, il processo appare ben diverso; secondo la loro analisi, infatti, un’economia-mondo ha preso corpo a varie riprese a partire dal 1600, e fino al 21° sec.; in questa dinamica gli Stati nazionali non furono gli unici attori, anzi i centri del capitalismo mondiale sono stati, secondo i casi, qualcosa di meno (metropoli) o qualcosa di più (federazioni) dello Stato-nazione. Una teoria della globalizzazione dovrebbe quindi avvalersi di una maggiore sensibilità storico-critica, senza limitarsi allo scorcio di fine 20° e inizio 21° sec. in cui spesso viene invece confinata.
In questa diversa prospettiva lo spostamento verso un’integrazione globale dell’umanità è solamente al suo stadio iniziale, come ha sottolineato Norbert Elias (Die Gesellschaft der Individuen, 1987; trad. it. 1990). È quindi solo agli albori l’emergere di un senso di responsabilità nuovo e globale, che vada al di là di quello fondato su base nazionale o sull’identità tribale, etnica oppure religiosa.
Questa prospettiva, secondo la quale siamo appena agli inizi di un cammino verso la globalizzazione, ci appare profetica nella fase che stiamo vivendo. E grande appare la distanza dall’ottimismo degli anni della stabile crescita del 20° secolo. Se allora avevamo modelli per una metropoli, oggi non disponiamo di alcun modello per l’umanità globale.
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