PENITENZIARI, SISTEMI
. Quando si parla di sistemi penitenziarî s'intende riferirsi al modo d'esecuzione della pena detentiva, la quale per lungo tempo non ebbe, nel sistema penale di tutti i popoli, che una funzione secondaria, predominando la pena di morte, le pene corporali e le pene patrimoniali. La privazione della libertà non fu nei primi tempi una vera e propria pena, ma un mezzo per assicurare la presenza dell'incolpato durante il processo o durante l'esecuzione della pena. Solo eccezionalmente presso gli antichi e poi ancora meglio e più largamente nell'ordinamento ecclesiastico del cristianesimo si trova affermato il carcere in sostituzione della pena capitale e delle pene pecuniarie. Per questo suo carattere secondario e sussidiario; la pena detentiva non fu per lunghi secoli oggetto d'una vera e propria regolamentazione. Bastava una sola preoccupazione: renderla sempre più dura perché potesse reggere al confronto delle pene corporali. Era troppo recente il ricordo della crudeltà delle pene corporali perché potesse contrapporsi a esse un nuovo istituto con caratteri profondamente diversi. La coscienza pubblica non si sarebbe adattata a un rivolgimento così profondo. La pena detentiva, perciò, fu inizialmente accolta solo in vista delle evidenti inutilità delle pene corporali, che caddero sotto il peso stesso della loro aberrante varietà, ma non si allontanò dalla sostanziale finalità di quelle pene che si riducevano alla realizzazione della vendetta sociale. Perciò, nella tristezza della prigione si ricercò, in tutte le ore, in tutte le occasioni, in tutte le manifestazioni della vita morale e della vita materiale, la possibilità di colpire atrocemente il condannato: offese all'onore e alla dignità, lavoro a esaurimento senza utilità e senza soddisfazione, soppressione d'ogni regola d'igiene, privazione della luce e del passeggio, negazione d'un obbligo statale alla somministrazione del vitto, che bisognava attendere dalla pietà di benefattori, promiscuità di vita fra detenuti diversi per età, per criminalità, per recidiva.
La Chiesa fu la prima a portare luce in queste tenebre, perché per merito suo s'iniziò nelle leggi e nella pratica un movimento d'idee secondo il quale l'esecuzione della pena detentiva doveva servire ad espiare il fallo commesso. E poiché nel concetto d'ogni espiazione è implicita l'aspirazione al miglioramento di chi espia, deve riconoscersi alla concezione religiosa della penitenza il punto di partenza di quelle grandi riforme, che condussero al rinnovamento profondo dell'esecuzione della pena detentiva per il quale ancora oggi lavorano concordi sociologi, giuristi, biologi e politici. Il nuovo movimento si propose lo scopo non solo di far cessare gli abusi offensivi della personalità umana nelle carceri, ma di sfruttare lo stato di detenzione per migliorare il detenuto e riadattarlo alla vita sociale. Al successo di questo movimento contribuirono notevoli avvenimenti: alcuni d'indole politico-militare, altri di indole scientifico-umanitaria. Tra essi vi fu qualche secolo di distanza, ma, pur così distaccati nel tempo, essi si completano e s'integrano per spiegare la ricerca, l'affermazione e il trionfo dei nuovi indirizzi. Gli avvenimenti politico-militari dei secoli XVI e XVII, sconvolgendo l'Europa, produssero un aumento spaventevole della delinquenza. I giuristi e gli uomini di governo si trovarono di fronte all'impossibilità di colpire così gran numero di delinquenti con le solite pene corporali e, d'altra parte, l'ammassamento dei colpevoli in luoghi chiusi, senza ordine, senza disciplina, senza un sistema di vita capace di migliorarli, creava condizioni propizie al peggioramento dei condannati che, dopo scontata la pena, tornavano in società peggiori di prima. S' iniziò allora il tentativo di dare alla pena detentiva la possibilità di trovare nel lavoro un mezzo di rieducazione e il principio si realizzò in forma più o meno completa nei lavori forzati pubblici, nel reclusorio, nella condanna alla fortezza per i militari, ma si trattò sempre di tentativi isolati che non si riconnettevano a veri e proprî sistemi. Tuttavia bisogna ricordare che l'indirizzo rieducativo della pena detentiva ebbe già notevoli applicazioni nella creazione del reclusorio di Amsterdam (1595), seguita dalla creazione d'istituti affini in Brema (1609), Lubecca (1616), Amburgo (1622), Danzica (1629), dalla istituzione della "Casa pia di rifugio per minorenni" in Firenze (1650-1667), e dalla costruzione e organizzazione delle "Carceri nuove" in via Giulia a Roma (1655) e dell'Istituto romano di San Michele (1703). È da tutti ricordata l'iscrizione che per quest'ottimo istituto fu dettata da papa Clemente XI, che è vano "coercere improbos poena nisi probos efficias disciplina". Gli avvenimenti scientifico-umanitarî si concretarono nella pubblicazione della celebre opera di C. Beccaria e nella decisiva influenza della propaganda del Howard.
Il Beccaria, sotto l'influenza dei filosofi dell'illuminismo contro l'asprezza delle pene che si era fino allora dimostrata inutile, pubblicò il libro Dei delitti e delle pene, che si può ben dire una battaglia combattuta e vinta da un grande studioso nel regolamento delle pene e dell'esecuzione. Ma quest'opera, pure essendo stata scritta sotto l'ispirazione delle condizioni delle carceri e dei carcerati e con la collaborazione degli amici del Caffè, tra i quali primeggiava Alessandro Verri, che in quel tempo ricopriva l'ufficio di protettore delle carceri, ebbe grande influenza più sui veri e proprî ordinamenti penali che nel campo preciso dell'esecuzione della pena detentiva. In questo campo giganteggia l'opera di John Howard (nato nel 1726 a Hackney), che nel 1756, mentre si recava in Portogallo, fu catturato dai corsari francesi e tenuto in prigione a Brest. Poté così di persona vedere e provare le sofferenze dei detenuti, e, di ritorno in Inghilterra, iniziò la prima campagna di protesta contro le sevizie di cui erano oggetto in Francia i prigionieri inglesi. Le sue indagini specifiche sulle condizioni dei carcerati continuarono dopo che egli fu nominato sceriffo della contea di Bedfort (1773). Nelle prigioni sottoposte alla sua giurisdizione egli trovò il disordine, la mescolanza tra varî detenuti, la corruzione reciproca, l'ozio, pessime condizioni d'igiene e di vitto. Con la sua attività e con le sue proteste egli ottenne dal parlamento notevoli riforme e per completare i suoi studî iniziò il giro d'Europa. Pubblicò così nel 1777 il suo famoso libro Lo stato delle prigioni e 12 anni dopo La storia dei lazzaretti, che destarono nell'opinione pubblica mondiale un'attenzione e un interesse paragonabili solamente a quelli suscitati dalla pubblicazione del libro del Beccaria. I principî accolti e divulgati dal Howard si possono così riassumere: 1. la prigione deve essere rivolta all'emenda del condannato; 2. la religione e il lavoro sono i mezzi migliori di emenda. "Fate l'uomo diligente e lo avrete fatto onesto"; 3. l'emenda non è possibile se non si evita la promiscuità dei detenuti.
Da questo momento e da queste idee sorsero nella scienza e nella pratica i cosiddetti sistemi penitenziarî, ossia i varî tipi di ordinamenti esecutivi delle pene detentive prescelti nei varî stati e nelle varie epoche per realizzare nelle case di pena il riadattamento del condannato alla vita sociale, correggendolo ed emendandolo. La diversità dei sistemi, dunque, non risiede nella finalità che essi devono raggiungere, ma nella scelta dei metodi più appropriati per realizzare la finalità concordemente ammessa. Sia nel campo degli studiosi sia in quello dei pratici vi fu accordo su alcuni punti fondamentali, come sulla necessità del lavoro, sulla indispensabilità della separazione dei detenuti (secondo l'indole del reato commesso, le tendenze del condannato, la condizione giuridica di ciascuno di essi), sull'opportunità di creare ambienti carcerarî rispondenti ai più elementari principî d'igiene, sull'utilità dell'istruzione per correggere l'analfabetismo e della religione per rafforzare i sentimenti morali; ma un gravissimo dibattito si aprì e si acuì in forma vivacissima su un punto della vita carceraria, quello riferentesi alla scelta tra l'isolamento continuo del condannato e la vita in comune. Si può anzi dire che la diversità dei sistemi penitenziarî sostanzialmente s'impernii nella preferenza per l'uno o per l'altro sistema di vita perché, come i più recenti studî hanno dimostrato, lo stesso Howard in questa materia non ebbe idee precise e sicure.
Il sistema pensilvanico o filadelfiano, dallo stato e dalla città in cui si affermò, ebbe per suoi capisaldi l'isolamento continuo di giorno e di notte dei detenuti; nel periodo più antico si giunse persino a vietare al detenuto qualsiasi lavoro nella cella. Il sistema auburniano, dalla città in cui ebbe la sua prima affermazione, adottò l'isolamento notturno e consentì il lavoro in comune durante il giorno, ma con l'obbligo rigoroso del silenzio. Il sistema irlandese, che si può dire misto e progressivo, e che ebbe per creatore sir Walter Crofton, prevede un primo periodo d'isolamento continuo, un secondo periodo d'isolamento notturno e di lavoro in comune durante il giorno, ma aggiunge alcuni periodi intermedî prevalentemente passati in istituti con organizzazione industriale o agricola per giungere sino a una liberazione condizionata dei condannati emendati prima della scadenza della pena. Questo terzo sistema ebbe la più larga diffusione in Europa e in America, ma la discussione sulla preferibilità dell'isolamento continuo o dell'isolamento notturno con la vita in comune durante il giorno non si è mai placata, e se ne è ancora occupato il congresso internazionale di Praga dell'agosto 1930, adottando una decisione che rende tuttora indispensabile il riesame della questione in altro congresso.
La preferenza per l'isolamento continuo si affermò in primo tempo come una reazione alla promiscuità dei condannati e degl'imputati, nonché dei condannati delle più opposte tendenze, e perciò la separazione continua dei detenuti fu un sistema iniziale di risanamento, morale e igienico, delle carceri; ma, successivamente, quando cioè fu, in forma decisiva, inserita nell'esecuzione la finalità dell'emenda, il sistema fu ritenuto preferibile perché lo si ritenne idoneo al riadattamento del condannato. Il sistema filadelfiano, partendo da concetti religioso-pedagogici, sosteneva essere sommamente utile al rifacimento morale degli individui l'espiazione compiuta separatamente, cioè con la visione sentimentale della divinità, che perdona e che redime. A questa ragione religioso-pedagogica altra se ne aggiungeva riferentesi alla possibilità di compiere più facilmente opera fruttifera di rieducazione sugl'individui tenuti isolati, perché l'isolamento garantiva da contatti che avrebbero annullato gli effetti dell'attività rieducatrice dei dirigenti.
Nel sistema che si disse auburniano la preferenza per il lavoro in comune fu giustificata dall'evidente e pacifica constatazione che il lavoro in comune tiene deste e rafforza le qualità sociali dell'individuo ed è perciò il più potente mezzo di rigenerazione. I fautori di questo sistema non si dissimulavano i pericoli della vita in comune, ma osservavano che una prudente e diligente selezione dei condannati in gruppi omogenei avrebbe potuto, se non eliminare in tutto, certamente attenuare notevolmente i pericoli di contagio morale.
Il sistema irlandese, riconoscendo esatte le osservazioni fatte dai seguaci del sistema auburniano, rilevava l'incompletezza di questo perché non era preveduta una certa graduazione nell'esecuzione, mentre, essendosi riconosciuta all'esecuzione stessa una finalità rieducativa, non si poteva prescindere dall'adottare uno dei canoni fondamentali di ogni sistema rieducativo consistente nel cointeressare l'individuo alla propria rieducacazione mercé un progressivo miglioramento di trattamento corrispondente ai felici risultati della rieducazione.
Questa concezione progressiva dell'esecuzione penale ebbe larghi consensi, estese applicazioni e notevoli sviluppi. Invero il progresso conseguito in tutti gli ordinamenti esecutivi rivelava nella pena carceraria uno strumento incomparabile dell'individualizzazione, ma, come avviene per tutte le creazioni della mente umana in ogni campo materiale, morale, giuridico, tecnico, precisamente quando si era giunti a un decisivo miglioramento dell'organizzazione della pena carceraria rivolgendola verso l'emenda del condannato, s'intravvide che essa, pur possedendo requisiti positivi insuperabili dalle altre specie di pene, aveva in sé alcuni elementi negativi al riadattamento del condannato. Si osservò, infatti, che se la pena carceraria era di breve durata non poteva essere indirizzata alla emenda del condannato per difetto di tempo e d'idonea organizzazione negli stabilimenti a continuo flusso e deflusso di detenuti, mentre valeva a togliere dallo spirito dell'individuo quel timore della pena, che è tanta parte dell'efficacia di questa in funzione d'intimidazione, perché varcata la soglia del carcere, subita la prima menomazione della propria dignità, poco o nulla preoccupava la ripetizione del triste passaggio. Né si ometteva di considerare che negli stabilimenti per brevi pene non sempre era possibile un rigoroso reparto dei condannati, il che portava alle inevitabili occasioni dei contagi morali, rovinosi per i delinquenti primarî. I difetti delle lunghe pene erano diversi, ma non meno gravi. La stessa precisa, completa, perfetta organizzazione di esse ne era la causa. Assicurare il lavoro al condannato senza bisogno che lo cercasse, fornirgli il vitto e l'alloggio secondo tutte le regole igieniche senza sforzo e senza particolari sacrifici, tenerlo o isolato o solo a contatto con funzionarî, agenti, ovvero con condannati di uguali tendenze, abituarlo a una vita ordinata e tranquilla, senza dolori e senza gioie, senza responsabilità e senza pensieri, senza pericoli e senza successi, significava allontanarlo completamente dalla vita sociale, nella quale doveva tornare e nella quale l'uomo deve cercare lavoro, deve incontrarsi con uomini buoni e cattivi, deve lottare per vivere, deve provvedere per sé e per la sua famiglia, deve insomma ogni giorno farsi la sua vita moralmente e materialmente. Così accadeva che la pena carceraria, anche meglio attrezzata e disciplinata, era capace di fare un buon detenuto, ma non rendeva alla società un buon cittadino, e le recidive si moltiplicavano, perché il buon detenuto rimesso nella vita ordinaria, tra i bisogni, gli allettamenti, le diffidenze, le ripulse, le difficoltà di ogni genere, ricadeva nel delitto.
Cominciò allora la ricerca per ovviare ai difetti che la pena carceraria presentava, e s'iniziò l'attuazione di complessi sistemi penali e penitenziari. Per le brevi pene si escogitò la probation o la libertà condizionale in luogo di una condanna alla prigione. L'istituto fu adottato la prima volta in America nel 1878 dallo stato di Massachusetts con una legge che limitò la sua applicazione alla sola città di Boston, ma poi si estese in tutta l'America e passò in Europa a ispirare l'istituto del perdono giudiziale col quale lo stato, entro limiti determinati, rinunzia all'applicazione di brevi pene a carico dei minori, avendo fiducia che la minaccia dell'applicazione della pena sia bastevole a emendare il colpevole.
Per le lunghe pene invece si diede grande importanza all'organizzazione di un'esecuzione progressiva, distinguendo nell'esecuzione delle pene alcuni periodi correlativi alle accertate condizioni di riadattamento del condannato per far corrispondere al miglioramento un'attenuazione del rigore dell'esecuzione e per preparare nello stesso tempo i condannati meritevoli alla vita libera. Questi sistemi progressivi culminano quasi tutti nella liberazione condizionale del condannato meritevole, prima della scadenza della pena. La liberazione condizionale ebbe la sua origine nell'istituto della parole adottato negli Stati Uniti, la prima volta nel 1876. Non bisogna confondere i due sistemi della probation e della parole perché sono profondamente diversi: l'uno esclude la condanna, l'altro interviene durante l'esecuzione della pena. Entrambi hanno di mira il riadattamento del delinquente, ma il primo intende raggiungerlo al di fuori dell'applicazione penale con la sola minaccia di questa, minaccia concreta in luogo di quella generica contenuta nelle leggi palesatesi insufficienti; il secondo invece intende completare l'opera di riadattamento compiuta nel carcere mediante una liberazione anticipata che, da un lato, incoraggi il condannato a ben fare durante la detenzione e, dall'altro, lo sorvegli e lo assista nei primi contatti con la vita libera. Un'efficace esecuzione progressiva mette al centro di ogni sistema penitenziario la classificazione dei detenuti fatta a base della condotta serbata durante lo stato di detenzione. I metodi di classifica sono svariatissimi, ma nel complesso s'ispirano al concetto che solo da prove costanti e univoche date nella disciplina, nella scuola e nel lavoro si possono trarre elementi per giudicare lo stato di riadattamento conseguito dal condannato. Si è insomma d'accordo nel ritenere che solo in base a elementi concreti e non alla stregua di astratte considerazioni sulla correggibilità o incorreggibilità dei varî tipi di condannati deve essere giudicato lo stato effettivo del riadattamento e commisurata la relativa classifica.
In Italia il nuovo ordinamento penale e penitenziario, instaurato col codice penale del 19 ottobre 1930 e col regolamento per gl'istituti di prevenzione e di pena del 18 giugno 1931, ha seguito il sistema della netta prevalenza del lavoro in comune durante il giorno e dell'isolamento notturno, perché se la emenda del condannato non è una concezione astratta, ma una forma concreta di riadattamento sociale, torna evidente, per lo stesso significato della parola, che occorre riadattare il condannato con i mezzi sociali e non con l'isolamento, tanto più che solo con la vita in comune è possibile organizzare nelle carceri un lavoro produttivo, che è mezzo incomparabile di redenzione. Il sistema italiano, fissato già dagli articoli 22, 23 e 25 del codice penale, è definitivamente ordinato nell'art. 42 del regolamento per gl'istituti di prevenzione e di pena, il quale stabilisce che l'organizzazione degli stabilimenti di pena è fatta col sistema dell'isolamento notturno. All'isolamento continuo sono sottoposti i condannati per i quali il giudice ha disposto l'isolamento diurno. L'isolamento diurno è disposto negli altri casi preveduti dal regolamento e può essere permesso dal direttore, se lo consentono le condizioni dello stabilimento e l'organizzazione del lavoro, ai condannati che ne fanno domanda, purché siano di buona condotta e meritevoli di speciale considerazione. Come si vede, è adottata l'assoluta prevalenza della vita in comune negli stabilimenti di pena. Occorreva però premunirsi contro quei pericoli di reciproca corruzione tra condannati, che, come abbiamo visto, costituisce l'argomento più importante a favore del regime isolato. Questi mezzi sono il reparto dei condannati e l'osservazione. Il reparto dei condannati completa, nell'organizzazione penitenziaria, la specializzazione degli stabilimenti: questa ha per base la condizione giuridica dei condannati; il reparto nello stesso stabilimento assume a criterî altri elementi necessarî per l'individualizzazione amministrativa della pena. L'una è affidata al giudice, perché fondata sulle risultanze processuali; l'altro al direttore, perché attiene principalmente allo studio della personalità del condannato attraverso le manifestazioni del carattere, dei sentimenti, delle attitudini di lui, direttamente apprese nella vita carceraria. Entrambe hanno per finalità di evitare che vivano in comune condannati che hanno bisogno di diverso trattamento, e di assicurare che ciascuno sia oggetto di tutta l'attenzione che occorre, in relazione alla sua personalità. L'art. 143 del codice penale indica il criterio generale del reparto, prescrivendo che in ogni stabilimento penitenziario, ordinario o speciale, si tenga conto nella ripartizione dei condannati della recidiva e dell'indole del reato. Il regolamento (art. 43) aggiunge a questo criterio anche quello dell'età, perché si è creduto di aderire al voto unanime della scienza penitenziaria moderna, secondo cui, anche fuori dei limiti di età in relazione ai quali sono destinati speciali stabilimenti, è opportuno, nel raggruppare i condannati, tener presente la loro età, perché, per ovvie ragioni fisiche e spirituali, la vita in comune tra persone di età non molto disparata rende più cordiali le relazioni, più tranquilla la vita carceraria e più proficuo il lavoro. Ciò a prescindere dalla possibilità che il direttore, nell'esercizio dei suoi poteri discrezionali, usi, quando occorre, verso persone di età avanzata, qualche riguardo dettato da spirito di umanità. I criterî del reparto sono completati con le disposizioni relative alle donne con bambini, alle donne di facili costumi, ai militari, ai sacerdoti e con l'avvertenza che, nei limiti del possibile, la separazione deve essere conservata nel passeggio, nel lavoro, nelle funzioni religiose, ecc. Il reparto è preceduto dall'osservazione, momento e operazione delicatissimi, perché da quanto viene rilevato e accertato nei primi tempi successivi all'ingresso del detenuto in carcere, e conseguentemente dai provvedimenti che si adottano in tale periodo, dipende in gran parte l'esito dell'esecuzione penale. Un errore di valutazione delle qualità, del carattere, delle attitudini del condannato, quando questi è ammesso alla vita in comune, non solo può riuscire di danno a lui, per difetto d'idonea individualizzazione amministrativa della pena, ma può altresì turbare tutta la vita dello stabilimento, con inevitabili danni per gli altri condannati. Si è disposto, perciò (art. 51) che il condannato venga, al suo ingresso nello stabilimento, sottoposto a isolamento continuo e sia visitato tutti i giorni dal direttore, dal medico e dal cappellano, i quali devono studiarne il carattere, le condizioni fisiche, le attitudini alla vita in comune e al lavoro. Allo scadere del periodo massimo di un mese dalla data dell'inizio dell'isolamento, il direttore, il medico e il cappellano annoteranno in apposito registro i risultati delle loro osservazioni, e il direttore provvederà secondo le esigenze dei casi. Se il detenuto è idoneo alla vita in comune, il direttore, in base alle osservazioni e agli accertamenti fatti, lo assegna a un gruppo omogeneo di condannati e lo destina al conveniente lavoro. Se, in seguito alle osservazioni fatte, il condannato non è ritenuto adatto alla vita in comune, due ipotesi si possono fare e due diversi provvedimenti devono essere adottati: se si ritiene che l'inettitudine alla vita in comune sia correggibile, il direttore dispone che il condannato vi sia ammesso per gradi, secondo le minute prescrizioni dell'art. 51; se invece il condannato, con la sua condotta refrattaria a ogni miglioramento, dimostri completa inettitudine alla vita in comune, il direttore ne riferisce al giudice di sorveglianza, e questi provvede, o prorogando il periodo di esperimento, o ordinando il ritorno del condannato all'isolamento nello stesso stabilimento, o disponendone l'isolamento in una casa di punizione o in una casa di rigore, ovvero il ricovero in una casa per minorati fisici o psichici, a seconda della causa che ha determinato il riconoscimento dell'inettitudine del condannato alla vita in comune (art. 52). Questa è una disposizione veramente di carattere fondamentale del nuovo ordinamento penitenziario: si è voluto affermare tutto il valore che si annette alla vita in comune, e come si riconosca che l'inettitudine a essa non si debba considerare quale trascurabile episodio, ma quale fatto che deve essere attentamente studiato per provvedere secondo il bisogno; perché, o tale inettitudine dipende da svogliatezza al lavoro o da spirito d'indisciplina, e allora si dispone il trasferimento del condannato nelle case di punizione, o, nelle ipotesi più gravi, nelle case di rigore; o dipende da minorate condizioni fisiche o psichiche, e se ne dispone allora il ricovero in case per minorati fisici o psichici. D'altra parte, se il giudice non crede di avere a sua disposizione elementi sufficienti di giudizio, può differire il provvedimento definitivo, o prorogando una o più volte il periodo di esperimento per un tempo complessivo non superiore a tre mesi, o, nei casi più gravi, ordinando il ritorno del condannato all'isolamento nello stesso stabilimento per un periodo non superiore a due mesi. L'indicazione di termini insuperabili per questi periodi di osservazione è giustificata dalla necessità di evitare qualsiasi possibilità, che, per difetto di diligenza o di altro, il periodo di osservazione si prolunghi oltre misura, così da riprodurre, fuori della legge, la segregazione cellulare, che a norma del codice del 1889, era disposta all'inizio dell'esecuzione delle pene più gravi. Questa considerazione spiega altresì l'intervento decisivo del giudice di sorveglianza, che può ammettere il condannato alla vita in comune, anche contro l'avviso del direttore, non potendosi consentire che un momento così grave dell'esecuzione della pena sia regolato esclusivamente dall'autorità dirigente dello stabilimento. Né, adottati i provvedimenti di cui si è parlato per il condannato ritenuto non adatto alla vita in comune, egli è abbandonato a sé stesso, perché l'art. 53 stabilisce che il direttore dello stabilimento, nel quale si trova il condannato per effetto delle disposizioni dell'art. 52, deve ogni mese, sentiti il medico e il cappellano, riferire al giudice di sorveglianza che darà, secondo le circostanze, i provvedimenti necessarî, destinati sempre al riadattamento del condannato alla vita e al lavoro in comune.
L'ordinamento italiano accoglie anche il sistema dell'esecuzione progressiva che s'inizia con l'isolamento e l'osservazione di cui già si è parlato. Segue il trattamento ordinario comune a tutti i condannati ammessi a vita in comune nel quale prevale un'organizzazione complessa del lavoro nell'interno degli stabilimenti e all'aperto. Succede a questo secondo periodo il regime speciale dei condannati classificati buoni, e segue ancora il trasferimento dei condannati più meritevoli agli stabilimenti di riadattamento sociale. Può infine essere concessa la liberazione condizionale. La progressione così si attua in cinque periodi e culmina nella trasformazione di un periodo della pena nello stato di libertà vigilata. In nessuno di questi periodi l'ordinamento italiano ha accolto il cosiddetto sistema "dell'autonomia di governo" da parte dei detenuti, consistente nell'organizzazione di alcuni stabilimenti nei quali non vi sono autorità carcerarie, ma tutto l'ordinamento è nelle mani degli stessi condannati. L'esperienza, infatti, ha dimostrato come l'organizzazione di questi stabilimenti, che teoricamente si riconnette all'opportunità di risvegliare nei condannati il senso della responsabilità personale, abbia dato pessimi risultati, perché non è ammissibile che l'intervento delle autorità possa essere trascurato in ambienti in cui vivono persone per le quali le leggi statali, il costume, la morale pubblica e privata si mostrarono insufficienti. Il nuovo ordinamento italiano ha creato invece gli stabilimenti di riadattamento sociale, i quali devono essere come ponti gittati tra il reclusorio e la vita libera. L'organizzazione di essi si deve perciò imperniare nella concessione di ampia facoltà discrezionale ai direttori, perché si possa raggiungere la finalità di preparare il condannato che ha scontato una lunga pena alle difficoltà della vita sociale. Perciò l'art. 228 del regolamento stabilisce che negli stabilimenti di riadattamento sociale il trattamento a cui sono sottoposti i condannati deve essere diretto a consolidare e a far progredire in essi le doti di socievolezza che già manifestarono nei precedenti stabilimenti, e che a tal fine, oltre alle concessioni prevedute dall'art. 173 per i condannati classificati buoni, il direttore può concedere nei colloqui, nelle visite, nella corrispondenza e nel lavoro tutte le facilitazioni che, a suo giudizio, possano valere allo scopo di preparare i condannati al ritorno alla vita libera. S'instaura così un sistema di vita che è tra lo stato di detenzione e quello di libertà; un sistema nel quale i rapporti col mondo esterno possono essere intensi e frequenti, porgendosi le occasioni che possono rivelare in pieno la personalità del condannato. L'art. 227 stabilisce quali siano le condizioni necessarie perché il condannato possa essere trasferito negli stabilimenti di riadattamento sociale, disponendo che il condannato a pena detentiva per un tempo superiore a cinque anni, il quale abbia scontato un terzo della pena o almeno la metà, se recidivo, e sia stato costantemente classificato buono per tre anni, può essere trasferito, se il rimanente della pena non supera gli otto anni, negli stabilimenti di riadattamento sociale con provvedimento del giudice di sorveglianza, su proposta del direttore, sentito il consiglio di disciplina. Si aggiunge che tale disposizione non si appliea al condannato che, dopo scontata la pena, deve essere sottoposto a una misura di sicurezza detentiva.
Architettura carceraria.
L'architettura carceraria segue, com'è naturale, l'evoluzione e il progresso dei sistemi penitenziarî. Gli antichi stabilimenti carcerarî erano locali privi di luce, di dimensioni modestissime e non rispondenti alle più elementari esigenze dell'igiene. I detenuti vi erano abbandonati alla rinfusa in cameroni o ristretti singolarmente in celle infelicissime; perciò ogni ricerca sull'architettura delle carceri nell'antichità ha solo valore storico. Veri e proprî problemi di architettura carceraria sono sorti da quando scientificamente s'impostò il dibattito sui sistemi penitenziarî e si passò alle realizzazioni pratiche dopo le riforme seguite alle campagne di J. Howard. L'architettura carceraria fu allora legata alla scelta del sistema della vita in comune o della vita isolata e perciò alla costruzione più perfetta delle celle o alla costruzione di locali adatti al lavoro in comune. Lo sviluppo del lavoro carcerario, l'organizzazione dell'istruzione civile e religiosa, la necessità di osservare scientificamente il detenuto, hanno poi fatto sorgere nuovi problemi di edilizia carceraria.
Dal punto di vista storico è da ricordare che in Italia, anche prima delle riforme del Howard, si ebbero buone costruzioni carcerarie: a Napoli nel 1623 il cardinale Zapata fece costruire locali dove era possibile la separazione dei detenuti secondo l'età e le condizioni sociali e organizzò il lavoro carcerario; a Milano nel 1764 l'imperatrice Maria Teresa fece costruire un penitenziario modello; a Roma nel 1655 Innocenzo X fece costruire le carceri nuove in via Giulia. Subito dopo le riforme del Howard si ebbero le grandi costruzioni carcerarie di Pittsburg, secondo il sistema pensilvanico nel 1817, e nel 1816 a Auburn la famosa prigione che diede nome al sistema auburniano. In Italia tre costruzioni carcerarie compiute per disposizione di Carlo Alberto nel 1849, le case di pena d'Imperia, di Alessandria e di Pallanza, ancora oggi meritano di essere visitate dagli architetti che intendono dedicarsi allo studio degli stabilimenti carcerarî, perché hanno una sezione cubicolare, una sezione cellulare e una sezione di vita in comune e ampî e luminosi locali per le lavorazioni.
Circa la disposizione delle varie parti dei fabbricati carcerarî è da ricordare il cosiddetto sistema panottico, o sistema a raggiera, ideato nel 1791 da Geremia Bentham, il quale presentò all'assemblea legislativa francese un suo memoriale circa una prigione, la quale da un punto centrale consentiva la direzione e la vigilanza su tutto il servizio carcerario. Un esemplare di tale sistema è il carcere di Regina Coeli a Roma.
La riforma penitenziaria italiana ha reso di grande attualità gli studî di architettura carceraria per adeguare le costruzioni allo spirito della riforma. La direzione generale degl'istituti di prevenzione e di pena ha impartito istruzioni per la costruzione degli stabilimenti di custodia preventiva e di quelli di pena ordinarî.
Le carceri giudiziarie sono organizzate con il doppio sistema dell'isolamento continuo per gl'imputati durante l'istruzione e per i detenuti a disposizione dell'autorità di pubblica sicurezza o di altre autorità, secondo le particolari distinzioni, e dell'isolamento notturno per tutti i detenuti delle altre categorie.
Nelle carceri giudiziarie in cui l'isolamento continuo è più frequentemente imposto dalle esigenze di giustizia per la necessaria segretezza delle istruzioni processuali o di quei primi accertamenti che possono anche essere richiesti da altre ragioni, politiche o di polizia, e per conto di altre autorità, è indispensabile che sia elevata la proporzione degli ambienti a tipo cellulare. Determinata, quindi, la capienza massima, si prescrive che la metà dei posti debbano essere a sistema cellulare e l'altra metà a sistema cubicolare. In un separato reparto si devono, inoltre, installare le celle di punizione nella misura del 5% della capienza totale dello stabilimento. In connessione con il sistema dell'isolamento continuo e per quei casi in cui le esigenze disciplinari eccezionali o in riguardo a speciali condizioni personali dei detenuti non consentono la segregazione in cella, si deve provvedere alla costruzione dei camerotti nella quantità del 5% dei posti del reparto cellulare. I camerotti potranno sussidiariamente essere adibiti a luogo di riunione dei detenuti ammessi alla vita in comune durante il giorno, e che non possono essere occupati nel lavoro. Le dimensioni della cella, approvate fino dal 1890 dal Consiglio superiore di sanità in rapporto alla cubatura e alla superficie richiesta da considerazioni igieniche, erano di metri 2,10 per 4 per 3,30 di altezza. Tali dimensioni devono essere normalmente mantenute anche per le nuove costruzioni; però in quei nuovi edifici, in cui si potrà ritenere opportuno, per la locale disponibilità di acqua e quindi per il conveniente assetto igienico dello stabilimento, di dotare la cella di apparecchi igienici (latrina e lavabo), ciò non si potrà fare senza un conveniente aumento della larghezza del vano stesso della cella in relazione al tipo speciale di apparecchi (installazione degli apparecchi: nella cella stessa di fianco alla porta e alla finestra, oppure in un piccolo torrino addossato alla fabbrica a fianco della finestra in modo che la latrina abbia luce e aria dirette). Le dimensioni del cubicolo sono pure quelle già approvate dal Consiglio superiore di sanità: m. 1,40 per 2,40 per 3,30. Di fronte ai cubicoli si deve estendere un corridoio a tutta altezza, comprendente due ordini di cubicoli, e avente una larghezza tale, che da una parte renda possibile la sorveglianza del 2° ordine e dall'altra costituisca un sufficiente aumento di cubatura dei cubicoli. Le dimensioni del camerotto devono essere doppie di quelle della cella. Anche i camerotti devono essere forniti di latrina.
Essendo il lavoro, secondo gl'intendimenti fondamentali della riforma, il precipuo elemento di disciplina e di rieducazione nell'organizzazione della vita carceraria della massa dei detenuti, si deve accuratamente provvedere anche ai locali per le lavorazioni, la cui capacità complessiva deve essere sufficiente per il comodo movimento di un numero di lavoranti non minore del 50% della capienza massima. È chiaro che non è possibile dettare preventivamente alcuna precisa norma per il numero e per le dimensioni di detti locali. L'uno e le altre dipendono dalla popolazione dello stabilimento, dalla qualità delle lavorazioni, dalla necessità o meno di installarvi macchine e da varî altri coefficienti, che possono, volta per volta, essere oggetto di speciali istruzioni da parte delle autorità.
Necessario elemento di sistemazione, per i fini igienici e sanitarî della vita carceraria è l'infermeria, la quale dovrà essere, quanto più è possibile, appartata per accesso e per comunicazioni, dagli altri ambienti, dove si trova la massa dei detenuti. I locali per l'infermeria variano per ampiezza e per numero di reparti in ragione dell'importanza dello stabilimento, e potranno essere anch'essi oggetto di istruzioni particolari. In generale, l'infermeria dovrà comodamente ricoverare un numero di degenti non inferiore al 5% e non superiore all'8% della popolazione del carcere. Ai cameroni per gli ammalati, eventualmente distinti secondo le esigenze dello stabilimento, si dovranno aggiungere gli ambienti accessorî (sala di osservazione, ambulatorio, sala operatoria, ecc.). Occorre infine aggiungere i seguenti altri locali: biblioteca; cappella; scuola; sala per le conferenze. La sala per le conferenze e la scuola dovranno avere ciascuna una capacità corrispondente al 25% della capienza.
La sezione femminile dovrà occupare un'ala distinta del fabbricato carcerario, e avere in conseguenza, pur nell'interno della cinta dello stabilimento, piena indipendenza d'accesso. Occorrerà inoltre curare che sia assolutamente impedita la visuale dei suoi locali interni dalle altre parti del carcere e la prospicienza delle sue aperture su vani o su cortili dei detenuti maschi. La capienza di tale sezione deve raggiungere il 12% di quella della sezione maschile. La sistemazione dei reparti dovrà essere identica e nelle identiche proporzioni. Si devono altresì annettere le celle di punizione, i camerotti, l'asilo nido per le madri allattanti o con bambini di cui sia consentita la convivenza nel carcere; la cappella; l'infermeria.
In adempimento di uno degl'intenti principali della riforma dovrà essere in speciale modo curata la costruzione della sezione minorile. Dalla sistemazione edilizia dei suoi ambienti dovrà essere eliminato l'aspetto carcerario e soprattutto non dovrà avere tale aspetto l'ingresso alla sezione, che sarà distinto da quello principale dello stabilimento. La capienza della sezione dovrà di regola giungere al 5% dei posti della sezione maschile, salve le varianti che potranno essere imposte dalla sede dello stabilimento (carcere giudiziario dei capoluoghi di distretto). Sarà identica la sistemazione dei due reparti e saranno egualmente annessi i locali per le lavorazioni, l'infermeria, la scuola, la biblioteca e la cappella. Occorrerà pure provvedere alla sistemazione di un vano a refettorio, ritenendosi che la riunione dei piccoli detenuti nell'ora dei pasti conferisca alla loro detenzione una meno dolorosa impronta, e dia anzi alla loro convivenza una particolare caratteristica, che ne ponga principalmente in risalto il fine di rieducazione.
Alle sezioni per adulti, maschile e femminile, dovranno essere assegnate camere a pagamento (non più di due per ogni cento detenuti).
Ciascuna sezione dovrà essere provvista di cortili di passeggio. È particolarmente da raccomandare la maggiore ampiezza dei cortili di passeggio per i minorenni, in considerazione della necessità di un maggiore sviluppo dei loro movimenti e dei loro giuochi nelle ore di riposo dal lavoro e dalla scuola. Tutti i servizî generali dello stabilimento devono essere sistemati su due piani; le celle e i cubicoli su quattro ordini. In tutti gli ambienti, che non abbiano la visuale verso l'esterno dello stabilimento o che comunque non guardino su vani o su spazî occupati, anche transitoriamente, da detenuti, le aperture dovranno avere luce diretta.
Tutto il fabbricato carcerario dev'essere chiuso da un muro di cinta dell'altezza non inferiore a metri quattro o cinque, secondo le speciali esigenze che potranno essere indicate caso per caso. Attorno al fabbricato dovrà essere lasciata una zona di rispetto di metri cinque.
In base a tali istruzioni si stanno costruendo le nuove carceri di Brindisi, di Massa Carrara e di Pisa.
Per gli stabilimenti ordinarî di pena sono state dettate altresì precise istruzioni, che differenziano questi tipi di costruzione da quelli destinati alla custodia preventiva.
Le tre pene detentive (ergastolo, reclusione, arresto) sono scontate con l'obbligo del lavoro e con l'isolamento notturno (articoli 22, 23, 25 cod. pen.). All'obbligo del lavoro corrisponde la necessità di sistemare opportuni ambienti per le varie specie di lavorazioni organizzate nello stabilimento, a cui fa riscontro l'altra necessità di provvedere ai locali per la vita in comune dei condannati durante il giorno, nel periodo di riposo o nei casi in cui il lavoro temporaneamente manchi, o il soggetto per le sue condizioni personali non vi si possa adattare. Alle esigenze dell'isolamento notturno serve normalmente la costruzione del reparto cubicolare. Anche in una casa di pena occorre però provvedere all'isolamento continuo, sia nel primo periodo di osservazione del condannato (art. 49 del regolamento), sia nel caso di temporanea o di piena inadattabilità alla vita in comune (art. 51 e 52), derivante dalle stesse qualità o condizioni individuali o specificamente da ragioni igieniche, sia ancora nel caso in cui venga consentito dal direttore l'isolamento diurno, su domanda del condannato (art. 42).
Venendo meno però nello stabilimento di pena le particolari ragioni, che più frequentemente impongono l'isolamento continuo nelle carceri giudiziarie, devono in conseguenza variare le proporzioni di ampiezza dei due reparti cubicolare e cellulare.
Di regola si dovrà tenere presente che in una casa di reclusione il reparto cubicolare dovrà comprendere i 4/5 della capienza massima dello stabilimento e quello cellulare solo l'altro quinto. Distinto dal reparto cellulare ordinario (celle di osservazione, ecc.), dev'essere quello delle celle di punizione, le quali devono essere costruite in locale appartato dal centro di vita dello stabilimento e nella proporzione del 3% della capienza totale. Per adempiere infine alla regola della vita in comune durante il giorno e per casi accennati di mancanza o di sospensione della normale attività lavorativa o d'inadattabilità del condannato al lavoro, la costruzione di apposite camere di soggiorno è indispensabile complemento della sistemazione dei due reparti d'isolamento. Tali camere dovranno avere in complesso la capacità del 10% della capienza del reparto cellulare.
Quanto alle dimensioni e alle modalità di costruzione della cella o del cubicolo valgono le norme già indicate per gli stabilimenti di custodia preventiva. Le dimensioni delle camere di soggiorno dovranno raggiungere il triplo di quelle delle celle. Per gl'impianti igienici si devono ripetere le istruzioni precedenti, avvertendo che la loro installazione nelle celle, nei camerotti, e nei varî ordini di cubicoli deve essere oggetto di particolare studio del progettista, affinché sia soddisfacentemente risoluto il problema del risanamento degli ambienti carcerarî. Valgono per le case di pena le stesse norme e gli stessi rilievi relativi alla costruzione dei varî ambienti per le lavorazioni, con la sola differenza che questi in uno stabilimento di esecuzione, in omaggio alla regola fondamentale dell'obbligo del lavoro, devono in complesso raggiungere l'ampiezza sufficiente ad allogarvi non meno del 90% della popolazione che vi può essere detenuta.
È precipua caratteristica di una casa di pena la sua sistemazione edilizia in rapporto al precetto essenziale della riforma penitenziaria: l'individualizzazione della pena medesima. Perciò è indispensabile che oltre le sezioni speciali previste dagli articoli 36 e 39 del regolamento, e che potranno essere oggetto di separate istruzioni nei casi singoli, la costituzione dell'edificio risponda sempre alla ripartizione dei condannati prescritta dall'art. 143 del cod. pen. e dalla prima parte dell'art. 43 del regolamento. All'uopo si può suggerire come norma generale la distinzione del complesso edilizio in varî bracci, in ciascuno dei quali dovranno essere rispettate le suindicate proporzioni rispetto alla capienza del singolo reparto, salve le variazioni che si possono disporre caso per caso. Anche nei locali delle lavorazioni, giusta il disposto del detto art. 43, si dovrà possibilmente mantenere la medesima separazione, in quanto sia compatibile con la natura e con le necessità tecniche della specie di lavoro. La regola sarà pure attuata per le case di reclusione femminili, dove, secondo le disposizioni dei capoversi dell'art. 43, si dovrà altresì tenere conto della separazione delle donne di facili costumi dalle altre condannate, e della destinazione degli speciali locali per il nido dei bambini. Questi locali dovranno constare di distinti ambienti attigui per le madri e per i piccoli, oltre che di una sala per la convivenza dei bambini stessi e di distinti impianti per bagni.
Il rapporto di ampiezza dell'infermeria rispetto alla capienza dello stabilimento di pena dovrà rimanere, come per le carceri giudiziarie, non inferiore al 5% della capienza massima e potrà invece raggiungere il 10% della capienza medesima. Per i fini anche strettamente sanitari dell'esame dei condannati nel periodo immediatamente successivo al loro primo ingresso nella casa di pena, si deve altresì raccomandare che il reparto delle celle di osservazione, di cui sopra si è parlato, sia prossimo all'infermeria. Si aggiungono sempre il locale per la biblioteca e quelli per la cappella e per la scuola, nonché le sale da studio. In generale i locali per l'istruzione devono contenere almeno il 50% dei condannati, che possono essere rinchiusi nello stabilimento. I cortili di passeggio devono essere di notevole ampiezza, affinché il condannato, nelle ore in cui gli è consentito di rimanervi, possa trovarvi un opportuno ristoro che sia anche un giusto, momentaneo compenso fisico alle sofferenze del castigo.
Per il muro di cinta dello stabilimento e per la zona di rispetto, valgono pure le istruzioni già date per le carceri giudiziarie. Anche per gli stabilimenti di pena tutti i servizî generali devono essere di regola sistemati su due piani, le celle e i cubicoli su quattro ordini, e in tutti gli ambienti, che non abbiano la visuale verso l'esterno, o che comunque non guardino sui vani o su spazî occupati, anche transitoriamente, da condannati, le aperture devono essere costruite con luce diretta. Nel reparto cubicolare le camere di soggiorno devono essere sistemate in fondo ai corridoi che disimpegnano ciascun ordine di cubicoli.
Come si è già accennato, l'esecuzione della pena negli ergastoli, per quanto può riguardare la tecnica edilizia, non differisce sostanzialmente da quella della reclusione. Le differenze di esecuzione attengono in prevalenza al trattamento giuridico del condannato. Solo in relazione ai casi d'isolamento continuo, previsti per il condannato all'ergastolo dagli articoli 72, 80 e 184 del cod. pen. e richiamati nelle disposizioni speciali del regolamento penitenziario (articoli 203 e 206), devono essere modificate le proporzioni del reparto cellulare, il quale deve raggiungere i 2/5 della capienza massima dello stabilimento.
Anche nei riguardi della pena dell'arresto le caratteristiche differenziali dell'esecuzione riguardano quasi esclusivamente il trattamento giuridico. Quanto alle differenze della sistemazione edilizia, le case di arresto, realizzando prevalentemente quel criterio di honesta custodia, che caratterizza le più tenui sofferenze delle pene di minore entità giuridica, nella cui più mite applicazione influisce sempre una più facile e pronta riadattabilità sociale del condannato, dovranno soltanto offrire i mezzi materiali che diano il senso di una minore restrizione dei movimenti del soggetto nell'ambito dello stabilimento e perciò all'uopo si preferisce che esse siano dotate di camere di soggiorno più ampie. D'altra parte, anche in rapporto a una presumibile più frequente tendenza del condannato all'arresto a isolarsi dagli altri compagni di pena (tendenza che trova spesso riscontro nel fatto che si tratta, in genere, di persone che subiscono per la prima volta un'esecuzione penale), è pur necessario che il rapporto cellulare nelle dette case abbia un'estensione ancora maggiore di quella delle altre due specie di stabilimenti di pena ordinaria, e che raggiunga quella delle carceri giudiziarie, il 50%, cioè, della capienza massima, rimanendo l'altra metà dei posti adattata a sistema cubicolare.
Problemi importantissimi si presentano per la costruzione degli stabilimenti di pena speciali e per la costruzione degli stabilimenti per misure amministrative di sicurezza.
Fra gli stabilimenti di pena speciali sono da segnalare le costruzioni manicomiali, nelle quali predomina l'architettura ospedaliera (un modello ne è il manicomio giudiziario di Aversa), e gli stabilimenti per minori, per i quali l'art. 213 del regolamento tassativamente prescrive che non debbano avere neanche all'esterno aspetto carcerario, mentre nell'interno vi devono essere locali per giuochi, per passeggiate all'aperto e per organizzazioni scolastiche diverse.
Nei riguardi dei minori si presenta un nuovo problema all'architettura carceraria, quello cioè di creare gli edifici preveduti dall'art. 1 della legge 20 luglio 1934, n. 1404, cioè i centri di rieducazione dei minorenni, nei quali sono istituiti, in unico edificio, un riformatorio giudiziario, un riformatorio per corrigendi, un carcere per minorenni, nonché un centro di osservazione per minorenni organizzato dall'Opera nazionale per la protezione della maternità e dell'infanzia. Negli stessi edifici funzionano, altresì, il tribunale per i minorenni e la sezione di corte d'appello per i minorenni. Occorre che l'architetto tenga presente che l'unicità dell'edificio è destinata a facilitare l'attuazione del concetto rieducativo, che la nuova legge inserisce come fondamentale nell'amministrazione della giustizia minorile, ma non implica confusione di istituti, perché ognuno di questi deve conservare la sua autonomia giuridica e tecnica con perfetta separazione dell'una dall'altra.
Per gli stabilimenti destinati alle misure di sicurezza detentive valgono le norme indicate per gli stabilimenti di pena, ma, dato il carattere di prevenzione individuale che ha l'esecuzione delle misure di sicurezza, si deve provvedere all'inclusione di locali destinati a quei fattori intellettuali e morali che hanno valore rieducativo, come i giuochi, la cinematografia, ecc.
Un interessante problema architettonico presenta altresì l'applicazione dell'art. 3 della legge 30 novembre 1933, n. 1719 sul passaggio delle colonie agricole di Isili, Cuguttu e Castiadas all'Ente ferrarese per la colonizzazione, il quale prevede che l'organizzazione delle colonie penali agricole venga fatta in modo da poter cedere le colonie a gruppi di lavoratori liberi quando i terreni siano dissodati. A tal fine è allo studio un tipo di abitazione agricola che, servendo temporaneamente di alloggio ai detenuti e quindi offrendo tutte le garanzie del carcere, possa con breve lavoro e con lieve spesa essere trasformato in una casa rurale.
E infine da segnalare che a Roma è in corso di studio un progetto per la costruzione di una città penitenziaria, la quale non deve costituire un grande stabilimento carcerario, ma un complesso di stabilimenti ciascuno governato da proprie regole tecniche, giuridiche e scientifiche, con personale distinto e specializzato. La ragione del raggruppamento è riposta nell'evidente possibilità di economia nei servizî generali e nella creazione dell'attrezzatura scientifica necessaria per l'esame dei detenuti secondo le nuove esigenze dell'individualizzazione penale.
Assistenziarî per i liberati dal carcere e le famiglie dei detenuti.
La società moderna non solo si preoccupa di organizzare negli stabilimenti carcerarî mezzi di riadattamento del condannato, ma intende seguire il condannato liberato dal carcere perché nei primi suoi passi tra le difficoltà della vita sociale non sia trascinato alla recidiva. Questa attività di prevenzione della delinquenza, che fu per lungo tempo affidata a società di patronato di privata iniziativa o a opere pie, è stata ora assunta dallo stato, pur lasciando in vita le altre istituzioni che se ne occupano. L'art. 149 del codice penale ha istituito presso ciascun tribunale un consiglio di patronato con le seguenti attribuzioni: 1. prestare assistenza ai liberati dal carcere agevolandoli, se occorre, nel trovare stabile lavoro; 2. prestare assistenza alle famiglie dei detenuti con ogni forma di soccorso e, eccezionalmente, anche con sussidî in denaro. Alle spese necessarie provvede la cassa delle ammende istituita presso il Ministero di grazia e giustizia con fondi provenienti da pene disciplinari, dalla vendita di corpi di reato, dalle multe per rigetto di gravami e simili. L'art. 9 del regolamento per gl'istituti di prevenzione e di pena provvede alla composizione del consiglio di patronato chiamando a raccolta tutte le migliori forze intellettuali, morali, civili, politiche, giudiziarie, commerciali, industriali e agricole del circondario, con a capo il procuratore del re. Come è evidente, la preoccupazione più grave dei consigli di patronato dev'essere quella di assicurare il lavoro ai liberati: perciò il Ministero con una circolare fondamentale per il funzionamento dei consigli di patronato sollecitò la creazione di appositi istituti detti assistenziarî per i liberati dal carcere.
Due concetti inducono a ritenere indispensabili gli assistenziarî almeno nei grandi centri. Il primo è universalmente accolto e risiede nel riconoscimento d'un incomparabile mezzo di redenzione sociale nell'onesto lavoro retribuito. Se questo concetto ha trionfato nell'ordinamento interno degli stabilimenti carcerarî, dove il rigore della disciplina e la sicurezza di un cibo, sia pure modestissimo, possono assicurare i più elementari mezzi di convivenza, è più forte e più vivo nella vita libera, dove solo il lavoro può creare le condizioni morali e materiali che allontanano dal delitto, e perciò nella società moderna la forma di assistenza ritenuta più efficace per i liberati dal carcere consiste nell'assicurare loro il lavoro. L'antico sistema delle confraternite o di altri istituti simili di concedere sussidî ai liberati dal carcere può servire in circostanze eccezionali e transitorie, ma deve essere bandito da un ordinamento che vuole veramente agire in profondità per la redenzione del delinquente e non fornirgli ulteriori eccitamenti all'ozio. Il secondo concetto si traduce, in verità, in una constatazione, ed è che il liberato dal carcere, attratto sempre dai disonesti, viene respinto dagli onesti, i quali lo vedono con invincibile repulsione e lo considerano sempre pericoloso, anche quando i direttori, nei loro certificati, lo qualificano onesto lavoratore riabilitato. Questa situazione rende quanto mai penosa e irta di pericoli la vita dei liberati dal carcere. E se la società non interviene a facilitare la soluzione opportuna di quella che giustamente fu chiamata la crisi della liberazione, tutto quanto fu compiuto tra le mura del carcere andrà perduto con gravissimo danno delle istituzioni esecutive e con discredito della legislazione penale. La soluzione deve essere data dagli assistenziarî nei quali vengono organizzate le lavorazioni per i liberati dal carcere, che non trovano altrove stabile lavoro. L'organizzazione di questa istituzione, delineata nel suo carattere essenziale, viene lasciata alla discrezione dei consigli di patronato, perché essa possa mutare da città a città, a seconda delle varie evenienze, delle possibilità che offre l'ambiente locale, dell'opportunità d'inserirla nell'attività di altre istituzioni già esistenti, della facilità di coordinarla con altri istituti, ecc. Questa libertà concessa ai consigli di patronato nell'organizzazione degli assistenziarî ha già dato i suoi frutti perché vi sono già alcuni tipi di essi diversamente organizzati. Così in alcune città come Palermo, Bari, Napoli, Milano, l'organizzazione è tenuta dai consigli di patronato, ma la gestione delle singole lavorazioni è affidata a privati imprenditori; in altre, come a Foggia, il consiglio di patronato non solo ha organizzato l'assistenziario, ma gestisce direttamente le lavorazioni; in altre ancora l'organizzazione è fatta dal consiglio di patronato, ma la gestione è affidata a un'opera pia, come avviene a Roma, dove la gestione è affidata all'istituto di S. Girolamo della Carità. In alcuni assistenziarî la direzione morale è affidata a un componente del consiglio di patronato; in altri, come a Napoli, si fa l'esperimento di affidare la direzione morale a un ordine religioso. Ovunque però è tenuto fermo e rispettato il concetto che gli assistenziarî, almeno come norma generale, devono costituire non un punto fermo nella vita dei liberati dal carcere, ma solamente un ponte di passaggio tra la vita carceraria e la vita libera; l'assistenziario, cioè, deve servire a far superare al liberato le difficoltà del primo periodo di liberazione, difficoltà dovute o alla mancanza di lavoro nell'industria libera o alla scarsa o nessuna conoscenza di un mestiere da parte del liberato. È estraneo al sistema italiano il proposito che i liberati trovino negli assistenziarî una vera e propria casa di lavoro, nella quale possano stabilmente fissarsi. Diversamente, o si dovrebbero creare istituti mastodontici, o, per rispettare i primi arrivati, si dovrebbe negare l'assistenza ai sopravvenuti con grave ingiustizia ed evidente inopportunità. Quasi tutti gl'istituti completano le condizioni ambientali, che sono utili a tenere lontano il liberato dalle occasioni a delinquere, provvedendo a fornire quell'assistenza morale e materiale di cui egli eventualmente difetti, cioè alloggio e vitto. Ma per tale assistenza è imposto al liberato l'obbligo del pagamento con una quota dei proventi del suo lavoro per non abituarlo a una facilità di vita che non gli può essere normalmente consentita.
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