SISTO V
Felice di Peretto nacque venerdì 13 dicembre 1521 a Grottammare, castello del Comitato di Fermo, nella Marca di Ancona, da Piergentile di Giacomo, detto Peretto, e da Mariana di Frontillo di Camerino. I coniugi, abitanti a Montalto, nel 1518 erano stati allontanati in seguito all'occupazione effettuata nel 1517 dalle truppe del duca di Urbino Francesco Maria della Rovere in lotta contro Leone X e si erano trasferiti a Le Grotte, oggi Grottammare, in provincia di Ascoli Piceno. Il padre fu bandito e i suoi beni confiscati forse per essersi compromesso con Lorenzino di Romagna, nipote del duca di Urbino, che per un anno aveva dominato Montalto. Peretto coltivava un piccolo podere preso in affitto dal fermano Ludovico de Vecchi, la madre invece si mise a servizio della nuora del proprietario, di nome Bianca. Felice, quarto di sette figli, fu battezzato il 26 dicembre nella chiesa parrocchiale di S. Giovanni Battista. Dei suoi fratelli sono noti Camilla, maggiore di due anni, e Prospero, più giovane, tutti nati a Grottammare. Gli altri scomparvero prematuramente. Felice all'età di sette anni andò a scuola nel convento degli Agostiniani di Grottammare. Quando, verso il 1530, la famiglia ritornò a Montalto, il ragazzo fu affidato al francescano conventuale fra Salvatore Ricci suo zio, non è chiaro se paterno o materno, guardiano del convento locale, affinché proseguisse gli studi intrapresi. Felice fu accolto in convento come oblato e venne inviato a studiare alla scuola istituita dal Comune, il quale assegnava ogni anno la condotta di maestro per un fiorino al mese, integrato dal compenso degli scolari. Lo zio francescano versava la quota di Felice, che imparò grammatica, retorica e poesia latina sotto la guida di Vincenzo Ferneto di Montedinove (1532-1534), Napuliò Filarete di S. Vittoria in Matenano (1535) e Pio Ottaviano Umili di Patrignone (1536). Nel 1535 Felice vestì l'abito francescano, mantenendo il nome di battesimo, e nel 1536 emise i voti religiosi tra i Francescani Conventuali. Nel 1537 intraprese lo studio della filosofia, previsto per un triennio, probabilmente nel convento di Fermo. Proseguì a Pesaro nel 1538, a Iesi nel 1539, ad Arcevia nel 1540. Il 1° settembre 1540 entrò come studente di teologia nello Studio conventuale di Ferrara. Era già suddiacono e nel corso dell'anno accademico ricevette il diaconato. Nel maggio del 1543, per interessamento dello zio Salvatore Ricci, il generale Bonaventura Fauni da Costacciaro lo inviò allo Studio generale di Bologna, dove rimase fino al settembre del 1544 e poté ascoltare le lezioni di Giovanni Bernieri da Correggio. Dal 1544 al 1546 fu baccelliere di convento, cioè insegnante di metafisica e diritto canonico, nello Studio di Rimini; venne quindi trasferito a Siena con lo stesso incarico, rimanendovi dal 1546 al 1548. Nel 1547 fu ordinato sacerdote. Il 22 luglio 1548 il generale Bonaventura Fauni, dopo l'esame prescritto, gli concesse il titolo di maestro, che gli fu conferito il 26 luglio a Fermo, nella chiesa di S. Francesco. Fra Felice iniziò l'attività di predicatore nel 1540, quando, non ancora sacerdote, fu inviato a predicare una Quaresima a Montepagano, presso Roseto degli Abruzzi. Negli anni successivi predicò a Voghera di Ferrara, Grignano Polesine, Fratta Polesine, Montescudo (Foggia), Macerata Feltria (Pesaro), San Gimignano (Siena). Nel 1549, durante la Quaresima, il provinciale lo nominò commissario per risolvere alcuni problemi della custodia ascolana. Lo stesso anno fu chiamato al Capitolo generale riunito ad Assisi, dove sostenne conclusioni teologiche contro Antonio Persico, seguace di Bernardino Telesio. Qui fu notato dal cardinale Rodolfo Pio Leonelli da Carpi, protettore dei Francescani, che ne avrebbe favorito la carriera. Nel frattempo continuò l'attività di predicatore, da lui stesso annotata nel Libro di ricordi: nel 1548, mentre era baccelliere a Siena, predicò a S. Miniato al Tedesco; nel 1549 ad Ascoli; nel 1550 a Fano; nel 1551 a Camerino, invitato dal vescovo del luogo, il cardinale Berardo Bongiovanni. In seguito il ministro generale dell'Ordine gli affidò la visita canonica ai conventi del Montefeltro. Il 14 giugno 1551, trovandosi a Montalto per affari, per la prima volta in un atto notarile compare come cognome il patronimico Peretti. Nel 1552, chiamato dal cardinale Rodolfo Pio da Carpi, predicò la Quaresima nella chiesa dei SS. Apostoli. Accusato per le sue dottrine presso l'Inquisizione, superò indenne l'esame del commissario generale, Michele Ghislieri, con il quale entrò in sintonia; da quel momento prese a frequentarlo in casa del cardinale Carpi. Trattenuto a Roma per diretto interessamento di Giulio III, che gli assegnò una congrua pensione, protetto dai cardinali Girolamo Dandino e Fulvio della Corgna, fra Felice per il resto dell'anno commentò tre volte la settimana la lettera di s. Paolo ai Romani e diede lezioni di filosofia ai figli di Ascanio Colonna: Marcantonio, poi arcivescovo di Taranto, e Stefano. A Roma pose le basi per la sua carriera successiva, entrando in contatto con esponenti della Curia e con i protagonisti delle correnti di riforma: Ignazio di Loyola, Filippo Neri, il cappuccino Felice da Cantalice e il cardinale Gian Piero Carafa. Vi fondò poi la Confraternita del Ss. Sacramento a sollievo dei poveri, alla quale si unì un'istituzione analoga, costituita in precedenza da Ignazio di Loyola, intitolata ai Dodici Apostoli. Nel 1553 Peretti predicò a Genova, dove si riunì il Capitolo generale del suo Ordine, che lo inviò a reggere lo Studio di Napoli, presso il convento di S. Lorenzo Maggiore. Qui svolse mansioni di inquisitore delegato, assieme a Scipione Rebiba, predicò la Quaresima del 1554 e commentò tutto l'anno il vangelo di Giovanni. Lo stesso anno diede alle stampe alcuni sermoni, uno dei quali sull'Immacolata Concezione. Nel 1555 predicò la Quaresima nel duomo di Perugia su richiesta del cardinale della Corgna e alla fine dell'anno pubblicò un commento al vangelo di Matteo. Ritornò a Roma all'inizio del 1556, quando Paolo IV, il 20 gennaio, riunì una commissione di studio per la riforma della Curia romana, composta da circa sessanta membri, tra cardinali, funzionari ed esperti. Nel maggio dello stesso anno il Capitolo generale riunito a Brescia lo nominò reggente dello Studio di Venezia per tre anni. Nel mese di luglio prese possesso del suo nuovo ufficio ma, in seguito a contrasti con alcuni confratelli, capeggiati da Andrea Micheli da Bergamo, rinunciò all'incarico e si ritirò nella Marca. Tuttavia, per ordine del ministro generale e del cardinale Carpi, fece presto ritorno nella città lagunare, dopo aver ricevuto, il 17 gennaio 1557, la nomina ad inquisitore di Venezia. Durante il suo mandato vennero emanati provvedimenti rigorosi: il 22 giugno 1557 si proibì la vendita dei Colloquia di Erasmo e del Mercurio e Caronte di Valdés; il 9 febbraio 1558 si ordinò agli importatori di libri di depositarne l'elenco presso il tribunale prima dello sdoganamento. Furono sottoposti ad interrogatorio alcuni autori e librai accusati di aver aggirato l'esame dei testi da dare alle stampe: ai colpevoli furono imposte lievi ammende. Il 22 agosto 1558 furono convocati cinquantasette librai, ai quali si vietò di stampare la Bibbia in qualsiasi lingua volgare. All'inizio del 1559 Peretti ricevette dall'inquisitore Michele Ghislieri una copia manoscritta dell'Indice dei libri proibiti, appena compilato dalle autorità romane, con istruzioni dettagliate: i librai avrebbero dovuto presentare al Sant'Uffizio l'inventario dei volumi depositati nei loro magazzini ed attendere il permesso per vendere i titoli che necessitavano correzioni; i confessori erano tenuti da quel momento a rifiutare l'assoluzione ai possessori di libri proibiti. I librai veneziani decisero di ignorare l'Indice per evitare consistenti danni economici, nella speranza di forzare la Sede apostolica a modificarlo. Richiamati all'ordine per due volte dall'inquisitore, essi rifiutarono di stampare l'Indice e di presentare gli inventari, appoggiati dal governo veneziano, che difese i libri stampati a Venezia con il suo benestare. Tuttavia le pressioni esercitate attraverso il pulpito e il confessionale ebbero ragione delle opposizioni: ai primi di marzo erano stati raccolti a Venezia più di settemila volumi e il Sabato santo ne furono bruciati circa diecimila. Nel tempo che gli restava libero dagli impegni del tribunale, che si riuniva tre volte la settimana, Peretti si dedicava all'insegnamento e alla predicazione. Tuttavia sorsero difficoltà all'interno del convento, dove un gruppo di religiosi lo dichiarò decaduto dagli incarichi di insegnante e di inquisitore. Il generale dell'Ordine invece lo nominò presidente del Capitolo provinciale della provincia veneta, riunito a Bassano alla fine di aprile del 1559, che elesse provinciale uno dei suoi avversari. Il 23 maggio fu eletto ministro generale dell'Ordine Giovanni Antonio Muratori, che confermò Peretti reggente dello Studio veneziano e inquisitore di Venezia. Continuando la resistenza dei librai veneziani appoggiati dal governo, il pontefice fece sequestrare i depositi di libri veneziani nello Stato pontificio e proibì ai librai della Serenissima di partecipare alle fiere che si tenevano nei suoi territori. Nel mese di aprile il fronte dei librai cominciò a disgregarsi, finché il Consiglio dei Dieci l'8 luglio 1559 autorizzò la pubblicazione dell'Indice, che fu stampato da Girolamo Giglio il 21. Le disposizioni in esso contenute, applicate da Peretti con rigore, gli accrebbero l'ostilità della Repubblica, per cui, quando il 18 agosto Paolo IV morì, l'inquisitore ritenne opportuno lasciare Venezia e si ritirò a Montalto; qui il 17 settembre 1559 presenziò alle nozze di alcuni parenti, e continuò poi il viaggio verso Roma, dove si trovava all'inizio di novembre. Il 22 febbraio 1560 Pio IV gli rinnovò la nomina ad inquisitore di Venezia. Peretti fu ricevuto in convento con difficoltà, ma il governo veneziano rifiutò la sua designazione. Dopo lunghe trattative, nel giugno del 1560 il papa revocò la nomina ed affidò l'Inquisizione veneta ai Domenicani. A Peretti venne assegnata una stanza nel convento dei SS. Apostoli in Roma; fu nominato consultore teologo dell'Inquisizione romana e prestò giuramento nelle mani del cardinale Ghislieri il 16 luglio 1560. Nel settembre del 1561 il papa lo nominò procuratore generale del suo Ordine, carica in cui fu confermato dal Capitolo generale di Milano il 16 maggio 1562. In seguito all'apertura del terzo periodo del concilio di Trento, avvenuta il 18 gennaio 1562, cui partecipava il generale, larga parte dell'amministrazione ordinaria restò affidata a Peretti, il quale nell'aprile-maggio 1563 visitò le province di Abruzzo e di Puglia. In ottemperanza alla disposizione tridentina che proibiva ai Francescani la proprietà privata, Peretti nel 1564 lasciò i suoi beni immobili al convento di Montalto e la sua biblioteca, raccolta in anni di insegnamento e di predicazione, al convento dei SS. Apostoli. Al momento della rinuncia l'inventario del suo patrimonio librario enumerava settecentoquarantadue titoli, tra i quali prevalevano la teologia, la filosofia e il diritto, ma era ben rappresentata anche la letteratura. Dal 1562 al 1564 Peretti insegnò teologia all'Università di Roma. Nel 1565 fra Felice terminò il suo ufficio di procuratore generale; il Capitolo riunito a Firenze lo nominò socio o assistente del generale per le province cismontane e membro della commissione incaricata di introdurre la riforma tridentina nell'Ordine francescano. Il 13 luglio 1565 fu nominato legato per la Spagna il cardinale Ugo Boncompagni, costituito giudice per la causa di Bartolomé de Carranza, arcivescovo di Toledo. Come assessori gli furono assegnati Giambattista Castagna, il futuro Urbano VII, designato nunzio ordinario, e Giovanni Aldobrandini, futuro cardinale. Felice Peretti fu aggregato alla missione in qualità di assessore teologo. La legazione arrivò in Spagna nel novembre del 1565 e dovette affrontare per prima cosa una questione procedurale: se ad essa dovessero aggiungersi come assessori alcuni membri dell'Inquisizione spagnola. Nel corso delle trattative giunse la notizia della morte del papa, deceduto il 9 dicembre 1565, per cui la legazione ritornò sui suoi passi. Risalgono a questo periodo i primi dissapori tra Peretti e Boncompagni, che avrebbero portato all'isolamento del francescano durante il pontificato di Gregorio XIII. Dopo la morte del ministro generale dei Francescani Conventuali Antonio Savioz da Aosta, il 14 gennaio 1566 Pio V, da poco eletto alla Sede pontificia, nominò Peretti vicario generale dell'Ordine con il compito di avviarne la riforma. Durante l'estate fra Felice iniziò la visita dei conventi dell'Italia centrale: in agosto si trovava ad Assisi; successivamente percorse l'Umbria e il Lazio e il 13 ottobre era a Napoli. Il 15 novembre 1566 fu nominato vescovo di Sant'Agata dei Goti, pur mantenendo il governo dell'Ordine sino al successivo Capitolo generale, da celebrarsi nel 1568. Fu consacrato il 12 gennaio 1567 a Napoli, nella chiesa di S. Lorenzo Maggiore, quindi, dopo aver preso possesso della sua diocesi, riprese la visita alle province di Toscana e di Bologna, dove arrivò alla fine di marzo. In aprile visitò i conventi della Marca e trascorse a Montalto i giorni 27 e 28. Dal 3 al 6 maggio presiedette il Capitolo provinciale marchigiano a Sant'Elpidio a Mare, concluse quindi la visita alla provincia e, attraversata la Romagna, alla fine di maggio del 1567 da Rovigo raggiunse via mare Venezia e tornò infine a Roma, dove si trovava il 20 giugno 1567. Un anno dopo, all'inizio del Capitolo generale, apertosi a Roma il 6 giugno 1568, fra Felice depose la sua carica di vicario generale. Sciolta l'assemblea, Peretti si dedicò alla diocesi di Sant'Agata. Tuttavia venne presto richiamato a Roma per occuparsi, quale consultore dell'Inquisizione, del processo dell'arcivescovo Carranza, ora prigioniero in Castel S. Angelo. Il 17 maggio 1570 Peretti fu creato cardinale presbitero e il 9 giugno ricevette il titolo di S. Girolamo degli Illirici. Pio V gli elargì 500 scudi per le spese immediate e gli fissò un assegno annuo di 1.200 scudi, il cosiddetto "piatto" per i cardinali poveri. Il papa lo ascrisse alla Congregazione dei Vescovi e Regolari e alla Congregazione per il processo di Carranza, e nel 1571 alla Congregazione dell'Indice, istituita nel marzo. Il 17 dicembre 1571 Peretti fu trasferito alla diocesi di Fermo, più importante e più ricca rispetto a quella già in suo possesso; la tenne fino a metà del 1577, quando la cedette a Domenico Pinelli, nominatovi il 14 agosto. Verso il 1573 vi fondò il seminario, ne prese possesso nel 1574 e la governò per mezzo di vicari. Nell'autunno del 1574, mentre visitava la diocesi, Peretti sostò dall'8 al 10 ottobre a Montalto, dove istituì una scuola e stabilì due fondi fruttiferi di 1.000 scudi ciascuno per il mantenimento di un maestro e di un medico, si interessò alla riparazione delle mura e dispensò la comunità dal voto di digiunare il sabato. Nel dicembre del 1578, ottenne dal cardinale camerlengo Alvise Cornaro l'istituzione del mercato il mercoledì di ogni settimana. Con l'ascesa al pontificato di Gregorio XIII il cardinale Montalto, come veniva comunemente chiamato, conobbe un periodo di eclissi. Allontanato dagli incarichi di Curia, si dedicò agli studi teologici, alla sistemazione della famiglia e alla costruzione della sua celebre villa. Diverse furono le esperienze di Felice Peretti nel campo editoriale: collaborò all'edizione di Aristotele e di Averroè, stampata a Venezia nel 1562, opera del francescano conventuale Antonio Posio († 1580); nel 1566, quando Pio V nominò una Congregazione per l'emendazione del Decretum Gratiani composta da cinque cardinali, affiancati da quindici collaboratori, tutti chierici, vi incluse anche Peretti. L'edizione fu stampata a Roma nel 1582. Da Pio IV gli fu assegnata l'incombenza di procedere all'edizione delle opere di s. Ambrogio, incarico confermatogli da Pio V. Il gruppo di lavoro si riuniva nella casa del cardinale Guglielmo Sirleto. Con Peretti collaborarono i francescani conventuali Ottaviano Strambiati, Girolamo Pallantieri, poi vescovo di Bitonto, Pietro Ridolfi da Tossignano, in seguito vescovo di Senigallia, e Costanzo Torri da Sarnano, futuro cardinale. Per la ricerca dei manoscritti Peretti si valse della collaborazione di Carlo Borromeo. Il lavoro di composizione iniziò ai primi di aprile del 1578 presso la tipografia del veneziano Domenico Basa. I primi risultati si videro nel 1579, quando apparve il terzo volume. Il primo, con dedica a Gregorio XIII, vide la luce nel 1580, il secondo uscì nel 1581, il quarto nel 1583, il quinto, dedicato a S., ormai elevato al soglio pontificio, nel 1585, il sesto, inizialmente non previsto, fu stampato nel 1587. I primi tre volumi contengono i commenti a libri biblici, seguendo l'ordine tradizionale della Bibbia, il quarto opere teologiche, il quinto sermoni, lettere e trattati ritenuti dubbi, il sesto due biografie di Ambrogio e un indice delle citazioni scritturistiche. Nonostante i limiti immediatamente rilevati, quali la scissione dell'unità delle collezioni manoscritte, l'inclusione di opere spurie, mutazioni arbitrarie del testo, l'edizione si impose e fu ristampata più volte; essa fu migliorata solo dall'edizione dei Maurini, uscita nel 1690. Il cardinale Montalto abitava in vicolo Leutari, presso la statua di Pasquino, nel rione di Parione. Nel giugno del 1576 comprò la vigna Guglielmini, nella valle tra il Viminale e l'Esquilino, presso la basilica di S. Maria Maggiore. Gran parte del denaro sborsato derivava dalla dote di Vittoria Accoramboni, moglie del nipote Francesco, cosicché il contratto fu fatto a nome della sorella del cardinale, Camilla. Nel gennaio del 1578 il cardinale Peretti regolarizzò l'acquisto comprando la vigna dai suoi parenti e nel 1580 raddoppiò il fondo mediante l'acquisizione di altre due vigne adiacenti. Nel frattempo incaricò l'architetto Domenico Fontana di disegnare e realizzare un grande casino sulla prima area. Nel febbraio del 1581 la costruzione attirò l'attenzione di Gregorio XIII il quale, indignato con il committente, gli tolse l'assegno destinato ai cardinali poveri. Anche dopo essere divenuto papa S. continuò ad estendere la proprietà, che giunse a coprire un'area di 160 acri tra le Terme di Diocleziano e la porta di S. Lorenzo, ad est della basilica di S. Maria Maggiore: era la vigna più estesa all'interno delle mura cittadine. Nel luglio del 1587 cominciò la costruzione di un muro di cinta, nel quale si aprivano sei ingressi. Alla fine dell'anno iniziarono a sorgere all'estremità nord, verso le Terme di Diocleziano, un grande palazzo e un edificio secondario disegnati da Domenico Fontana. Nel 1586 S. donò la villa a sua sorella Camilla, che ne mantenne il possesso fino alla morte, occorsa nel giugno del 1605. In seguito alla morte di Gregorio XIII, avvenuta il 10 aprile 1585, la sera del 21 aprile, giorno di Pasqua, si aprì il conclave. Erano presenti trentotto cardinali su sessanta e altri quattro si aggiunsero nei giorni successivi, portando a quarantadue il numero degli elettori. Il periodo antecedente fu dominato dalle trattative tra le due correnti capeggiate dai cardinali Ferdinando de' Medici e Alessandro Farnese, che mirava ad ascendere al pontificato. Da parte della Spagna non vi furono pressioni particolari, mentre i cardinali filofrancesi erano divisi tra il sostegno da dare alla Lega o a Enrico III. L'ambasciatore francese Jean de Vivonne, giunto a Roma durante la sede vacante, ricevette ordine di attenersi alle indicazioni del cardinale Luigi d'Este, zio del re di Francia e protettore del Regno. Dopo l'inizio del conclave il cardinale Farnese ritirò la propria candidatura, mentre quella di Montalto fu avanzata e sostenuta da Ferdinando de' Medici e da Luigi d'Este, che raccolsero ampie adesioni su un candidato energico e non schierato con le fazioni politiche. Il 24 aprile 1585 Montalto fu eletto per acclamazione, confermata poi attraverso una votazione regolare. Egli prese il nome di Sisto V, in ricordo di Sisto IV, già membro dell'Ordine francescano. Proclamò quindi un solenne giubileo, inaugurando una prassi continuata dai suoi successori. S. diede immediatamente un'impronta personale al governo, insediando uomini di sua fiducia. Il 25 aprile 1585, giorno successivo all'elezione, affidò al cardinale Girolamo Rusticucci la conduzione degli affari più importanti, in particolare della corrispondenza politica, mentre come segretario scelse il marchigiano Decio Azzolini, il quale, nel dicembre successivo, fu assunto nel Collegio cardinalizio, anche se solo per breve tempo, in quanto morì nel 1587. Il 1° maggio 1585 nominò sovrintendente generale dello Stato ecclesiastico il cardinale Michele Bonelli, nipote del suo antico protettore Pio V. Ma poiché la sua intesa con il pontefice fu scarsa, Bonelli preferì ritirarsi a poco a poco, accampando motivi di salute. Il 13 maggio 1585 S. nominò cardinale il nipote quindicenne Alessandro Damasceni, figlio di sua nipote, in seguito conosciuto anch'egli come cardinale Montalto. Mentre inizialmente non gli furono affidate responsabilità di governo a causa della sua giovane età, il 28 dicembre 1585 il papa gli conferì parte dei compiti spettanti al cardinale Alessandrino nelle materie riguardanti il governo dello Stato. Il potere venne interamente riversato nelle sue mani il 9 maggio 1586, quando gli furono conferite le attribuzioni di sovrintendente dello Stato ecclesiastico. All'inizio del 1587 S. stabilì un nuovo ordinamento, più in consonanza con il suo stile di governo personalista: Rusticucci si ritirò, la Consulta fu sospesa e il papa governò da solo, coadiuvato dai cardinali Montalto e Azzolini, facendo affidamento su Domenico Pinelli, Ippolito Aldobrandini e Giovanni Battista Castrucci, che abitavano a Palazzo. Secondo la consuetudine, S. provvide a sistemare i suoi familiari. La sorella Camilla, rimasta vedova tra il 1559 e il 1560, dopo che Felice era stato nominato vescovo di Sant'Agata dei Goti si era trasferita a Roma presso di lui con i due figli Francesco e Maria Felice. Quest'ultima nel 1572 aveva sposato un piccolo commerciante, di nome Fabio Damasceni, dal quale aveva avuto due figli, Alessandro e Michele, e due figlie, Flavia e Orsina. Dopo la morte di Maria Felice, il Peretti ne aveva adottato i figli, dando loro il suo cognome e facendoli educare in casa di Lucrezia Salviati, moglie di Latino Orsini. Il 21 giugno 1573 Francesco Peretti prese in moglie Vittoria Accoramboni, divenuta ben presto amante di Paolo Giordano Orsini, duca di Bracciano, che, nella notte tra il 16 e il 17 aprile 1581, le fece uccidere il marito e poco tempo dopo la sposò segretamente. I diversi tentativi di matrimonio furono ripetutamente annullati e nel 1585, quando S. divenne papa, i due fuggirono a Padova, dove morirono tragicamente a breve distanza l'uno dall'altra il 13 novembre e il 22 dicembre 1585. Il nipote Michele, fratello del cardinale Alessandro, all'età di otto anni, nel 1585, fu nominato capitano generale della guardia pontificia e il 12 dicembre dello stesso anno governatore di Borgo. La sorella Camilla godeva di grande autorità presso il pontefice. Il 20 marzo 1589 furono celebrate le nozze delle nipoti Flavia Peretti con Virginio Orsini di Bracciano e Orsina Peretti con Marcantonio Colonna, conestabile del Regno di Napoli. Nominando i due uomini assistenti al trono pontificio il papa legò in maniera stabile le rispettive famiglie alle sorti del pontificato. L'impronta sistina del governo si manifestò nella prima grande promozione cardinalizia del 18 dicembre 1585, preannunciata con otto giorni di anticipo per dare modo ai cardinali e ai rappresentanti dei sovrani di esprimere i loro desideri, dei quali il papa non tenne conto, assumendo invece alla porpora uomini che si erano distinti negli uffici della Curia, nell'applicazione dei decreti tridentini o che erano suoi stretti collaboratori. Il 20 dicembre 1585, mediante la costituzione apostolica Romanus pontifex, S. conferì alla visita "ad limina" la configurazione giuridica rimasta praticamente invariata fino ai nostri giorni. L'istituto era già in vigore da tempo, ma i pontefici non ne avevano mai imposto l'obbligo con la stessa forza di Sisto V. Tutti i patriarchi, primati, arcivescovi e vescovi, non esclusi i cardinali, prima di essere consacrati o di ricevere il pallio o essere trasferiti ad altra diocesi si impegnavano a visitare a tempo debito le tombe degli apostoli Pietro e Paolo, a rendere conto al papa della loro azione pastorale e a ricevere le istruzioni pontificie, da eseguire poi in diocesi. In caso di legittimo impedimento, la visita doveva essere fatta per mezzo di un delegato. Le diocesi furono divise in quattro gruppi, in base alla distanza da Roma, con diversa periodicità riguardo alle visite: tre anni per i vescovi d'Italia ed isole adiacenti, Dalmazia e Grecia; quattro anni per i vescovi di Germania, Francia, Spagna, Belgio, Boemia, Ungheria, Inghilterra, Scozia, Irlanda, paesi baltici ed isole del Mediterraneo; cinque anni per i restanti paesi d'Europa, per quelli delle coste prossime dell'Africa e per quelli delle altre isole europee ed africane dell'Atlantico; dieci anni per i vescovi di Asia, America e del resto del mondo. Il computo degli anni cominciava dalla consacrazione o dalla data di trasferimento. In caso di inadempienza veniva inflitta ipso facto la sospensione dall'amministrazione spirituale e temporale della diocesi, dalla riscossione delle rendite e la sospensione "ab ingressu ecclesiae". Il controllo sulle visite venne assegnato alla Congregazione del Concilio, fondata da Paolo IV nel 1564, e le fu mantenuto nella riorganizzazione del 1588. Il 3 dicembre 1586, con la bolla Postquam verus, il papa riformò il Collegio cardinalizio, dandogli la struttura che avrebbe mantenuto durante quasi quattro secoli. In conformità con le disposizioni del concilio di Trento, secondo il quale tutte le nazioni cristiane dovevano essere rappresentate nel Collegio, il numero dei cardinali fu elevato a settanta, di cui quattordici diaconi, sei vescovi e cinquanta presbiteri. Tra essi non dovevano mancare dottori in diritto e in teologia e almeno quattro membri di Ordini religiosi. Il prologo della bolla ricordava che i cardinali erano rappresentanti degli apostoli, consiglieri e coadiutori del papa nel ministero sacerdotale e nel governo della Chiesa. Con la costituzione Immensa aeterni Dei del 22 gennaio 1588 S. ristrutturò il governo centrale della Chiesa perfezionando il sistema delle Congregazioni permanenti, inaugurato nel 1542 da Paolo III con la creazione della Congregazione dell'Inquisizione. Oltre ad essa, S. trovò funzionanti le Congregazioni dell'Indice, del Concilio e dei Vescovi, più altre a carattere temporaneo. Egli stesso il 17 maggio 1586 aveva creato la Congregazione per i Regolari. La bolla istituì quindici Congregazioni stabili, di cui nove deputate al governo della Chiesa e le sei restanti all'amministrazione dello Stato pontificio. Al vertice dell'amministrazione curiale fu posta la Congregazione dell'Inquisizione, con il compito di mantenere la fede, "fondamento di tutto l'edificio spirituale", nella sua purezza. Le Congregazioni sono enumerate nel seguente ordine: della Segnatura di Grazia, per l'Erezione delle Chiese e le Provvisioni Concistoriali, dell'Annona dello Stato Ecclesiastico, dei Riti e delle Cerimonie, della Flotta di Difesa, dell'Indice dei Libri Proibiti, per l'Esecuzione e l'Interpretazione del Concilio di Trento, degli Sgravi dello Stato Ecclesiastico, dello Studio di Roma, dei Regolari, dei Vescovi, delle Strade, i Ponti e le Acque, della Tipografia Vaticana, della Consulta di Stato, con il compito di rivedere in ultimo appello le cause civili, criminali e miste. Il papa si riservò la presidenza delle prime due. Ogni Congregazione era composta da almeno tre cardinali con un segretario, coadiuvati da esperti teologi e giuristi con funzioni consultive. Tale ordinamento subì abbastanza presto modifiche: la Congregazione per le Strade, i Ponti e le Acque nel 1590 fu dallo stesso S. limitata quanto alle competenze e si occupò solo dell'Acqua Felice; la Congregazione dell'Annona non ebbe modo di funzionare, in quanto le sue competenze erano già esercitate dal camerlengo e dal presidente dell'Annona; la Congregazione degli Sgravi fu aggregata nel 1592 alla Congregazione del Buon Governo appena istituita da Clemente VIII e fu da essa assorbita sotto Paolo V. Particolare importanza per il governo temporale rivestirono le Congregazioni della Consulta e degli Sgravi come organi destinati a difendere le comunità dello Stato pontificio contro gli abusi e il malgoverno, specialmente in materia fiscale. Mediante le Congregazioni S. diede maggiore impulso all'applicazione della riforma tridentina, sottrasse ulteriore potere al Concistoro e indebolì il peso politico del Sacro Collegio; tale effetto fu accresciuto dando la preferenza nelle nuove nomine a persone di non elevata estrazione sociale, a scapito dei personaggi altolocati che tradizionalmente mantenevano legami con le potenze politiche e le grandi famiglie baronali romane. Accanto a questi provvedimenti di portata più generale, S. introdusse altri significativi mutamenti nell'amministrazione. Il 16 novembre 1585 ampliò il Collegio dei sette notai della Sede apostolica, portandolo al numero di dodici. Il 22 settembre 1586 ridusse a cento i referendari "utriusque Signaturae", stabilendo al tempo stesso precisi requisiti per l'ammissione nel Collegio: legittimità di natali, appartenenza allo stato clericale, formazione giuridica universitaria, età minima di venticinque anni e decorosa condizione economica; per i referendari di Grazia si richiese inoltre un triennio di tirocinio nel referendariato di Giustizia. S. riformò il Collegio dei notai capitolini, riducendone il numero a trenta e rendendo gli uffici vacabili per l'importo di 500 scudi ciascuno. Con la costituzione Sollicitudo pastoralis officii del 1° agosto 1588 prescrisse, eccetto che per Roma e Bologna con il relativo contado, l'istituzione di un archivio pubblico notarile in tutte le città e in un gran numero di centri minori, nel quale sarebbe stato incorporato l'eventuale archivio esistente, e la creazione di un prefetto o presidente degli archivi competente per tutte le controversie del ramo. Il 14 settembre 1588 il cardinale camerlengo Enrico Caetani emanò il regolamento applicativo e il 31 ottobre 1588 il papa istituì la carica di reggente generale degli archivi che sostituiva, ampliandola, la competenza prevista per il prefetto. Il nuovo ufficio fu affidato, contro il pagamento di 25.000 scudi, al referendario Fabio Orsini. Appena eletto al soglio pontificio, S. emanò una serie di provvedimenti volti ad estirpare il banditismo che, negli ultimi anni del pontificato precedente, aveva costituito un serio problema per la campagna romana e per la stessa capitale. Il 27 aprile 1585 confermò il cardinale Giovanni Francesco Biandrate di San Giorgio, noto per la sua severità, nella carica di governatore di Roma, che ricopriva dal 1583. Il 30 aprile 1585 fu ripristinato un editto che comminava la pena di morte a chi portava determinate armi. Lo stesso giorno furono arrestati quattro giovani sorpresi dalla polizia; nonostante le richieste di grazia, il papa volle compiere un gesto dimostrativo, ordinando che fossero giustiziati il giorno seguente, nel quale era prevista la cerimonia dell'incoronazione. Per coordinare la lotta al brigantaggio venne istituita una Congregazione composta dai cardinali Giovanni Girolamo Albani, Antonio Carafa e Antonio Maria Salviati, con il compito di ristabilire l'ordine all'interno dello Stato e rivedere i processi fatti da Gregorio XIII in materia di titoli feudali, in quanto la privazione di feudi aveva ridotto molti nobili in miseria o li aveva spinti verso il banditismo. Il 1° giugno 1585 il governatore di Roma emanò un editto che prometteva la grazia, la facoltà di liberare due amici e premi in denaro ai banditi che facessero catturare altri fuorilegge: 400 scudi se morti e 600 se vivi. Il provvedimento, che mirava a distruggere le bande dall'interno favorendo gli odi e le divisioni, già messo in opera in precedenza con scarso successo, diede inizialmente alcuni risultati, pur essendo un pericoloso incitamento alla violenza privata. Il 1° luglio 1585 fu emanata una costituzione contro la nobiltà e le comunità protettrici dei fuorilegge, che rinnovava tutte le disposizioni analoghe emesse a partire dal tempo di Pio II e vietava ai baroni e alle comunità pontificie di accogliere i banditi, mentre faceva loro obbligo di perseguirli attivamente. Le comunità dovevano indennizzare le vittime di devastazioni avvenute sul proprio territorio, quanti aiutavano i banditi erano puniti con la perdita dei beni e l'esilio; inoltre, per finanziare la lotta al banditismo, il 29 luglio 1585 S., mediante la bolla Multa et gravia, eresse il Monte della Pace, con un capitale di 300.000 scudi e un interesse annuo del 5,25%. La prima vittima dei rigorosi provvedimenti fu il cardinale Biandrate di San Giorgio il quale, avendo condannato a morte un giovane fiorentino che si era opposto con la forza al sequestro del suo asino, venne destituito dal suo incarico e, il 28 agosto 1585, sostituito con Mariano Pierbenedetti. Quest'ultimo nel novembre ordinò che chiunque entrasse in città dovesse esibire una dichiarazione che lo riconosceva estraneo al banditismo, rilasciata dalla suprema autorità criminale cittadina. Ai padroni dei casali della campagna romana, sospettati di favoreggiamento nei confronti dei fuorilegge, fu ordinato di presentare al governatore di Roma liste complete dei loro dipendenti. Durante l'estate del 1585 fu particolarmente attivo nella provincia di Campagna il cardinale legato Marcantonio Colonna, mentre i suoi colleghi non si mostrarono altrettanto solleciti. La legge fu applicata con severità a Bologna nei confronti del conte Giorgio Pepoli, condannato a morte alla fine di agosto del 1585 per essersi rifiutato di consegnare un bandito, anche se in realtà il processo fu fortemente influenzato da rivalità private. I banditi opposero resistenza, appoggiandosi alla popolazione rurale, e reagirono con uguale ferocia, come il gruppo che, nel luglio 1585, massacrò un reparto della polizia pontificia nei dintorni di Farfa. I risultati dei primi mesi di lotta diedero l'impressione che i provvedimenti adottati fossero efficaci, come ricordava ironicamente il noto avviso del 18 settembre 1585, secondo cui in quell'anno erano state esposte più teste di banditi a ponte S. Angelo che meloni al mercato. I severi provvedimenti furono continuamente rinnovati nell'arco dei cinque anni del pontificato, pur con alcune varianti, ricorrendo anche a misure estranee all'ordinamento penale: il 4 maggio 1586 fu decretata l'assoluzione generale per sostenitori e complici di banditi che avessero confessato le loro colpe davanti a un sacerdote. S. cercò di imbastire con gli Stati confinanti una politica comune per ovviare allo sconfinamento dei banditi. Il 10 maggio 1585 chiese collaborazione al re di Spagna; tuttavia negli stessi giorni scoppiò la rivolta antispagnola a Napoli e nessuno dei due governi fu in grado di controllare le bande nei loro spostamenti a cavallo del confine. Nei confronti del Senato veneto il papa esercitò forti pressioni per evitare che i fuorilegge dello Stato pontificio trovassero protezione da parte della Repubblica; si giunse così ad una prima formulazione del principio di estradizione, fino ad allora sconosciuto al diritto internazionale. Il granduca di Toscana, pur avendo accettato nel 1585 di collaborare, continuò a tollerare i fuorusciti nel suo Stato fino a quando, di fronte alle ripetute proteste del papa, nel giugno del 1587 dovette consegnare Lamberto Malatesta, sospettato di connivenza con gli ugonotti. Negli ultimi anni del pontificato la politica spagnola mutò di segno quando S. rifiutò di prendere posizione contro Enrico di Navarra ed utilizzò il favoreggiamento dei banditi come mezzo di pressione sul pontefice. Tra il 1585 e il 1590 furono celebrati davanti al tribunale del governatore di Roma quarantanove processi contro i banditi e i loro fautori. Vi trovarono la morte nomi leggendari come il prete Guercino, "il re della Campagna", Giovanni Valente, Lamberto Malatesta; sopravvisse invece, grazie alle numerose connivenze, Alfonso Piccolomini. Negli ultimi anni del pontificato il banditismo sembrò scemare: in parte in seguito al consistente impiego di uomini armati; in parte per il fatto che, con l'aggravarsi delle condizioni economiche, i taglieggiamenti dei banditi si rivolsero contro le popolazioni rurali presso le quali essi avevano sempre trovato appoggio, spingendole a collaborare con la forza pubblica. Tuttavia nell'estate del 1590 il fenomeno risorse e nei due anni successivi prosperò, favorito dalla debolezza del potere centrale; fu ridimensionato solo dai duri provvedimenti di Clemente VIII e dalle nuove possibilità di impiego emerse con l'insorgere della guerra nell'Europa orientale. Per proteggere le coste dagli attacchi dei corsari, S. decise la costruzione di una flotta di dieci navi con base a Civitavecchia, sottoponendola nel gennaio del 1587 ad una Congregazione cardinalizia. Nel 1588, essendo state allestite alcune navi con la collaborazione di Genova, Spagna e Toscana, il comando fu affidato al cardinale Antonio Sauli. La flotta operava di concerto con i legni maltesi e toscani. Nel 1585, quando S. venne eletto papa, lo Stato pontificio contava circa un milione e mezzo di abitanti, mentre Roma ne aveva circa centomila. Le potenzialità della produzione agricola erano ormai sfruttate al massimo, sia rispetto al progresso tecnico sia rispetto all'occupazione di aree coltivabili. Inoltre, a partire dal 1578, le condizioni generali peggiorarono, dando inizio a periodiche carestie. Il papa si impegnò a non far mancare gli approvvigionamenti alla città mediante l'acquisto di derrate alimentari, in particolare di grano, da vendere a prezzi calmierati, in cui spese, durante i cinque anni di pontificato, circa 800.000 scudi. Per estendere i terreni coltivabili furono individuate alcune aree alla foce del Tevere e nei dintorni di Ravenna, oltre alle chiane di Orvieto, per cui fu lanciato un prestito non vacabile di 82.000 scudi con l'interesse del 6%. Quanto alle paludi pontine, si mirava ad arrestare il declino anche demografico della provincia di Marittima, dovuto alla recrudescenza dell'infezione malarica, a dare lavoro a migliaia di braccianti e a recuperare alle colture un'area che avrebbe potuto assicurare il rifornimento di cereali per la capitale. Il 28 marzo 1586 il papa assegnò la vasta zona paludosa che si stendeva tra Terracina, Piperno e Sezze all'architetto urbinate Ascanio Ambrosi, meglio conosciuto come Ascanio Fenizi, e il 9 aprile 1586 nominò commissario apostolico e giudice nelle cause relative alla bonifica, con ampie facoltà, Fabio Orsini di Lamentana, figlio del suo consigliere Latino Orsini. Il 21 maggio 1586 Ascanio Fenizi costituì la società appaltatrice, cui parteciparono famiglie nobili, cardinali e piccoli proprietari. I lavori iniziarono nell'autunno del 1586, impiegando oltre duemila uomini nello scavo dei diversi canali confluenti in un unico grande collettore, chiamato fiume Sisto, che sboccava in mare nei pressi del Circeo. I lavori terminarono a metà del 1589; nell'ottobre successivo il papa visitò la zona bonificata e manifestò l'intenzione di spostare l'abitato di Terracina e di ripristinare il porto, ma le difficoltà pratiche fecero abbandonare entrambi i progetti. Le rosee previsioni non ebbero seguito: la stagione invernale del 1589-1590 fu caratterizzata da intense piogge e dopo la morte di S. la manutenzione venne trascurata, per cui l'area si ritrovò nuovamente invasa dalle acque stagnanti. In realtà, soprattutto nelle zone più prossime a Roma, l'interesse, più che alla coltivazione dei campi, era rivolto all'allevamento delle pecore, che riforniva di carni, lane e latticini il mercato della capitale, ricco e in crescente espansione. Pure il governo era interessato ad alimentare questa attività, dalla quale ricavava notevoli proventi doganali sui pascoli. Collegato alla pastorizia ci fu il tentativo di introdurre l'industria della lana: il 18 dicembre 1585 S. conferì ad Alessandro Capocefalo e a Fenicio Alfano il monopolio della tintura, oltre ad un anticipo di 12.000 scudi per sostenere le spese degli impianti, e presso la fontana di Trevi venne fatto costruire un mulino per lavorare la lana. Contemporaneamente il toscano Pietro Valentini ottenne il privilegio di piantare gelsi, come passo previo all'introduzione dell'industria serica; la piantagione di questi alberi su terreni marginali fu incrementata con un provvedimento del 28 maggio 1586. Diversi imprenditori si mostrarono interessati all'impresa e furono costruiti impianti per la lavorazione della seta presso le Terme di Diocleziano e presso la villa Montalto. Tuttavia le iniziative non diedero i risultati sperati, visto anche il declino dell'industria tessile italiana in quel periodo. Tentativi simili avvennero anche nel settore minerario: oltre alle miniere di allume attive dal secolo precedente, furono avviati progetti per lo sfruttamento dei giacimenti di zolfo presenti nei pressi di Montefeltro, Cesena e Nepi, come pure dei giacimenti di ferro scoperti nei territori di Narni, Cascia e Urbino, che si rivelarono meno redditizi rispetto alle attese. Nella città di Roma circa un quarto della popolazione era impegnata in attività artigianali, condotte da imprese modeste, indirizzate alla produzione di generi di lusso per soddisfare le richieste della Curia e delle famiglie facoltose. Particolarmente attivo era il settore delle costruzioni edili, che assorbiva mano d'opera ma non creava ricchezza. Per i poveri, troppo numerosi perché potessero lavorare tutti, S. fece costruire un ospizio presso ponte Sisto, capace di ospitare duemila persone, mentre proibì la mendicità. Ai ragazzi si insegnava a leggere e a scrivere e un mestiere, mentre le ragazze imparavano i lavori domestici. In questa iniziativa furono spesi 30.000 scudi ma, non appena S. morì, i mendicanti ritornarono sulla strada. Particolare importanza diede S. alla politica fiscale. Suo costante impegno fu quello di accrescere le riserve, ritenute indispensabili per far fronte alle emergenze: al 1° febbraio 1590 esse ammontavano rispettivamente a 3.000.000 di scudi d'oro e a 1.159.543:29 scudi d'argento. L'uso del Tesoro fu regolato da una lettera concistoriale presentata il 21 aprile 1586, giurata e sottoscritta dal papa e dai cardinali. Essa prevedeva che la riserva, custodita con particolari precauzioni in Castel S. Angelo, fosse considerata alla stregua dei beni immobili della Chiesa e restasse ad esclusiva disposizione della Sede apostolica. Poteva essere utilizzata solo con il consenso scritto dei due terzi dei cardinali presenti in Concistoro in occasioni eccezionali, quali la riconquista della Terra Santa, la guerra contro i Turchi, in caso di peste o di carestia, di minaccia diretta verso una provincia del mondo cattolico, di invasione degli Stati della Chiesa, della riconquista di una città appartenente alla Santa Sede, con la precauzione di non estrarre mai più della metà del totale e di reintegrare appena possibile i fondi spesi. La lettera doveva essere letta e giurata durante i conclavi e le sue disposizioni obbligavano i successori nel pontificato. Nel Concistoro del 28 aprile 1586 fu disposto che l'integrità del Tesoro fosse verificata ogni quattro mesi. S. cercò di migliorare la gestione finanziaria dello Stato attraverso la riduzione della spesa corrente per la Corte, per l'amministrazione e per la concessione di sussidi ad istituzioni e a sovrani cattolici. Sul fronte delle entrate aumentò la tassazione diretta, introducendo almeno una decina di nuove imposte, tra cui figurano una tassa su stoffe e tessuti prodotti nello Stato pontificio, sulla legna da ardere importata a Roma, sulle carte da gioco, sulla vendita del vino al minuto, l'aumento delle tariffe postali, il quattrino della carne, la tassa sull'importazione di pelli e cuoi. Fu poi incrementata la vendita degli uffici curiali. Il 26 ottobre 1587 il papa conferì il camerlengato al cardinale Enrico Caetani per 50.000 scudi e per la stessa somma affidò l'ufficio di tesoriere generale a Benedetto Giustiniani. L'ufficio di auditore generale della Camera fu dato per 60.000 scudi a Orazio Borghese. I chiericati di Camera, già ridotti a sette, furono riportati a dodici, al prezzo di 42.000 scudi ciascuno. L'ufficio di commissario generale della Camera apostolica fu acquistato da Goffredo Lomellini per 20.000 scudi. La tesoreria della Dataria apostolica nel 1585 fu assegnata a Girolamo Rustici per 34.000 scudi. Inoltre fu stabilito che chi era promosso ad una nuova dignità ecclesiastica perdesse automaticamente gli uffici e i titoli di prestito vacabili di cui era titolare, il che comportava un danno economico per l'interessato e un guadagno per l'erario. Anche le promozioni cardinalizie furono utilizzate come mezzi per rivendere frequentemente gli uffici più cari, seguendo una prassi già adottata da Leone X. Nel 1588 S. riconsiderò lo stato degli uffici della Cancelleria, eretti e venduti dai suoi predecessori, decidendo d'autorità di rescindere i contratti. I cancellieri accettarono di pagare 5.000 scudi l'anno per rimediare al danno lamentato dal papa, il quale utilizzò questa entrata per finanziare un prestito di 500.000 scudi, il Monte delle Cancellerie. Ugualmente furono stimolate le entrate della Dataria, il cui gettito si assestò attorno ai 200.000 scudi annui. Tuttavia le vendite, invece di causare beneficio all'erario, si trasformarono in un onere, in quanto le rendite spettanti agli ufficiali dovettero essere pagate aumentando le tasse. Un altro sistema escogitato da S. fu l'espansione del debito pubblico. Oltre a riformare ed incrementare l'antico Monte della Fede ed il Monte della Carne, il papa, seguendo una tendenza iniziata durante il pontificato di Clemente VII, creò numerosi Monti: nel 1585 il Monte della Pace, non vacabile; nel 1587 il Monte Sisto, vacabile, con un capitale di 500.000 scudi; il Monte Dataria, vacabile, che dava un reddito del 10%, era costituito da un capitale di 60.000 scudi, che nel 1589 furono portati a 90.000, ricavato dalle tasse della Dataria; il Monte Camerlengato, vacabile, finanziato con le rendite del Camerlengato, con un capitale iniziale di 65.366 scudi e un tasso annuale del 9%. Nel 1588 furono creati il Monte Archivio, vacabile, eccetto che per i primi cinque anni, con un capitale di 98.000 scudi e interesse pari al 10% annuo, pagato mediante gli introiti derivanti dall'appalto degli archivi; il Monte Orvieto, o delle chiane di Orvieto, non vacabile, con un capitale di 82.000 scudi e interesse del 6%; il Monte S. Bonaventura, vacabile, con capitale di 300.000 scudi, elevato a 400.000 nel gennaio del 1589 e interessi del 10% annuo; il Monte della Stampa, non vacabile, con un capitale di 20.000 scudi e un interesse del 6%. Nel 1589 furono istituiti il Monte del Registro, vacabile, con un capitale di 15.000 scudi e interesse del 10%, il Monte delle Cancellerie, vacabile, con capitale di 50.000 scudi ed interesse del 10%; il Monte dei Sensali, vacabile, con capitale di 40.000 scudi e interesse annuo del 10%; e infine, nel 1590, il Monte dei Baroni, non vacabile, con capitale di 245.000 scudi e interesse del 6,5%. S. permise inoltre che alcune famiglie, per risolvere i propri problemi finanziari, istituissero prestiti pubblici. Così nel 1587 furono creati il Monte Colonna, non vacabile, con capitale iniziale di 150.000 scudi al tasso annuo del 6%; il Monte Muti, non vacabile, con capitale di 40.000 scudi, presto portato a 50.000, e interesse del 5,75%, e nel 1589 il Monte Savelli, non vacabile, con capitale di 100.000 scudi e interesse del 6,5%. Il prestito pubblico fu acquistato soprattutto dai finanzieri genovesi, che rapidamente intaccarono il tradizionale predominio dei Fiorentini. La politica fiscale di S. suscitò le riserve dei contemporanei: se la vendita degli uffici e il prestito pubblico mettevano a disposizione denaro per la spesa corrente, esse aumentarono il debito da pagare sotto forma di interessi, mentre le somme immobilizzate in Castel S. Angelo avrebbero potuto essere impiegate per la modernizzazione e il rilancio dell'apparato produttivo. Per promuovere una corretta amministrazione finanziaria delle realtà locali e per migliorare il funzionamento di un fisco sempre più pesante, alle comunità dello Stato pontificio fu imposto il divieto di fare spese superflue, di cedere beni e rendite ai cittadini principali del luogo, recuperando invece quelli già ceduti. Nel settembre del 1587 S. incaricò cinque chierici della Camera apostolica di visitare le province dello Stato ecclesiastico, sotto la supervisione di una Congregazione temporanea composta dai cardinali Montalto ed Enrico Caetani, camerlengo, coadiuvati dal tesoriere generale, dal decano dei chierici di Camera e dal commissario di Camera. Ai visitatori spettava individuare i casi di abuso di potere da parte di magistrature e uffici locali e dei rappresentanti periferici, come pure controllare l'amministrazione delle comunità, la gestione delle entrate e delle uscite, in ordine alla possibilità di conoscere le risorse locali e sfruttarle nel modo più efficace. Le visite, terminate entro il mese di gennaio del 1588, verificarono la legittimità giuridica dell'imposizione fiscale da parte delle comunità, materia riservata al papa dalla bolla In coena Domini, cercarono di favorire il pagamento dei debiti senza accrescere le imposte, formularono proposte per migliorare la redditività dei beni pubblici, posero limiti agli sprechi e cercarono di allargare la base dei contribuenti eliminando esenzioni ed immunità. La materia divenne poco dopo competenza della neoeretta Congregazione degli Sgravi. Sulla scia dei suoi predecessori, S. emise una serie di provvedimenti per moralizzare la vita pubblica. Il 5 gennaio 1586 emanò una bolla diretta contro l'astrologia e la superstizione, cui seguirono numerosi provvedimenti contro alcuni giochi, la bestemmia, l'immoralità, le scommesse e le trasgressioni del riposo festivo. Il papa inflisse la pena di morte ai rei di adulterio, di immotivata separazione dei coniugi, di incesto e di aborto, di lenocinio, della diffusione di calunnie, che colpì in modo particolare gli scrittori di avvisi. Nonostante alcuni esempi di rigore a scopo dimostrativo, la giurisprudenza trovò spesso i mezzi per evitare l'applicazione della pena, soprattutto nei confronti delle adultere e delle meretrici. In ogni caso, durante il pontificato di S. furono eseguite a Roma trecentoundici condanne a morte, contro le duecentosessantasette del quinquennio precedente e le quattrocentosettantanove di quello successivo. Ulteriori provvedimenti furono presi nei confronti delle prostitute. Nel maggio del 1585 si proibì loro di risiedere nel Borgo e successivamente si cercò di confinarle nel quartiere degli Ortacci, situato a Campo Marzio tra l'arco di Portogallo e piazza del Popolo, presso il porto di Ripetta, come aveva già voluto fare Pio V. Il tentativo fallì e il papa dovette accontentarsi di proibire alle donne solo l'accesso alle strade principali della città, le uscite in carrozza e le uscite di casa dopo il tramonto. Il 28 gennaio 1586 fu pubblicato il Bando nel correre li palii, che regolamentava le celebrazioni del carnevale romano, nell'intento di prevenire atti di violenza. S. non si oppose alle feste, ritenendole un obbligo del principe ed una maniera di propiziarsi la benevolenza del popolo; piuttosto cercò di regolamentare e di istituzionalizzare le manifestazioni sociali e religiose allo scopo di mantenere l'ordine pubblico. Come alternativa al carnevale S., con la bolla Egregia populi Romani pietas del 13 febbraio 1586, propose il pellegrinaggio alle Sette Chiese, che tradizionalmente si svolgeva il giovedì grasso, sotto la guida dei padri dell'Oratorio. La bolla regolava lo svolgimento della processione e ne fissava le tappe e sostituì la chiesa di S. Sebastiano, troppo decentrata ed esposta agli attacchi dei briganti, con S. Maria del Popolo. Un caso particolare di regolamentazione furono i provvedimenti nei confronti degli ebrei. La bolla Christiana pietas del 22 ottobre 1586 abolì le disposizioni emanate da Pio V nel 1569 e consentì agli ebrei di stabilirsi in tutte le città dello Stato pontificio, permettendo loro di intraprendere nuovamente ogni genere di commercio, anche con i cristiani, aprire banche, sotto la sorveglianza della Camera apostolica, acquistare i titoli del debito pubblico. Potevano assumere lavoratori cristiani, ma non come domestici. Ebbero il permesso di riaprire le sinagoghe e di avere cimiteri propri. Le controversie tra di loro e con i cristiani erano giudicate dalla magistratura ordinaria; questa clausola abrogava la loro autonomia giurisdizionale. Tutti i maschi ebrei erano obbligati a presenziare al sermone sei volte l'anno. S. diede il permesso di stampare il Talmud, purgato secondo le disposizioni del concilio di Trento; ma poiché la censura si dimostrò eccessivamente rigida, la pubblicazione non ebbe luogo. Gli ebrei non erano obbligati a portare segni distintivi in viaggio e sui mercati, non potevano essere resi schiavi né battezzati a forza. Fu imposta loro la "cazaga", una tassa che dava diritto di residenza. I medici ebrei potevano curare pazienti cristiani. S. incoraggiò alcune imprese commerciali ebraiche: il 4 gennaio 1589 concesse agli ebrei di trattenere un interesse del 18% sui prestiti; il 15 luglio 1588 diede all'ebreo veneziano Magino di Gabriele il privilegio di fabbricare vetri e specchi particolarmente trasparenti mediante un procedimento da lui inventato; a lui e ad altri ebrei consentì di produrre la seta. Le concessioni in materia economica rientrano nel progetto di ampliare la base impositiva dello Stato e tra i provvedimenti più generali per evitare l'indebitamento dei poveri e per ovviare, nel caso specifico, al paradosso di dover sostenere la comunità ebraica con l'elemosina ecclesiastica. L'allargamento del ghetto, stabilito nel 1589 mediante l'inclusione del settore di via Fiumara, è indice della crescita della comunità, che durante il pontificato di S. arrivò a contare duecento famiglie, e si inserisce in una sostanziale continuità con la politica dei suoi predecessori tendente a perpetuarne l'isolamento. La crescita della popolazione produsse l'elevazione di molti edifici esistenti e l'aumento degli affitti, di cui beneficiò, tra altri, Camilla Peretti, sorella del pontefice, proprietaria di immobili situati nel ghetto, del quale Domenico Fontana costruì le mura e i nuovi cancelli. Dopo che Pio IV ebbe designato la zona di Monte Cavallo come area di espansione per la città, cominciarono a sorgere alcune ville signorili, la più importante delle quali fu la dimora papale del Quirinale, fatta iniziare da Gregorio XIII. Poiché la scarsità d'acqua poteva pregiudicare l'espansione, papa Boncompagni commissionò il progetto di un acquedotto a Matteo Bertolini di Città di Castello. Non appena eletto, S. ordinò l'inizio immediato dei lavori. Il progetto prevedeva il riutilizzo di un acquedotto risalente al tempo di Alessandro Severo. Il papa comprò dai Colonna la sorgente presso Pontano Borghese, a una ventina di chilometri da Roma, dove l'acquedotto iniziava, ed affidò la supervisione dei lavori ad una Congregazione presieduta dal cardinale Alessandro de' Medici. In seguito agli errori di progettazione di Bertolini, il papa lo licenziò e affidò la direzione dell'opera a Domenico Fontana, coadiuvato dal fratello maggiore Giovanni, tecnicamente più esperto. L'acquedotto, che fu chiamato Acqua Felice, fu completato nell'ottobre del 1589. Al punto d'arrivo, presso la via Pia, dove l'acqua veniva distribuita alla città, Domenico Fontana costruì una grandiosa fontana a tre archi con colonne di marmo sostenente un'iscrizione in onore di S., ornata di sculture e rilievi. S. concepì per Roma un programma di sviluppo urbano incentrato attorno alla basilica di S. Maria Maggiore, rispecchiato dalla nota stampa di G.F. Bordino. Costruì dapprima il rettifilo che congiungeva la basilica Liberiana con Trinità dei Monti sul Pincio, iniziato durante l'estate del 1585 ed aperto al traffico nell'autunno del 1586, detto via Felice. Dall'altro capo, la strada fu prolungata da S. Maria Maggiore fino a S. Croce in Gerusalemme. Una seconda strada fu aperta fino a S. Lorenzo fuori le Mura, come pure la terza, via Merulana, già progettata da Gregorio XIII per collegare S. Maria Maggiore con S. Giovanni in Laterano. Da S. Maria Maggiore fu costruita ancora una strada rettilinea fino alla colonna di Traiano, corrispondente all'attuale via Panisperna, che nell'ultimo tratto, nei pressi del Foro di Traiano, fu leggermente deviata. Fu costruita ancora una strada rettilinea dal Laterano al Colosseo e ne fu progettata un'altra che congiungesse il Colosseo con il Quirinale. S. cercò di incentivare lo sviluppo urbano di quell'area mediante facilitazioni fiscali e privilegi, ma con scarsi risultati. Altre strade furono costruite tra il Laterano e S. Paolo fuori le Mura e, nella direzione opposta, verso S. Croce in Gerusalemme, mentre una terza congiunse il Colosseo e il Circo Massimo per proseguire oltre, fino all'Aventino. Altre strade furono progettate per riorganizzare i quartieri densamente popolati attorno al Tevere, allo scopo di mettere in comunicazione le grandi basiliche e facilitare il pellegrinaggio. S. pose le premesse per lo sviluppo urbano di Roma al di fuori dei quartieri abitati accanto al Tevere: le strade realizzate all'interno delle mura aureliane indicarono le linee di sviluppo seguite nei tre secoli successivi. Connessa con il progetto di tracciare strade rettilinee vi è l'idea di erigere obelischi sormontati da croci in punti significativi della città. Il primo ad essere ricollocato, riprendendo un'idea di Niccolò V, fu l'obelisco egiziano ancora intatto che sorgeva accanto alla basilica vaticana. L'operazione venne affidata a Domenico Fontana, che il 10 settembre 1586 lo innalzò sul suo piedistallo al centro della piazza davanti alla basilica di S. Pietro; il 14, festa dell'esaltazione della Croce, fu consacrato. Negli anni successivi furono collocati gli altri obelischi, sempre scegliendo date significative per la loro inaugurazione: il 15 agosto 1587, festa dell'Assunzione, l'obelisco di fronte all'abside di S. Maria Maggiore; il 10 agosto 1588, festa di s. Lorenzo, l'obelisco presso S. Giovanni in Laterano; il 24 marzo 1589, vigilia dell'Annunciazione, l'obelisco al centro di piazza del Popolo. Nella stessa ottica di cristianizzazione delle antichità romane si situa la collocazione delle statue bronzee di s. Pietro e di s. Paolo sulla sommità delle colonne di Traiano e di Marco Aurelio, collocate rispettivamente il 28 settembre 1587 e il 27 ottobre 1588. Nel 1585, appena elevato al pontificato, S. concepì il progetto di ricostruire il Palazzo del Laterano, risultante da successive aggiunte medievali. Il complesso fu demolito e al suo posto Domenico Fontana costruì il grande palazzo, terminato nell'estate del 1589, i cui interni furono decorati da Cesare Nebbia, Baldassarre Croce e Paris Nogari. La scala principale del "Patriarchium", conosciuta dalla tradizione come Scala santa, fu collocata in un edificio apposito, terminato nel 1589, mentre sul lato settentrionale della basilica, sopra l'ingresso laterale, fu costruita la loggia delle benedizioni a cinque archi, inaugurata da S. nel 1588. Per dare una definitiva sistemazione alla Biblioteca Vaticana, collocata nel 1475 in locali umidi e poco luminosi, S. decise di realizzare un edificio apposito, la cui costruzione affidò a Domenico Fontana. La nuova fabbrica sorse sul sito occupato dai gradoni del teatro di Belvedere, congiungendo gli avancorpi dei corridoi est ed ovest e tagliando in due il cortile. Nel maggio 1587 iniziarono i lavori di demolizione e in poco più di un anno l'edificio era costruito. La sala Sistina della Biblioteca fu decorata con la stessa rapidità e fu pronta per il 1° maggio 1588. Il programma iconografico, opera di Federico Ranaldi, custode della Biblioteca, e del cardinale Silvio Antoniano, sottolinea due temi: l'esaltazione del libro attraverso i secoli e la glorificazione del pontificato di S., raffigurando le biblioteche dell'antichità, i concili ecumenici incaricati di mantenere il libro nella via della verità, le figure degli inventori delle lettere dell'alfabeto e la storia dei lavori edilizi, gloria del pontificato di Sisto V. Nell'edificio avrebbe dovuto trovare posto anche la Tipografia; essa, istituita il 27 aprile 1587, fu invece sistemata nella villa del Belvedere, in quanto il locale della nuova Biblioteca si rivelò insufficiente ad accogliere tutti i libri di quella vecchia. La direzione fu affidata a Domenico Basa. Il 22 gennaio 1588 la Tipografia passò sotto la competenza della Congregazione appositamente creata. Nel 1586 S. decise la costruzione di un nuovo palazzo, ancora oggi in uso, per la residenza dei papi in Vaticano e ne affidò la realizzazione a Domenico Fontana, che iniziò i lavori il 30 aprile 1589. Il papa volle un palazzo nuovo, amplissimo, salubre, di severo decoro. La facciata sul cortile di S. Damaso è costituita dal terzo braccio delle logge, cominciato da Martino Longhi e da Ottaviano Mascherino e portato a termine dal Fontana con struttura identica a quella degli altri due. I lavori procedettero rapidamente e al momento della morte del papa l'essenziale era fatto: secondo Fontana, mancavano solo il solaio e il tetto. Poiché la villa Montalto era troppo piccola, S. concepì il progetto di adibire a residenza estiva del pontefice la villa fatta costruire da Gregorio XIII a Monte Cavallo, sul colle Quirinale. Nel 1587 comprò dalla famiglia Carafa il casino esistente, costruito da Ottaviano Mascherino, e ne affidò l'ampliamento al suo architetto di fiducia Domenico Fontana che, a partire dal 1589, prolungò l'ala ovest, già iniziata dal Mascherino. Pur non avendone visto il completamento, il papa vi soggiornò ripetutamente. Il nome di S. è particolarmente legato alla basilica di S. Maria Maggiore nella quale, nel 1573, aveva fatto costruire su disegno di Domenico Fontana un monumento funebre per il papa francescano Niccolò IV, il cui sepolcro era venuto alla luce durante lavori effettuati l'anno precedente. Nel 1581 il cardinale Peretti chiese ai canonici di S. Maria Maggiore di costruire la sua cappella gentilizia nell'oratorio del Presepe. Per le resistenze del Capitolo i lavori poterono iniziare solo nel 1585, tre mesi dopo l'elezione pontificia di Sisto V. Il progetto, concepito da Domenico Fontana, prevedeva l'apertura di un grande vano quadrangolare che avrebbe ospitato la cappella del Presepe, smontata e ricostruita. Le pareti furono decorate da marmi preziosi provenienti dal Palazzo Apostolico e da edifici dell'epoca romana. Al 1586 risale la decisione di far erigere i monumenti funebri di Pio V e di S., che furono progettati da Domenico Fontana. Nel frattempo, sotto la direzione di Giacomo della Porta, proseguivano i lavori della basilica di S. Pietro. Della Porta condusse a termine la costruzione dell'abside secondo il disegno di Michelangelo e nel dicembre del 1588 cominciò la costruzione della cupola, la cui ultima pietra fu collocata il 14 maggio 1590. Mancava solo la lanterna. Altre chiese durante il pontificato di S. furono oggetto di trasformazioni più o meno profonde: tra esse vanno ricordate S. Girolamo degli Illirici, antico titolo del cardinale Peretti, che fu ricostruita dalle fondamenta, e S. Paolo fuori le Mura, inclusa nell'itinerario delle Sette Chiese. Il rinnovamento urbano ed architettonico di Roma avvenne anche a spese delle antichità romane, quali il "Septizonium", mentre non mancarono di suscitare polemiche l'idea di distruggere la tomba di Cecilia Metella o il progetto di trasformare il Colosseo in officine e abitazioni. Nell'ambito delle relazioni internazionali, la situazione francese assorbì quasi completamente le energie di Sisto V. Il re Enrico III aveva visto nel precedente pontefice un alleato della Lega cattolica, che minacciava la sua posizione. S. invece desiderava un equilibrio tra le Corone di Francia e di Spagna che non si sarebbe realizzato con un governo francese troppo vicino a Filippo II; d'altra parte non poteva approvare l'alleanza tra Enrico III ed Enrico di Navarra. La soluzione ideale sarebbe stata la conversione al cattolicesimo del Navarra il quale, nel 1585, era considerato eretico e relapso, incapace di succedere al trono di Francia. S. si trovava di fronte ad un re legittimo, la cui popolarità era in diminuzione, indeciso di fronte alla scelta dinastica e agli interessi religiosi del Regno, mentre la Lega, animata dalla casa di Lorena e sostenuta dal re Cattolico, controllava la metà del paese e si mostrava decisa ad imporre al re l'esclusione dell'erede protestante e la messa al bando degli ugonotti. Di fronte alle posizioni inconciliabili, S. si presentò come mediatore. Nel mese di giugno del 1585 inviò a Parigi come nunzio ordinario Fabio Mirto Frangipani, arcivescovo di Nazareth. Alla decisione cercò di opporsi l'ambasciatore francese a Roma, appoggiato dal cardinale d'Este, in quanto il nunzio designato, nato nel Regno di Napoli, era suddito del re Cattolico. Enrico III chiese al papa di revocare la nomina di Frangipani e gli fece interrompere il viaggio a Lione. Il 7 luglio concluse con i Guisa il trattato di Nemours, con il quale accoglieva tutte le loro richieste, promettendo di revocare gli editti di pacificazione accordati ai protestanti e di bandire gli ugonotti dal Regno. Successivamente il re chiese a S. di richiamare Frangipani e di lasciare a Parigi il nunzio precedente, Girolamo Ragazzoni. Per ritorsione, il papa espulse l'ambasciatore francese e pose come condizione per riammetterlo che Frangipani fosse ricevuto dal re di Francia. Poiché la responsabilità dell'accaduto fu attribuita all'ambasciatore Jean de Vivonne, la corte francese seppe pazientare, non essendo il re chiamato direttamente in causa; inoltre in quel periodo era attesa una forte sovvenzione del clero, per la quale era necessario il consenso pontificio. Negli stessi giorni S. pose fine al processo contro Enrico di Navarra, già iniziato nel corso del pontificato precedente. Il 27 giugno, durante una seduta solenne dell'Inquisizione, il papa, in quanto eretico e relapso, lo dichiarò decaduto dalla sovranità di Navarra e del Béarn e inabile a succedere ad ogni genere di principato, in particolare al Regno di Francia e ai domini annessi. La sentenza fu resa pubblica il 9 settembre e la relativa bolla, nella forma solenne della lettera concistoriale, firmata dal papa e dai cardinali, fu pubblicata il giorno seguente, nonostante le perplessità di quanti vi vedevano un cedimento alle pressioni spagnole. Se il provvedimento, ancorché non gradito alla corte di Francia, non suscitò proteste ufficiali da parte del re, fu male accolto tanto da Enrico di Navarra quanto dai cattolici sostenitori del suo diritto alla successione, che lo interpretarono come un appoggio ai loro avversari. Come gesto di buona volontà, S. venne incontro alle necessità finanziarie della corte francese causate dalla guerra contro gli ugonotti, riaccesasi in seguito al trattato di Nemours del 7 luglio 1585. Per poterne sostenere le spese Enrico III si rivolse al clero, che si riunì in assemblea a partire dall'inizio di settembre del 1585. Mentre il re voleva 2.400.000 scudi, l'assemblea ne concesse metà. Allo scopo di regolare il contenzioso con Roma, che includeva la questione dell'ambasciatore, il problema di Enrico di Navarra e l'approvazione pontificia al contributo del clero, Enrico III inviò al papa come ambasciatore Pierre de Gondi, vescovo di Parigi, che arrivò a destinazione il 13 dicembre. S. ribadì il suo rifiuto di riammettere l'ambasciatore francese prima che Frangipani fosse ricevuto a Parigi, non entrò in merito al provvedimento contro Enrico di Navarra e diede il suo benestare affinché il clero concedesse al re l'intera somma da lui richiesta. Nei primi mesi del 1586 S., in concomitanza con l'assemblea del clero, sollecitò dal re la pubblicazione in Francia del concilio di Trento, ma non poté ottenere nient'altro che una dichiarazione secondo la quale il dogma era già stato ricevuto da tutti i cattolici, che ogni vescovo poteva applicare nella sua diocesi i decreti disciplinari e che i concili provinciali potevano inserirli nei loro canoni; era invece necessario procedere ad un attento esame circa la loro relazione con i privilegi del Regno ed attendere la fine della guerra. I complessi negoziati terminarono quando Enrico III si dichiarò pronto a ricevere Frangipani e il papa permise la riammissione di Vivonne, dopo che l'11 settembre 1586 ebbe ricevuto da Francesco di Lussemburgo, duca di Piney, l'obbedienza a nome del re. S. seguì con apprensione i contrasti tra Enrico III e la Lega: l'occupazione di Parigi da parte dei leghisti nel marzo del 1588, la promulgazione dell'editto di Rouen il 19 luglio dello stesso anno, con il quale il re si impegnava a reprimere gli ugonotti e a promulgare il concilio di Trento, mentre riconosceva che solo un cattolico poteva sedere sul trono di Francia, ed infine negli ultimi giorni di dicembre l'uccisione di Enrico di Guisa e del cardinale Carlo suo fratello e l'arresto dei capi leghisti. Il papa resistette alle pressioni spagnole che minacciavano un intervento militare qualora Enrico III si fosse riavvicinato ad Enrico di Navarra, ma protestò per l'uccisione del cardinale di Guisa. Enrico III tentò la riconciliazione con il pontefice mediante l'invio del vescovo di Le Mans, Claude d'Angennes, che giunse a Roma il 26 febbraio 1589. S. si dichiarò disposto a concedere al re l'assoluzione solo qualora avesse liberato dal carcere il cardinale Carlo di Borbone e l'arcivescovo di Lione Pierre d'Épinac, sostenendo al tempo stesso per i leghisti la necessità di sottomettersi al re legittimo. Il timore di un eccessivo aumento del potere degli Spagnoli in Italia e in Europa lo confermò nella sua posizione di attesa anche in seguito all'accordo di Plessis-les-Tours del 30 aprile 1589 tra il re ed Enrico di Navarra, che unirono i rispettivi eserciti contro la Lega. Tuttavia non poté sottrarsi del tutto alle pressioni degli Spagnoli e del partito dei Guisa e il 24 maggio pubblicò un monitorio in cui ingiungeva al re di Francia, sotto pena di scomunica, di liberare entro dieci giorni il cardinale di Borbone e l'arcivescovo di Lione ed entro sessanta giorni di comparire a Roma, personalmente o per procura, per ricevere l'assoluzione. Il documento non conteneva nessun accenno all'alleanza con il re di Navarra, ma si limitava a riprovare l'uccisione e la prigionia degli ecclesiastici. Senonché Enrico III fu assassinato il 1° agosto 1589 e al suo posto fu proclamato re il cardinale Carlo di Borbone con il nome di Carlo X, pur essendo prigioniero di Enrico di Navarra. A questo punto si definirono due partiti: la Lega, che riconosceva in Carlo X il re legittimo, ed Enrico di Navarra, sostenuto dal suo esercito e da un numero crescente di cattolici che non approvavano la politica filospagnola della Lega e sostenevano la legittimità della successione di Enrico. Per favorire l'elezione di un sovrano cattolico e la pacificazione del Regno, il 25 settembre S. nominò come legato "de latere" il cardinale Enrico Caetani, che partì per la Francia il 2 ottobre; egli, trascurando le istruzioni ricevute, appoggiò apertamente il partito leghista. Nel gennaio del 1590 il papa ricevette Francesco di Lussemburgo, inviato di Enrico di Navarra, con la richiesta di permettere ai suoi seguaci cattolici di restargli fedeli senza incorrere nelle pene ecclesiastiche e prospettando la possibilità di convertirsi al cattolicesimo. S. resistette alle pressioni della Spagna per coinvolgerlo in un'alleanza antifrancese e affinché scomunicasse i sostenitori cattolici di Enrico, nonostante la minaccia di scisma avanzata da Filippo II, cui rispose a sua volta con una minaccia di scomunica. La resistenza opposta alle insistenze spagnole, favorita dall'avanzata militare di Enrico, preparò il riavvicinamento di questi al cattolicesimo. Nei confronti della Spagna S. mantenne un atteggiamento di attesa. Sapeva di non essere stato il candidato di Filippo II, ma doveva tenere conto della presenza spagnola in Italia, che condizionava la libertà di movimento del pontefice, come pure del fatto che la Spagna era l'unico paese in grado di garantire appoggio per un recupero del cattolicesimo. Come segno di buona volontà il 2 maggio 1585 il papa confermò per altri cinque anni il sussidio, che corrispondeva a 420.000 ducati, mentre il 17 ottobre 1585 confermò l'"excusado" per cinque anni e la "cruzada" per sei. Inoltre nel Concistoro del 28 aprile 1586 concesse a Filippo II e a suo figlio il diritto di presentazione per la Sicilia e la Sardegna ed unì il titolo di gran maestro dei Cavalieri di Montesa alla Corona di Aragona. Per evitare ulteriori frizioni, soppresse la Congregazione per le questioni di giurisdizione istituita da Gregorio XIII. Al di là dei consueti problemi di giurisdizione, tanto nella penisola iberica quanto nel Milanese e nel Napoletano, ebbe grande risonanza il conflitto causato dalla "Prammatica dei titoli", pubblicata da Filippo II nell'ottobre del 1586, da applicarsi a partire dal 1° gennaio successivo, che sollevò rimostranze all'interno del corpo diplomatico di Madrid. Nel Concistoro del 27 luglio 1587 il papa protestò perché il re di Spagna col suo provvedimento si era arrogato la giurisdizione sui cardinali e sui prelati e, nonostante le proteste, rifiutava di cambiare le sue disposizioni, e proibì ai porporati, sotto pena di scomunica riservata al pontefice, di ricevere lettere dalla Spagna prive dei dovuti titoli. La politica di S. nei riguardi della Spagna si intersecò anche con quella inglese. Risale al 18 febbraio 1587 l'esecuzione di Maria Stuart, che pose fine alle residue speranze di un ritorno dell'Inghilterra al cattolicesimo. Il papa incoraggiò il piano presentato dai Guisa nel 1585 per l'invasione dell'Inghilterra, non appoggiato della Spagna, che sosteneva la necessità di normalizzare prima la situazione francese. S., pur apprezzando Elisabetta, vedeva nel suo governo il principale appoggio al protestantesimo europeo ed espresse più volte il desiderio di vederla convertita al cattolicesimo. S. incoraggiò il progetto di invasione dell'Inghilterra promosso da Filippo II, nonostante le incognite che poteva presentare per l'equilibrio europeo. Il 29 luglio 1587 strinse con il re di Spagna un accordo in forza del quale prometteva 1.000.000 di scudi, pagabili dopo la partenza delle truppe spagnole per l'Inghilterra, a condizione che la flotta partisse ancora durante il 1587 e che il futuro re d'Inghilterra fosse una persona gradita alla Sede apostolica e si adoperasse per il ripristino e il mantenimento della fede cattolica. Per significare il suo avvicinamento alla corte spagnola, il 7 agosto 1587 elevò l'inglese William Allen al cardinalato; tuttavia non si entusiasmò per la sfortunata spedizione del 1588. La situazione dell'Impero rimase al margine degli interessi di S., assorbito dalle cose di Francia. Sostenne l'elettore Ernesto di Baviera, da poco tempo entrato in possesso della diocesi di Colonia, intervenendo in suo favore presso Filippo II e Alessandro Farnese quando i sostenitori del suo predecessore Gerhard von Truchsess, costretto alla rinuncia per essere passato al protestantesimo, il 9 maggio 1585 occuparono la città di Neuss. Inizialmente il papa sembrava intenzionato ad inviare un nunzio straordinario in Germania per indurre i principi cattolici ad aiutare l'elettore di Colonia a riconquistare la città, tuttavia dovette desistere in seguito all'opposizione di Guglielmo V di Baviera, che temeva le reazioni dei protestanti. Nel gennaio 1586, in sostituzione di Germanico Malaspina, fu inviato come nunzio ordinario alla corte imperiale Filippo Sega, con il compito di promuovere la religione cattolica ed indurre Rodolfo II a liquidare definitivamente la questione di Colonia. Sega non riuscì gradito alla corte imperiale e aggravò la sua situazione quando volle pubblicare la bolla In coena Domini senza consultare l'imperatore. Le relazioni divennero ancor più tese quando, alla fine dell'estate del 1586, giunse a Roma l'ambasciata imperiale inviata a prestare obbedienza al pontefice. Questi lamentò la debolezza dell'imperatore nei confronti dei protestanti e chiese che ai principi ecclesiastici non fossero concesse le regalie prima che ricevessero la conferma pontificia. Ricordò poi l'annosa questione del feudo imperiale del conte Landi in Val di Taro, occupato dal duca di Parma, e rifiutò di concedere sussidi per la guerra contro i Turchi. Ciò complicò l'azione di Sega, che trovò scarso appoggio presso l'imperatore quando, nel 1587, si trattò di salvare le diocesi di Lubecca, Verden, Halberstadt e Minden dalla secolarizzazione. Sega fu sostituito da Antonio Puteo, che giunse a Praga a metà maggio del 1587. Il risultato più importante da lui ottenuto fu che l'imperatore provvedesse alle diocesi della Corona ungherese, ma non riuscì ad ottenere l'abolizione dell'uso che prevedeva l'investitura regia prima della conferma pontificia. Poco sensibile si mostrò S. nei confronti della situazione creatasi a Strasburgo nel 1583 in seguito alla doppia elezione episcopale di Giovanni Giorgio di Brandeburgo e Carlo di Lorena. Al contrario del suo predecessore, S. prestò poca attenzione all'opera della Congregazione Germanica, che durante il suo pontificato cessò quasi di funzionare, poiché le sue competenze furono ricondotte agli organismi preposti alla riforma di tutta la Chiesa. Il tentativo di avvicinare i vescovi alla Sede romana mediante il ripristino della visita "ad limina", caduta in disuso durante la prima metà del secolo, non andò a segno, poiché essi mandarono solo procuratori; d'altra parte il rapporto dell'episcopato tedesco con Roma rimase sempre mediato, anche per la scarsa presenza di cardinali tedeschi presso la Curia. Poco influsso ebbe S. sulla situazione austriaca, dove la debolezza dell'arciduca Carlo lasciò ampio spazio agli Stati protestanti. Il nunzio Giovanni Andrea Caligari, nominato da Gregorio XIII nell'ottobre del 1584, si occupò soprattutto della riforma ecclesiastica e riuscì a far nominare alle diocesi di Seckau e Lavant rispettivamente Martin Brenner e Georg Stobäus, che si sarebbero adoperati per il ristabilimento del cattolicesimo nell'Austria interna. Il 7 gennaio 1588 S. eresse l'Università di Graz, creata dall'arciduca Carlo ed affidata ai Gesuiti. In seguito le relazioni tra Roma e Graz si complicarono a causa del rifiuto di S. di erigere la diocesi di Gorizia e di concedere sussidi per la guerra contro il Turco. Caligari fece ritorno a Roma a metà del 1587 e divenne segretario del cardinale Montalto, mentre la Nunziatura rimase vacante fino al 1592. A Colonia operava il nunzio Giovanni Francesco Bonomi, che nel maggio del 1585 ottenne l'aiuto di Alessandro Farnese per la riconquista di Neuss. Dal 3 al 5 ottobre 1585 tenne un sinodo diocesano a Liegi, durante il quale promulgò i decreti tridentini. Lo stesso avvenne nell'ottobre del 1586 a Mons per la diocesi di Cambrai. Bonomi morì il 25 febbraio 1587 mentre si preparava a convocare il sinodo per la diocesi di Treviri. Fu sostituito da Ottavio Mirto Frangipani, che giunse a Colonia nell'agosto del 1587 ed iniziò una difficile collaborazione con l'elettore Ernesto di Baviera, poco incline alle questioni ecclesiastiche. Circostanze politiche ed ecclesiastiche, soprattutto l'assenteismo del vescovo di Costanza Mark Sittich von Hohenems, consigliarono l'apertura di una Nunziatura stabile in Svizzera, richiesta dai cinque Cantoni interni nella Dieta del 26 febbraio 1586. Il compito del nunzio Giovanni Battista Santonio consisteva nel mantenere e rafforzare gli Svizzeri cattolici nella loro fede, senza occuparsi di problemi militari, quali il reclutamento di truppe per lo Stato pontificio. Santonio fu accreditato presso i sette Cantoni cattolici più Appenzell; non aveva poteri rispetto ai Cantoni protestanti, e neppure per la Confederazione nel suo complesso. Nei riguardi dei quattro Cantoni cattolici appartenenti alla diocesi di Costanza, Lucerna, Uri, Schwyz e Unterwalden doveva svolgere funzioni episcopali, poteva esaminare le cause di appello in seconda istanza e dispensare dagli impedimenti per il matrimonio; non aveva giurisdizione sui territori delle diocesi di Costanza e di Basilea non appartenenti alla Confederazione elvetica. Santonio giunse in Svizzera all'inizio di settembre del 1586. Dopo circa un anno di attività, dedicata in larga parte alla riforma della chiesa locale, ebbe gravi scontri con il Consiglio di Lucerna in questioni legate all'assegnazione e conferma dei benefici ecclesiastici, all'amministrazione della giustizia e all'imposizione di tasse al clero, per cui gli Svizzeri ne chiesero al papa il richiamo. Il 19 settembre 1587 S. inviò in Svizzera Ottavio Paravicini il quale, con l'aiuto di Gesuiti e Cappuccini, proseguì l'opera di riforma del suo predecessore. Consigliò a Roma di erigere in diocesi autonoma o quanto meno in vicariato apostolico il territorio svizzero sottoposto alla diocesi di Costanza e pose le basi per l'elezione di Andrea d'Austria, favorevole alla riforma ecclesiastica, alla sede di Costanza. Sul fronte orientale S. intrattenne buoni rapporti con il re di Polonia. A fine marzo del 1586 Stefano Báthory inviò a Roma il cardinale Andrea suo fratello a presentare al papa il progetto di una spedizione contro Costantinopoli per la definitiva sconfitta dei Turchi, che comprendeva la conquista di Mosca, approfittando dei disordini verificatisi in Russia dopo la morte di Ivan IV. Anche il gesuita Antonio Possevino, dopo aver inviato informazioni, si recò personalmente a Roma. S. lo rimandò in Polonia assieme al nunzio Annibale di Capua; tuttavia la notizia della morte del re di Polonia, avvenuta il 12 dicembre 1586, raggiunse i due inviati durante il viaggio. Il 7 gennaio 1587 il papa costituì una commissione cardinalizia per trattare gli affari di Polonia, composta dai cardinali Alessandro Farnese, Vincenzo Laureo, Giorgio Radziwil´l´ e Decio Azzolini, la quale suggerì di mantenere una posizione neutrale, anche se la Curia non nascose le sue simpatie per la candidatura asburgica, nel timore di influssi protestanti sulla Polonia in seguito ad una sua possibile unione con la Svezia. Tuttavia nel marzo del 1587 il partito spagnolo della Curia era riuscito ad attirare dalla sua parte S., che ingiunse al nunzio Annibale di Capua di favorire l'arciduca austriaco che avesse maggiore seguito tra i Polacchi. S. puntò sull'arciduca Ernesto, al quale per mezzo del suo maestro di camera Lelio Orsini inviò il berretto e la spada benedetta, mentre ordinò al nunzio a Praga Antonio Puteo di sollecitare gli Asburgo alla designazione di un candidato. Nell'agosto del 1587 avvenne la doppia elezione di Sigismondo di Svezia e Massimiliano d'Austria, che si risolse con uno scontro armato il 23 novembre, quando Massimiliano fu sconfitto e preso prigioniero, consentendo a Sigismondo di ricevere la corona il 27 dicembre 1587. S. si congratulò con il nuovo re di Polonia solo il 7 maggio 1588. Dati i problemi provocati dal nunzio, che rifiutava di avere rapporti con il nuovo re, e per trattare la liberazione dell'arciduca Massimiliano, fu mandato come legato "de latere" il cardinale Ippolito Aldobrandini, futuro Clemente VIII, nominato il 23 maggio 1588. I lunghi negoziati furono conclusi il 9 marzo 1589 dal trattato di B¸ezyn, con il quale Massimiliano rinunciò alla Corona di Polonia in cambio della libertà. Sigismondo inviò a Roma un'ambasceria, capeggiata da Bernardo Maciejowski, che il 7 luglio 1590 prestò ubbidienza al papa in suo nome. S. incoraggiò i progetti di Carlo Emanuele di Savoia nell'ambito della sua politica mirante all'ingrandimento dello Stato, che aveva come obiettivo la conquista di Ginevra, e già nel maggio del 1585 si dichiarò disposto a collaborarvi, inviando al duca di Savoia 25.000 scudi e invitandolo a realizzare l'impresa prima dell'agosto del 1586. L'attacco, cui Filippo II assicurò in teoria uomini e mezzi, fu pianificato fin nei minimi particolari tra il 1586 e il 1587, ma non andò in porto a causa dell'opposizione delle corti europee, prima fra tutte di quella francese, interessata ad assicurarsi per il futuro il reclutamento di mercenari elvetici. Carlo Emanuele il 29 settembre 1588 invase il Marchesato di Saluzzo, posto sotto la sovranità francese, dichiarando di voler scongiurare le temute incursioni degli ugonotti dal Delfinato e di voler governare il Marchesato in nome del re di Francia. All'inizio del 1589, quando il duca rispolverò i progetti per l'occupazione di Ginevra, il papa, occupato dalle cose francesi, ritenne l'azione inopportuna e mantenne un atteggiamento incerto; se nel mese di giugno gli promise 100.000 scudi qualora avesse preso Ginevra entro l'anno, non mancò di raccomandargli la prudenza di fronte al pericolo al quale si esponeva. Infine nel marzo del 1590 il pontefice risollevò la questione di Ginevra per distogliere il duca di Savoia dai suoi piani sulla Provenza, che il quel momento avrebbero turbato la sua politica francese. Mentre stava pubblicando le opere di s. Ambrogio, il futuro S. aveva constatato la necessità di far preparare una buona edizione del testo greco della Bibbia, detto dei Settanta, dal quale Ambrogio traduceva in latino le sue citazioni della Scrittura. L'iniziativa incontrò l'approvazione di Gregorio XIII il quale, dietro consiglio del cardinale Guglielmo Sirleto, nominò una commissione, posta sotto la presidenza del cardinale Antonio Carafa, bibliotecario di Santa Romana Chiesa. Appena elevato al pontificato, S. affrettò i lavori, nominando alla commissione Pierre Morin, Antonio Agellio, Pedro Chacón e Fulvio Orsini. L'edizione fu portata a termine nel 1586, S. l'8 ottobre ne firmò il decreto di approvazione ed essa fu pubblicata a Roma da Zanetti nel 1587. Nel 1588 si pubblicò la versione latina dei Settanta, opera di Flaminio de Nobili, coadiuvato da Antonio Agellio. S. riprese il progetto di revisione della Vulgata, ordinata dal concilio di Trento l'8 aprile 1546, intrapreso da Pio V nel 1569 ma interrotto alla sua morte nel 1572. Il papa istituì una commissione, presieduta dal cardinale Antonio Carafa, che aveva dato buona prova di sé nel preparare l'edizione dei Settanta, coadiuvato da Flaminio de Nobili, Antonio Agellio, Lelio Lando, Bartolomé Valverde e Pierre Morin. Roberto Bellarmino espresse il suo parere circa il metodo da seguire, ma non intervenne nei lavori. La prima seduta si tenne il 28 novembre 1586. Come base dell'edizione fu assunta la Bibbia di Lovanio-Anversa, stampata da Plantin nel 1583, apportandovi correzioni basate sulla testimonianza di antichi manoscritti e, nei casi dubbi, sul testo ebraico. Dopo due anni di lavoro, nel novembre del 1588 i risultati furono presentati a S., che si dichiarò insoddisfatto e decise di procedere da solo. Con l'aiuto di alcuni religiosi, tra i quali il gesuita Francisco de Toledo, predicatore pontificio, e l'agostiniano Angelo Rocca, correttore della Biblioteca e della Tipografia Vaticana, si mise al lavoro, affidandosi alla sua sensibilità di umanista per correggere ed emendare il testo. Il 3 giugno 1589 era giunto all'Apocalisse. Nel frattempo, S. preparò la bolla Aeternus ille, datata al 1° marzo 1590, destinata a introdurre nella Chiesa la nuova edizione della Vulgata, che veniva presentata come il testo autentico di s. Girolamo, un testo che non poteva più essere toccato e che avrebbe dovuto permettere di correggere le edizioni precedenti. La bolla indicava principi equilibrati ai futuri editori, che però non furono seguiti dal papa. Si discute tra gli studiosi se essa, ancorché stampata, sia stata effettivamente pubblicata. La Bibbia di S. fu stampata il 2 maggio 1590 e suscitò numerose critiche, anche da parte dei collaboratori del papa, a motivo delle scelte testuali infelici, cui si aggiungevano numerosi errori di stampa. Alcuni versetti o gruppi di parole non apparivano più nel testo, senza che se ne conoscesse la ragione. S. si rese conto del problema e, con i suoi collaboratori, cercò di correggere gli sbagli più evidenti. Per le parole singole furono incollati pezzi di carta con sovrascritta la lezione corretta. Tuttavia ciò non risolveva il problema e sembra che il pontefice durante l'estate fosse giunto alla conclusione che era necessaria una nuova edizione, che la morte gli impedì di realizzare. S. proseguì l'applicazione della riforma tridentina nella città di Roma. A questo scopo il 29 luglio 1585 incaricò Filippo Sega, vescovo di Piacenza, e Giulio Ottinelli, vescovo di Castro, di visitare le chiese e i collegi di Roma, mentre chiamò Cesare Speciano, vescovo di Novara, a partecipare alle consultazioni preparatorie. Quando, nella primavera dell'anno seguente, Filippo Sega fu inviato come nunzio all'imperatore, la visita fu continuata da una commissione composta di sei membri e si concluse nel novembre del 1587. Furono adottati provvedimenti anche per i religiosi, in particolare per introdurre o rafforzare l'osservanza della clausura nei monasteri femminili. Riguardo ai regolari, il 17 maggio 1586, con il breve Romanus pontifex, S. diede stabile organizzazione all'organismo istituito da Gregorio XIII per la risoluzione delle controversie insorgenti tra i vari Ordini religiosi; con un breve del 13 giugno 1587 ne potenziò le attribuzioni, affidandogli l'esame delle vertenze insorte tra religiosi e vescovi, soprattutto in materia di privilegi, la cui composizione era però riservata al papa. Con la riforma del 1588 le competenze dell'organismo passarono alla Congregazione dei Regolari. Il 18 marzo 1586 S. approvò la Congregazione per l'assistenza degli infermi, i cui membri, riuniti un paio di anni prima da Camillo de Lellis, erano dediti alla cura dei malati a domicilio e all'assistenza dei moribondi, per cui erano chiamati "padri della buona morte". Essi furono riconosciuti come associazione di vita comune senza voti ed ebbero licenza di raccogliere elemosine in Roma e di ascoltare le confessioni dei malati negli ospedali, previa approvazione del cardinale vicario. Nel 1586 S. ordinò la visita ai Benedettini Silvestrini, il cui priore generale risiedeva a Fabriano, e ne affidò la riforma al cardinale Giacomo Savelli, loro protettore. Il 29 marzo 1586 restituì al Terz'Ordine di S. Francesco il ministro generale, dopo che Pio V lo aveva sottoposto ai Frati Minori Osservanti. Il 5 maggio 1586 approvò i Foglianti, una delle diramazioni più importanti e severe dei Cistercensi, permettendo loro di espandersi anche fuori della Francia, dove erano sorti, ed assegnò loro un convento a Roma presso S. Pudenziana. Il 1° ottobre 1586 riconobbe come Ordine religioso propriamente detto gli Ospedalieri fondati da Giovanni di Dio, chiamati popolarmente Fatebenefratelli; confermò il loro uso di emettere i tre voti religiosi comuni più quello di ospitalità e diede loro licenza di riunirsi in Capitolo per eleggere il superiore generale e redigere le costituzioni. Il 19 aprile 1587 ottennero l'approvazione pontificia gli Agostiniani Scalzi, sviluppatisi da un ramo degli Eremiti di Centorbi, nei pressi di Catania. Il 10 luglio 1587 fu eretta in Congregazione la provincia dei Carmelitani Scalzi, fondati in Spagna da Teresa di Gesù nel 1562 e 1568. Il 1° luglio 1588 furono approvati i Chierici Regolari Minori, detti Caracciolini, che ottennero il permesso di emettere, oltre ai tre voti comuni, il voto "de non ambiendo". Nel 1588 il papa ordinò ai Teatini di eleggere un preposito generale a vita, con residenza a Roma, mentre in precedenza l'autorità risiedeva nel Capitolo generale annuale e l'amministrazione ordinaria era devoluta per i casi imprescindibili al preposito della casa dove si era tenuto l'ultimo Capitolo. S. favorì i Conventuali Riformati, da lui approvati il 15 ottobre 1587, stabilitisi in Italia dopo essere stati soppressi in Spagna nel 1562; ad essi unì la riforma dei Francescani Scalzi promossa da Giovanni Battista Lucarelli di Pesaro, suo antico alunno. Nell'ambito del sostegno offerto ai Francescani va annoverata la fondazione del collegio di S. Bonaventura a Roma presso il convento dei SS. Apostoli, avvenuta il 18 dicembre 1587. Il 14 marzo 1588 s. Bonaventura fu dichiarato dottore della Chiesa e il papa affidò alla Tipografia Vaticana il compito di stamparne le opere. Se S. in generale favorì i religiosi, ebbe invece un rapporto conflittuale con i Gesuiti, che presentavano interessanti particolarità rispetto alle forme di vita religiosa tradizionale, soprattutto riguardo alla natura e al valore dei voti religiosi. Pur essendo già state superate le difficoltà teoriche mediante la bolla di Gregorio XIII Ascendente Domino del 25 maggio 1584, che riconosceva come veri voti religiosi i voti semplici dei Gesuiti, le polemiche continuarono. Importante per i suoi coinvolgimenti fu il tentativo di costituire un vicariato spagnolo della Compagnia con sede a Madrid, di cui si parlava già dal 1577, sostenuto da Filippo II e alimentato da un certo numero di gesuiti che ritenevano eccessivamente rigide alcune prescrizioni e consuetudini del proprio Ordine religioso e nutrivano scarsa fiducia nelle capacità direttive degli organismi romani. Nel 1586 intervenne l'Inquisizione spagnola, incarcerando alcuni Gesuiti e dando origine ad un conflitto con la Santa Sede. L'Inquisizione sequestrò ai Gesuiti i documenti attestanti i privilegi pontifici di cui erano in possesso e gli stessi regolamenti interni, restituiti in seguito al ricorso al pontefice da parte del generale Claudio Aquaviva. Filippo II il 21 marzo 1587 incaricò il conte di Olivares, suo ambasciatore a Roma, di iniziare trattative con S., che concesse, pur non nominando i Gesuiti, la facoltà generale di far visitare gli Ordini religiosi in tutta la Spagna, riservando al nunzio, ritenuto amico della Compagnia, la scelta dei visitatori. Tuttavia il re ottenne dal papa la nomina per Jerónimo Manrique, vescovo di Cartagena, che ricevette l'incarico il 9 giugno 1588; suo compito era indagare per quali ragioni i Gesuiti non si uniformavano in talune consuetudini, quali l'abito, il coro, i voti, alle usanze tradizionali degli altri Ordini. Ma un nuovo intervento di Aquaviva presso il papa riuscì a sottrarre la commissione a Manrique e a farla affidare all'inizio del 1589, con il beneplacito di Filippo II, ad un gruppo di gesuiti, tra cui José de Acosta, per lunghi anni provinciale del Perù. Queste vicissitudini influirono sulla decisione di S., notificata il 10 novembre 1588, di far esaminare le costituzioni dei Gesuiti da due teologi scelti dall'Inquisizione romana, in collaborazione con un membro della Compagnia. Le pressioni e l'abile difesa di Aquaviva, che sollecitò l'appoggio delle principali corti cattoliche europee e seppe controbattere le obiezioni dell'Inquisizione, non piegarono S., che non rinunziò ai suoi propositi di mutare il nome dell'Istituto e di modificarne le regole attraverso un decreto promulgato dallo stesso generale della Compagnia. Questi redasse il testo e lo trasmise al papa per mezzo del cardinale Santori, ma la morte impedì al pontefice di esaminarlo. S. seguì da vicino l'andamento delle missioni in Estremo Oriente, particolarmente in Giappone, dove il cattolicesimo in quegli anni raggiunse la massima fioritura prima dell'inizio delle persecuzioni. Il 19 febbraio 1588 vi costituì la diocesi di Funai, il cui patronato fu assunto da Filippo II. Nel 1586 eresse nelle Filippine una provincia francescana, con il compito di espandersi in India e in Cina; nel 1588 approvò le deliberazioni del sinodo tenuto a Lima nel 1583, dopo che erano state riviste dalla Congregazione del Concilio. Nel 1588 ricevette López Duarte, ambasciatore di Alvaro I re del Congo, che mirava a sottrarsi al patronato portoghese per sottomettere il suo Regno direttamente alla giurisdizione romana; tuttavia S. preferì rispettare i diritti del patronato. Durante il pontificato di S. l'attività dell'Inquisizione non fu particolarmente vivace: furono eseguite in tutto cinque sentenze di morte. Nell'unico autodafé, svoltosi il 2 agosto 1587 davanti alla chiesa di S. Maria sopra Minerva, abiurarono dodici accusati e furono condannati a morte altri quattro. Con una costituzione del 5 gennaio 1586 il papa impose ai vescovi e agli inquisitori di procedere contro gli astrologi, gli indovini e i fattucchieri. Il 20 giugno 1587 chiese la collaborazione delle Università di Parigi, Salamanca, Alcalá de Henares, Coimbra e Lovanio per redigere un nuovo Indice dei libri proibiti, per il quale preparò la bolla di pubblicazione, recante la data del 9 marzo 1590; tuttavia, a causa della sua incompletezza, esso non fu reso pubblico. S. morì il 27 agosto 1590 al calar della sera nel palazzo del Quirinale, colpito da febbri, all'età di sessantotto anni. Appena si sparse la notizia del decesso, la folla si riversò nelle strade ed espresse il suo malcontento nei confronti del passato governo cercando di abbattere la statua del papa, opera di Taddeo Landini, eretta dal Senato nel palazzo dei Conservatori. La notte seguente il cadavere del pontefice fu trasportato in S. Pietro per essere provvisoriamente sepolto presso la cappella di S. Andrea. Il cuore venne deposto nella chiesa dei SS. Vincenzo ed Anastasio, situata a poca distanza dal Quirinale, inaugurando un'abitudine continuata fino a Leone XIII. L'anno seguente, il 26 agosto, il cardinale Montalto fece seppellire solennemente i resti dello zio nel sepolcro che si era fatto preparare nella basilica di S. Maria Maggiore. Fonti e Bibl.: G.F. Bordini, De rebus praeclare gestis a Sixto V Pont. Max., Romae 1588; M. Mercati, Degli obelischi di Roma, ivi 1589 (rist. Bologna 1981); D. Fontana, Della trasportatione dell'obelisco vaticano, I, Del modo tenuto in trasferire l'obelisco vaticano et delle fabbriche fatte da papa Sisto V, ivi 1590 (rist. Milano 1978); Le relazioni degli ambasciatori veneti al Senato, a cura di E. 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